Che cos’è il linguaggio?

Una proposta didattica su Wittgenstein e Heidegger

 

Il quadro teorico…

    Wittgenstein:

Il linguaggio come raffigurazione del mondo

Dire e mostrare

I giochi linguistici

                        Heidegger:

Linguaggio e metafisica

In cammino verso il linguaggio

La parola poetica

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Wittgenstein dice che la difficoltà nella quale il pensiero si trova somiglia a quella di un uomo che voglia uscire da una stanza. Dapprima cerca di farlo attraverso una finestra, ma per lui è troppo alta. Quindi prova attraverso un camino, ma è troppo stretto. Ora, se solo volesse voltarsi, vedrebbe che la porta era rimasta sempre aperta.

 

(M.Heidegger a proposito di L.Wittgenstein, seminario su Eraclito, Friburgo 1966-67,

citato in D. Marconi, Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 339)

 

 

Wittgenstein

Il linguaggio come raffigurazione del mondo

La proposta didattica in oggetto prende le mosse dallo sfondo culturale sul quale si staglia l’elaborazione del Tractatus logico-philosophicus - testo peculiare, "piccolo libro di grande difficoltà", "lavoro eccentrico di un giovane pressoché sconosciuto [nota1]" - destinato a diventare ben presto un punto di riferimento imprescindibile nel panorama filosofico contemporaneo. In esso viene in luce il senso della filosofia intesa come "un’attività il cui risultato non sono proposizioni filosofiche, ossia un corpo di conoscenze filosofiche sul mondo (distinto dal corpo delle conoscenze scientifiche) […] ma il chiarificarsi di proposizioni che con la filosofia non hanno nulla a che fare (6.53) [nota2]"

Nel Tractatus Wittgenstein si propone di capire quale sia l’essenza del linguaggio, ovvero che cosa faccia di un linguaggio un linguaggio ("Tutto il mio compito consiste nello spiegare l’essenza della proposizione", Quaderni, 22 gennaio 1915), in parte ponendosi nella scia delle riflessioni già avviate da Frege e Russell, in parte prendendo significativamente posizione rispetto ad esse. E’ importante ad esempio ricordare che –a differenza di quanto sostenuto da Russell - in Wittgenstein non vi è una ‘svalutazione’ del linguaggio ordinario a favore di un presunto linguaggio ideale, perfetto: il linguaggio ordinario è di per sé già perfetto ("Tutte le proposizioni del nostro linguaggio comune sono di fatto, così come esse sono, in perfetto ordine logico", 5.5563).

Il tema dell’essenza della proposizione viene subito strettamente legato a quello dell’essenza del mondo come se si trattasse "di due lati, inscindibili, di un medesimo compito [nota3]": di qui l’intreccio profondo che lega le riflessioni sulla logica, quelle sulla forma della proposizione e sulla capacità del linguaggio di raffigurare il mondo, e quelle sui limiti del linguaggio stesso (problema cruciale di ordine sia logico sia etico).

Ripercorrendo la linea espositiva del Tractatus si incontra innanzitutto il problema della comprensione del significato delle proposizioni. Secondo Wittgenstein, comprendere il significato di una proposizione significa sapere come debba essere fatto il mondo affinché quella proposizione sia vera (il che è altra cosa rispetto al fatto di sapere se essa sia vera o meno [nota4]). All’interno di questo ambito di possibilità si dischiude per noi la capacità di comprendere anche enunciati che si riferiscono a stati di cose che non ricadono nella nostra esperienza immediata. Le proposizioni raffigurano stati di cose; sono immagini di stati di cose. Il mondo è cioè la totalità dei fatti nello spazio logico, il che significa mettere in prospettiva ciò che accade con ciò che potrebbe accadere. Ciò che interessa del mondo non è la totalità delle ‘cose’, bensì dei fatti: questo vuol dire che non si deve guardare al mondo come ad una collezione di ‘cose’, ma lo si deve intendere come un insieme di relazioni molto ben strutturate – elemento cruciale, questo, per capire cosa si intenda per raffigurazione come corrispondenza iconica.

