P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 21-22.33. 35-39.

“Considererò il mito come una specie di simbolo, come un simbolo sviluppato in forma di racconto, articolato in un tempo e in uno spazio non coordinabili a quelli della storia e della geografia critiche. Ad esempio, l’Esilio è un simbolo primario dell’alienazione umana, ma la storia della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso è un racconto mitico di secondo grado che mette in gioco personaggi, luoghi, un tempo, episodi fantastici; mi sembra che questa densità del racconto sia essenziale al mito, senza contare il tentativo di spiegazione nei miti eziologici che ne accentua ancor più il carattere secondario” (pp. 21 – 22).

“Il filosofo partecipa al regno dei simboli attraverso la mediazione della fenomenologia della religione, dei miti e della poesia, di cui si è parlato nella prima parte, e grazie alla mediazione dell’ermeneutica puntuale dei singoli testi, come la si è appena caratterizzata. Ma il suo compito precipuo è al di là. In che consiste, se non si deve ricadere nell’interpretazione allegorizzante? Se si esclude di trovare una filosofia nascosta nei simboli, mascherata sotto la veste immaginativa del mito, non resta che filosofare a partire dai simboli. Si deve, secondo un’espressione proposta all’inizio, promuovere il senso, formare il senso in una interpretazione creativa” (p. 33).

“Il filosofo non deve quindi fare una interpretazione allegorizzante del simbolo, ma deci­frare l'uomo a partire dai simboli del caos, della mescolanza e della caduta. È quel che ha fatto, ad esempio, Kant nel Saggio sul male radicale, dove il mito della caduta gli serve da rivelatore delle pas­sioni e dei mali e da strumento di radicalizzazione della coscienza di sé. Kant non allegorizza, ma forma, filosofando, l'idea di una massima malvagia di tutte le massime malvagie consistente nella sov­versione, una volta per tutte, della gerarchia tra la ragione e la sensibilità. Non voglio dire che Kant abbia esaurito le possibilità di pensare a partire dal mito, ma interpreto il suo tentativo come il modello metodologico di una riflessione spronata dal mito e propriamente responsabile di sé stessa. Senza l' ap­provvigionamento sottobanco del pensiero median­te il mito, il tema riflessivo crolla e tuttavia il mito s'inserisce nella filosofia solo come idea - anche se questa idea è, come dice Kant, «inscrutabile». E, poiché sono in un contesto kantiano, oserei parlare qui di una sorte di "deduzione trascendenta­le" del simbolo. Se è vero che la "deduzione tra­scendentale" consiste nel giustificare un concetto, mostrando come esso renda possibile la costituzio­ne di un ambito di oggettività, il simbolo usato come decifratore della realtà umana è "dedotto", nel senso tecnico del termine, allorché è verificato mediante il suo potere di suscitare, chiarire, ordina­re tutto un campo dell'esperienza umana. È il caso dei simboli e dei miti del male che sensibilizzano lo sguardo a tutto un aspetto dell'esperienza, a tutto un ambito che si può chiamare il campo della confes­sione, che affrettatamente si tende a ridurre all'er­rore, o all'emozione o all'abitudine o alla passività, o infine alla finitezza stessa - in breve, a una di quelle dimensioni dell'esistenza che non hanno bisogno dei simboli del male per essere aperte e scoperte. Se questo linguaggio appare troppo segnato da Kant, direi con l'Heidegger di Essere e tempo che l'interpretazione filosofica dei simboli consiste nel­l’elaborare degli esistenziali che esprimono le pos­sibilità fondamentali del Dasein. In effetti, sarebbe facile mostrare come gli "esistenziali" di Heidegger siano tutti derivati dalla sfera simbolica. Sono dei simboli filosoficamente interpretati. A partire dalla sfera dei simboli, è aperta una comprensione della realtà umana. L'esempio sviluppato ha il vantaggio di dispie­gare l'ermeneutica filosofica nella regione fami­gliare della coscienza di sé. Ha, per contro, l'incon­veniente di nascondere un altro aspetto del simbolo, o più esattamente l'altro polo del simbolo. Ogni simbolo, in effetti, è alla fine una ierofania, una manifestazione del nesso tra l'uomo e il Sacro. Considerando il simbolo come un rivelatore della coscienza di sé, in quanto indice antropologico, l'abbiamo amputato di uno dei suoi poli, fingendo di credere che il "conosci te stesso" fosse puramen­te riflessivo. Per contro, questo è un appello con il quale ciascuno è invitato a meglio situarsi nell'es­sere. Come è detto nel Carmide di Platone: «Il dio di Delfi dice: "Sii saggio", ma lo dice in qualità di indovino, in forma enigmatica; infatti, conosci te stesso e sii saggio sono la stessa cosa» (165a). Il simbolo, in conclusione, ci parla come indice della situazione dell'uomo nel cuore dell'essere - in cui si muove ed esiste. Compito del filosofo, guidato dal simbolo, sarà di infrangere il recinto incantato della coscienza di sé, della soggettività, spezzando il privilegio della riflessione, superando l' antropo­logia. Tutti i simboli, in effetti, tendono a reintegra­re l'uomo in una totalità, totalità trascendente del cielo, totalità immanente della vegetazione, della decadenza e della rinascita. In sintesi, direi che il simbolo dà a pensare come il Cogito sia all'interno dell'essere e non viceversa; la seconda ingenuità sarebbe quindi