Occorre a questo punto precisare che, nell’affermare che le proposizioni del linguaggio sono immagini, Wittgenstein sta pensando all’immagine in termini logici e non psicologici. Quello che qui interessa è cioè la possibilità di pensare uno schema, un insieme di articolazioni, una sorta di impalcatura concettuale che rispecchi un insieme di relazioni e di rapporti che esisterebbero nella ‘realtà’. Questa concezione iconico-raffigurativa del linguaggio è apparentemente molto controintuitiva. Per capire come Wittgenstein possa riuscire a vedere nel linguaggio una teoria raffigurativa incardinata sul concetto di forma logica si può pensare a questa metafora. Si pensi al significato che un foglio bianco può assumere per chi lo guarda: esso apparirà per lo più come qualcosa di vuoto e di indeterminato. Così come chi guardi il linguaggio in una prospettiva non filosofica lo penserà per lo più come uno strumento [nota5] che non intrattiene relazioni se non convenzionali con gli oggetti designati e difficilmente potrà ammettere che il linguaggio ‘raffiguri’ alcunché del mondo. Ma se chi guarda il foglio bianco osserva con l’occhio di un pittore, ecco che all’improvviso questo foglio dischiuderà un intero mondo di possibilità già molto ben delineate: "Per chi pensa il mondo in termini pittorici, il foglio bianco non è materia prima indeterminata, ma pura forma; esso ammette ogni possibile situazione, ma delimitando lo spazio del possibile, lo spazio logico delle situazioni visive (TR, 4.463). Esso non ‘dice’ ancora nulla, ma ‘mostra’ già tutte le proprietà formali di quello spazio logico [nota6]". Il linguaggio non dice nulla della sua capacità di raffigurare il mondo: però la mostra in continuazione. Non c’è nessun trucco nascosto, il problema è anzi che questa forma è sempre in vista e per questo non viene notata.

E’ opportuno a questo punto approfondire ulteriormente alcuni aspetti della teoria raffigurativa sottolineando in particolare che il suo presupposto risiede tutto nella capacità di identificare un elemento comune tra linguaggio e mondo: il linguaggio deve cioè avere qualcosa in comune con il mondo per poterne parlare con pretesa di sensatezza. Questo elemento comune viene da Wittgenstein ravvisato appunto nella forma logica, in cui si rispecchiano la forma della raffigurazione messa in atto dal linguaggio e la forma dei fatti. Nella forma logica si avrebbe così quel punto di contatto, quell’identità tra essere (del mondo) e pensare (il mondo) che sarebbe al cuore della ricerca filosofica stessa. [nota7]

Dire e mostrare

La forma logica, elemento chiave della raffigurazione stessa, non può però essere in alcun modo detta bensì solo mostrata, esibita, nel linguaggio stesso. Questa constatazione rappresenta il ‘cuore’ delle riflessioni proposte nel Tractatus. Perché l’immagine possa raffigurare anche la forma della raffigurazione, questa dovrebbe essere qualcosa di indipendente, un ‘meccanismo esterno’ alla raffigurazione stessa: ma senza la forma della raffigurazione, verrebbe meno anche lo stesso concetto di immagine [nota8]. La forma della raffigurazione, lungi dall’essere un’appendice esterna al discorso ed al linguaggio, è la condizione del suo stesso farsi: è – secondo una metafora dello stesso Wittgenstein – il punto cieco della visione che non vede se stesso, ma da cui si delinea il campo visivo, la possibilità stessa della visione.

Questo è peraltro il problema del Tractatus stesso che è costruito sì con la logica, ma non può appunto raffigurare la logica [nota9]. A sua volta, l’impossibilita’ di ‘dire’ la forma logica sembrerebbe riconnettersi idealmente ad un altro interdetto, quello esposto nella settima proposizione: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Si tratterebbe cioè di due ‘ostacoli’, di due ‘impedimenti’ legati al linguaggio, che sono stati anche illustrati evocando il lessico kantiano [nota10]: in un caso saremmo cioè in presenza di ciò che non può essere detto in quanto è trascendentale rispetto al linguaggio - ovvero condizione stessa del dire – nell’altro di ciò che non può essere detto perché va oltre i limiti del mondo – ed è perciò trascendente rispetto alle nostre possibilità di conoscenza e di esperienza. Stando a quando afferma lo stesso Wittgenstein nel Tractatus, ciò di cui non si può parlare è tutto ciò che riguarda il mistico, l’etica, la sfera del valore, il ‘senso del mondo’, che appunto in quanto ‘senso’ non è un fatto del mondo, non è nel mondo, bensì ‘cade fuori’ dal mondo.

Le considerazioni che sembrano scaturire dalla settima proposizione del Tractatus hanno, a loro volta, dato luogo ad interpretazioni controverse e talora contrastanti: si deve ritenere che l’etica e la metafisica in quanto ‘insensate’ non meritino di essere considerate (secondo l’interpretazione che ne darà il Circolo di Vienna) o si dovrà sostenere che Wittgenstein le voglia in qualche modo porre al riparo dalle ‘insensatezze’ e dagli equivoci dei discorsi umani (compresi quelli filosofici) in quanto sfere di suprema importanza? E che cosa vuol dire in ogni caso per chi legge il Tractatus fare i conti con la famosa ‘seconda parte non-scritta’ che sarebbe addirittura ‘più importante della prima’? [nota11]

Per rispondere a questo interrogativo sono state avanzate varie ipotesi. E’ possibile, ad esempio, ricondurre l’ultima proposizione del Tractatus ad una interpretazione ‘etica’ intendendo il termine nella sua etimologia originaria. Dai rompicapo della filosofia si uscirebbe solo abbracciando un ‘ethos filosofico’, una dimensione agita della ‘prassi’ filosofica: la stessa prefazione del Tractatus ci dice chiaramente che il testo non deve essere preso come un manuale, e nel suggerimento finale di utilizzarlo come una scala di cui poi liberarsi, come un supporto provvisorio, sembrerebbe quasi riflettersi la diffidenza platonica verso la scrittura che sembra privare la filosofia della sua dimensione vitale, agita, praticata [nota12]. La conclusione del Tractatus sarebbe quindi in linea con una concezione fortemente anti-ideologica della filosofia, che le assegna una funzione essenzialmente terapeutica.

Da altre parti è stata invece proposta un’interpretazione di segno differente, che accentua il taglio marcatamente ‘logico’ del Tractatus, rispetto al suo eventuale esito ‘mistico’: "La dottrina senza dubbio più controversa nell’interpretazione del Tractatus è quella relativa alla distinzione tra mostrare e dire – controversa sia per quanto riguarda una chiara identificazione della tesi effettivamente sostenuta, sia per quanto riguarda la valutazione delle sue conseguenze su un piano più generale. Si sottolineò sin dall’inizio che essa formulava una condizione di ineffabilità che finiva poi con il riconnettere la filosofia del linguaggio sostenuta nel Tractatus al suo esito ‘mistico’ […] E’ dubbio tuttavia che una simile connessione debba fin d’ora vincolarci. Infatti la distinzione tra mostrare e dire compare nel Tractatus anzitutto nel quadro della problematica relativa all’idea di un linguaggio ‘logico’ e sembra naturale considerarla anzitutto in stretta relazione a questo contesto, prescindendo dagli esiti finali e dall’accentuazione che eventualmente essa riceve rispetto ad essi " [nota13].

Sarebbe infine possibile ravvisare anche una curiosa assonanza con il lessico schopenhaueriano laddove Wittgenstein afferma che "I limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo" [nota14]. In questa prospettiva, affermare che l’etica è trascendentale non vuole dire semplicemente che essa è ‘fuori del mondo’ cioè trascendente, ma proprio che ‘essa deve essere una condizione del mondo’, interpretazione questa che sembra in qualche modo riavvicinare le due prospettive su ciò che il linguaggio non può mettere in parola: "Per Wittgenstein l’inseprimibilità dell’etica dipende da un lato dalla teoria della raffigurazione e dal carattere contingente dei fatti, dall’altro dal carattere necessario dell’inerenza ai valori" [nota15].

I giochi linguistici

Quali che siano le interpretazioni che vengono date al monito al silenzio della settima proposizione, vi è quantomeno da rilevare che ad essa ha fatto davvero seguito un lungo periodo in cui Wittgenstein si è volontariamente isolato dalla vita accademica, una sorta di periodo interlocutorio dal quale il filosofo uscirà muovendo critiche significative alla impostazione stessa del Tractatus.

Nel presentare il percorso didattico alla classe sembrerebbe consigliabile affrontare il delicato tema del rapporto tra il Tractatus e le Ricerche evitando di porlo in termini di cesura netta: sebbene le due opere contengano considerazioni di segno molto differente sulla natura del linguaggio, sembrerebbe opportuno seguirne le articolazioni sullo sfondo del pensiero complessivo dell’autore [nota16]. Ad esempio, pur nell’ambito di un approccio differente al tema del linguaggio, risulterebbe ancora fondamentale l’articolazione dire/mostrare che si manterrebbe nell’impianto delle Ricerche se esse vengono intese come una "presentazione perspicua dei fatti dell’uso, che fa ‘vedere’ le connessioni tra i diversi usi" [nota17]. Scomparirebbe invece ogni concezione essenzialista che voglia vedere qualcosa di ulteriore dietro i fenomeni (concezione essenzialista alla quale sarebbe riconducibile anche la stessa teoria della raffigurazione che generalizza la proprietà di alcune proposizioni di essere immagini di stati di cose, estendendola poi al linguaggio tout court).

Tornando allo sviluppo delle riflessioni di Wittgenstein, è bene sottolineare che, nonostante il Tractatus sia stato l’unico testo predisposto dall’autore per la pubblicazione, le riflessioni del filosofo ci sono comunque pervenute attraverso una serie di note personali o di appunti dettati nel corso degli anni agli studenti, appunti che hanno dato poi luogo in sede di redazione editoriale alla pubblicazione del Libro Blu e del Libro Marrone, nonché delle Ricerche Filosofiche. In sintonia con questo modo di procedere, la transizione fra il Tractatus e le Ricerche potrebbe quindi anche essere intesa come tentativo di mostrare "come sia possibile cambiare il nostro punto di vista sul linguaggio senza formulare una teoria del linguaggio" [nota18], lavorando cioè sull’intuizione secondo cui la filosofia sarebbe un’attività e non una teoria dogmaticamente enunciabile.

Nelle Ricerche Wittgenstein ritorna sulla teoria della raffigurazione per criticarne i presupposti: la teoria semantica di stampo agostiniano secondo la quale ad ogni nome corrisponde un referente non è sbagliata ma è vacua, non ci dice ancora nulla di cosa effettivamente accada quando noi parliamo, non ci dice nulla di significativo sul funzionamento del linguaggio, non ci spiega ancora in quale modo il linguaggio possa ‘toccare’ il mondo. Secondo la prospettiva abbracciata nelle Ricerche, il significato di un’espressione non sta semplicemente nel suo referente, bensì nell’uso che ne facciamo.

Altro elemento che viene passato al vaglio critico è la precedente nozione di definizione ostensiva, che sarebbe effettivamente in grado di spiegare il significato di un’espressione posto che siano già dati degli elementi di riferimento che permettano di interpretare la situazione e il valore dei termini che sono in gioco. Secondo l’esempio di Wittgenstein, la definizione ostensiva "Questo si chiama ‘seppia’ " aiuta a identificare un tipo di colore solo a condizione che si sappia già che in quella situazione e in quel discorso, una determinata espressione (‘seppia’) indicherà un colore (e non, poniamo, un animale). Ma questa comprensione comporta un livello di commercio con il ‘mondo’ e con le ‘cose’ già piuttosto articolato: non è sicuramente una definizione elementare.

Scompare inoltre l’idea che vi possa essere una qualche ‘essenza’ della proposizione, una sorta di ‘carattere generale’ che tutte le proposizioni devono condividere, quello che Frege avrebbe chiamato una ‘nota caratteristica’.

Ciò che resta è però ancora un attento lavoro nelle pieghe del linguaggio, che parte di nuovo dall’analisi della proposizione come ‘immagine’, ma che ravvisa in questa identificazione solo una prospettiva parziale del problema. Nella nuova prospettiva, raffigurare è solo uno tra gli innumerevoli scopi per i quali si possono utilizzare le proposizioni del linguaggio, tanto che questa molteplicità viene ora pensata in termini di ‘giochi linguistici’ sempre nuovi, che si susseguono incessantemente nell’uso. Coerentemente con queste premesse, non può essere fornita alcuna definizione di ‘gioco linguistico’ poiché non vi è un’essenza di tale espressione [nota19]: la si dovrà piuttosto comprendere basandosi su analogie e somiglianze del tipo delle ‘somiglianze di famiglia’. Nasce infine l’idea di grammatica, come insieme di regole d’uso di un particolare linguaggio in un particolare contesto (con l’avvertenza che tale grammatica non deve essere pensata come arbitraria, bensì del tutto coerente all’altra nozione cardine di ‘forme di vita’ [nota20]).

Compito della filosofia sarebbe quindi quello di chiarire la specificità dell’uso dei termini: "I problemi filosofici [...] si risolvono penetrando l’operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo, contro una forte tendenza a fraintenderlo". In questa conclusione si troverebbe una saldatura con quanto originariamente affermato nel Tractatus, laddove si affidava alla filosofia il compito della chiarificazione logica dei pensieri. La funzione affidata alla filosofia è di carattere terapeutico, si deve indicare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia.

 

 

 

 

Heidegger

Linguaggio e metafisica

Se il tema del linguaggio è la cifra di tutta la riflessione filosofica di Wittgenstein, Heidegger abbraccia esplicitamente l’ordine di considerazioni relative al linguaggio ‘soltanto’ - per così dire - in seconda battuta, ovvero dopo quella ‘svolta’ che di nuovo ha posto problemi di interpretazione analoghi a quelli che si pongono per Wittgenstein. Il termine ‘svolta’ (Kehre) è cruciale nel pensiero di Heidegger, poiché esso faceva già parte del progetto originario di Essere e Tempo , dove veniva inteso come il capovolgimento di prospettiva dalla delineazione del tempo come orizzonte trascendentale dell’essere alla chiarificazione dell’essere come soluzione dell’enigma del tempo (Tempo ed Essere) [nota21]. Quello che avvenne è che Heidegger non riuscì a completare il progetto iniziale proprio per il ‘venir meno delle parole’: il linguaggio della metafisica non consentiva di pensare questa ‘svolta’, constatazione questa foriera di un’ulteriore approfondimento del pensiero heideggeriano che si orienta quindi verso altri indirizzi di ricerca, verso altri ‘sentieri’, come ebbe a dire lo stesso Heidegger.

Il senso del nuovo orientamento della filosofia heideggeriana è stato, come già visto nel di Wittgenstein, anch’esso lungamente dibattuto. Con buona approssimazione, si potrebbe delineare il percorso di Heidegger come un tragitto che muove dalla ricerca del senso dell’essere, passa attraverso la constatazione dell’inadeguatezza del linguaggio della metafisica nel portare a compimento questo progetto originario, e approda a soluzioni di tipo differenti, tra le quali viene in luce il ruolo fondamentale del linguaggio inteso nella sua connessione storica e destinale all’essere. L’orizzonte linguistico diventa quindi l’approdo finale dell’ontologia: l’uomo è posseduto dal linguaggio, rispetto al quale si deve porre in un atteggiamento di ascolto. Il linguaggio è la casa dell’essere, è la via che conduce al cuore delle cose, soprattutto quando si presti attenzione alla ‘chiamata’ del linguaggio poetico, custode originario del significato delle parole come apertura di mondo. L’opera d’arte e la poesia sono luoghi di scaturigine di un processo interpretativo che coincide con il manifestarsi stesso dell’essere.

Ma è stato anche osservato che, seppur attraverso ripensamenti e mutamenti di prospettiva, si potrebbe delineare una sostanziale continuità nella riflessione heideggeriana qualora si pensi che "La riflessione sul linguaggio […] è l’unica via che permetta una ricomprensione storica dello sviluppo e della dinamica del pensiero […] Heidegger stesso dichiara la priorità di questa dimensione: la sua filosofia si muove intorno al problema del linguaggio e dell’essere, ed altresì non in modo successivo, quasi fossero due prospettive indipendenti e giustapposte l’una all’altra" [nota22].

Sebbene la sezione antologica del percorso qui proposto si articoli prevalentemente intorno alle riflessioni successive alle Lettera sull’umanismo, è opportuno ricordare che anche in Essere e Tempo vengono dedicate alcune sezioni al tema del linguaggio, che viene ricondotto al problema della comprensione e dell’interpretazione [nota23](e correlativamente alla problematicità, progettualità e struttura anticipatoria dell’Esserci): "La concezione del linguaggio di Essere e Tempo ruota interamente intorno alla tesi che il discorso è il ‘fondamento ontologico-esistenziale del linguaggio’. Heidegger privilegia la struttura espressiva e comunicativa del linguaggio, accentuando la sua importanza costitutiva dell’esistenzialità dell’esistenza, vincolando quindi all’Esserci la dinamica del problema dell’essere, della sua formulazione" [nota24]. Se il linguaggio viene qui elaborato essenzialmente dal punto di vista ontologico, già la stessa impostazione del problema ("In quale modo dell’Essere il linguaggio è di volta in volta in quanto linguaggio?") è destinata a condurre fuori dal recinto della filosofia tradizionale, di cui si vuole essenzialmente criticare la concezione segnico-designativa (che si limiterebbe a ‘mostrare’ nel senso di indicare) e il rilievo dato alla partizione platonica tra sensibile e sovrasensibile, che delimiterebbero le possibilità stesse della metafisica. Una diversa impostazione è invece quella che intende il ‘mostrare’ come un "portare qualcosa all’apparire" [nota25], impostazione da cui deriverebbe un diverso modo di intendere il rapporto tra l’uomo e le cose, e tra l’uomo e l’essere.

Altro nodo cruciale di Essere e Tempo è la scelta di abbandonare la prospettiva della ‘soggettività’, cioè il punto di vista dell’uomo tradizionalmente assunto dalla metafisica come privilegiato. E se l’errore della metafisica moderna è quella di fare dell’uomo il fondamento per eccellenza, "l’errore della metafisica tradizionale è stato quello di pensare l’essere come fondamento, riducendolo così a un ente, sia pure sommo; [...] la via alternativa che Essere e Tempo imbocca consiste nel cercare di ripensare l’essere non come fondamento stabile (in tal modo reificandolo), ma in relazione al tempo, nell’orizzonte della temporalità" [nota26].

La storia della metafisica occidentale lungi dall’essere riflessione sull’essere, è stata invece riflessione sull’ente a cui è conseguito l’oblio dell’essere. L’originario significato di verità (alètheia) da intendersi appunto come ‘svelatezza’ e quindi come un carattere originario dell’essere stesso, è stato da subito smarrito a favore della ‘correttezza’ (orthòtes) dello sguardo che coglie l’essere nel suo darsi [nota27].

L’impossibilità di concludere il progetto di Essere e Tempo mostra che il linguaggio non è un semplice strumento per l’uso, ma è qualcosa che deve essere pensato differentemente: ad esempio come orizzonte in cui il mondo si presenti e si lasci cogliere, in cui l’evento accada, sicché indagando il rapporto tra l’uomo e il linguaggio si potrà forse cogliere anche il rapporto tra l’uomo e l’essere. Le parole non devono essere intese come segni delle cose, quanto piuttosto si deve pensare che siano le cose ad essere chiamate all’essere dalle parole.

In cammino verso il linguaggio

Sull’incompiutezza del progetto inaugurato da Essere e Tempo Heidegger si pronuncia esplicitamente nella Lettera sull’Umanismo [nota28] nella quale vengono anche indicati i nuovi indirizzi della ricerca filosofica: la questione dell’essere pensato come Ereignis (ovvero non come essere dell’ente, bensì nella sua radicale differenza dall’ente), la questione del linguaggio e quella della tecnica [nota29]. Si determina quindi come necessaria una riflessione sul linguaggio che non può però articolarsi come ‘filosofia del linguaggio’, pena il tradurre di nuovo il linguaggio in un semplice oggetto di studio per un soggetto [nota30]. Di contro alla percezione di senso comune secondo la quale l’uomo "ha", "possiede" il linguaggio e il pensiero come suoi attributi, Heidegger riprende l’identità parmenidea di essere e pensare, tale per cui l’uomo non ha il linguaggio quanto piuttosto è nel linguaggio e nella dimensione di s-velamento che si apre attraverso il suo ascolto. L’uomo occidentale sembra aver smarrito oltre al senso dell’essere anche quello del linguaggio e del pensiero in questa loro originaria coappartenenza: il linguaggio viene concepito solo nella sua dimensione d’uso, come strumento [nota31] e non, com’era nel pensiero greco ‘aurorale’, come luogo di incontro tra uomini e dei. Il pensiero e il linguaggio prendono a tal punto congedo dall’essere da trasformare l’essere stesso in un proprio ‘oggetto’ di riflessione.

E’ opportuno notare che, coerentemente con l’impostazione di Essere e Tempo, che aveva già espunto il soggetto dalla riflessione filosofica, le considerazioni di Heidegger relative all’arte, ed in particolare alla poesia, non sono intese come un contributo all’estetica [nota32], bensì di nuovo all’ontologia: secondo quanto poi successivamente precisato dallo stesso Heidegger, la riflessione svolta in L’origine dell’opera d’arte intorno all’essenza dell’arte è rigorosamente determinata dal solo problema dell’essere (l’opera d’arte apre l’essere dell’ente).

La parola poetica

E come già in Essere e Tempo – in cui si fondava la ricerca sul modo di essere autentico dell’esserci – si tratta anche qui di andare alla ricerca del linguaggio ‘autentico’, ‘puro’ (e correlativamente dell’essere) che possa in qualche modo restituire l’essenza del linguaggio stesso: secondo Heidegger, tutti questi aspetti verrebbero propriamente in luce soltanto nell’ascolto della parola poetica. Solo nella parola poetica ciò che è nominato viene chiamato all’essere, solo nella parola poetica dimorano terra e cielo, mortali e divini: fare poesia è fare opera di verità, è s-velare qualcosa, far sì che l’essere si renda manifesto. Nel saggio Hölderlin e l’essenza della poesia, Heidegger fa riferimento a cinque frammenti di Hölderlin per analizzare l’essenza della poesia e la sua natura di ‘colloquio pensante’. Come è stato notato a questo proposito, " l’essenza ricercata non è l’essentia, cioè il concetto generale, astratto e sovratemporale ma il Wesen – originariamente, un sostantivo verbale – qualcosa che ci preme e ci coinvolge, dando senso alla nostra esistenza storica (e che appunto in questo senso è ‘essenziale’)" [nota33]. Il poetare è ‘occupazione innocente’ ma anche ‘il più pericoloso di tutti i beni’. Se appare nella figura apparentemente innocente del ‘gioco’ [nota34] è vero anche che a questo gioco è demandato il compito di manifestare l’apertura all’essere dell’esistenza umana. Questo dischiudersi, aprirsi di un mondo ha anche un’essenziale componente di storicità: "L’esistenza come modo d’essere dell’uomo (già tema dell’analitica esistenziale di Essere e Tempo) viene così ripensata nel senso di un evento storico-linguistico [nota35]". In questa apertura si dischiude anche l’orizzonte del sacro, poiché "E’ proprio nel nominare degli dei e nel farsi parola del mondo che consiste il colloquio autentico che noi stessi siamo".

Di grande rilievo sono anche le riflessioni svolte sul quarto frammento hölderliano in cui si contesta la concezione ingenuamente strumentalista che vede nel linguaggio la semplice attribuzione di un nome a qualcosa che già è (quasi si trattasse di applicare delle ‘etichette’ o come se la parola dell’uomo fosse originariamente semplice denotazione) per affermare che attraverso il linguaggio si innesca un processo di fondazione, di donazione che in qualche modo dà l’essere. L’estrema serietà di questa operazione si nasconde e si svela al tempo stesso nell’apparenza di un gioco lieve che il linguaggio poetico sembra intrattenere proprio laddove si manifesta come ‘frammezzo tra gli dei e gli uomini’: in questo gioco viene anche in luce il carattere essenzialmente storico della testimonianza poetica ("La poesia non è solo un ornamento che accompagna l’esserci, non è solo un entusiasmo momentaneo o addirittura solo un eccitamento o un intrattenimento. La poesia è il fondamento che regge la storia"). L’ascolto e l’interpretazione della parola poetica devono quindi avvenire a partire dalla nostra collocazione nel tempo presente: entro questo orizzonte ermeneutico la poesia "deve essere pensata in ciò che resta di inespresso per procedere sul ‘cammino della storia dell’essere’ " [nota36].

Il tema di ciò che resta inespresso nel linguaggio – tema che abbiamo visto essere centrale anche nella riflessione di Wittgenstein, così come il concetto di ‘gioco’ anche se con significato differente – è particolarmente importante in Heidegger proprio in relazione all’incompiutezza di Essere e Tempo. Ed è proprio riflettendo sull’essenza del linguaggio poetico che Heidegger ha modo di vedere come il venir meno della parola possa produrre esperienze di riflessione estremamente feconde: "Dove il linguaggio come linguaggio si fa parola? Pare strano, ma là dove noi non troviamo la giusta parola per qualcosa che ci tocca, ci trascina, ci tormenta, ci entusiasma. Quello che intendiamo lo lasciamo allora nell’inespresso e, senza che ce ne rendiamo pienamente conto, viviamo attimi in cui il linguaggio, proprio il linguaggio, ci sfiora da lontano e fuggevolmente con la sua essenza" [nota37].

Nel saggio L’essenza del linguaggio, Heidegger riflette su alcuni versi di George. In essi si dice che la dea del destino non riesce a trovare alcun nome per un gioiello raffinatissimo che il poeta le aveva portato e il gioiello sfugge così di mano: "Così io appresi la triste rinuncia/ Nessuna cosa sia laddove la parola manca" [not38], conclude George. Ma proprio questa parola della poesia, questa parola che pure manca e sfugge sembra essere più ricca e più viva e più evocativa della parola chiarificatrice e sicura del linguaggio ‘tecnico’ e rassicurante della scienza o della metafisica. Il linguaggio (e il cono d’ombra di silenzio che immancabilmente porta sempre con sé) è ciò che rende possibile l’esperienza e apre un mondo: solo il cammino verso il linguaggio porta a vedere come è proprio il linguaggio a rendere possibile qualcosa come il cammino stesso [nota39].

Nel rapporto dell’uomo con il linguaggio si cela il rapporto dell’uomo con l’essere. Il linguaggio parla: ovvero non può darsi altrove che nel parlare stesso e proprio per questo il parlare dell’uomo non risulta essere originario, bensì da subito dislocato nella polarità dell’ascolto e del rispondere [nota40]. E proprio nel linguaggio si manifesta il fondamento di tutti i problemi, ovvero il fatto che qualsiasi problema, per poter essere posto, deve essere articolato in maniera linguistica: "Ciò che l’uomo, in quanto mortale, ascolta e in virtù di cui parla, anche se non si può identificare con il linguaggio come struttura linguistica di parole e di regole sintattiche, è linguaggio perché nel linguaggio si fa presente e viene in luce; non può essere ‘altro’ in quanto ogni ‘altro’ dal linguaggio è sempre ‘dopo’ il linguaggio e non può essere assunto a suo fondamento […] Così ogni discorso sul linguaggio è sempre un discorso dal linguaggio; il discorso è nel linguaggio, mai, il linguaggio, totalmente, nel discorso" [nota41].

Allo stesso modo il discorso originario, quello della saga, non deve significare nel senso denotativo del termine: il suo compito è piuttosto quello di mostrare o indicare l’apertura di mondo entro cui è possibile parlare delle cose, è un dire che deve "far apparire non solo ciò che è presente, ma la sua presenza, cosicchè questa possa apparire nella parola" [nota42]. E la possibilità stessa dell’articolarsi di questo discorso dimora nel silenzio o nella quiete originari: "Il silenzio come quiete è il luogo di ogni movimento, di ogni discorso inteso come articolarsi di parole e come relativo muoversi delle cose e degli eventi umani […] Appartiene all’essenza stessa del linguaggio che essa ci impedisca di arrivare a sé. Nell’irraggiungibilità del linguaggio come tale si dispiega la stessa epocalità dell’essere che dà e lascia apparire le cose solo in quanto a propria volta si cela" [nota43]. In questo modo si verrebbe a delineare un’ulteriore convergenza tra linguaggio e ontologia, tra parola ed essere "accomunati dall’identico statuto del non essere presenti come lo sono le cose, e tuttavia non assimilabili al nulla" [nota44].

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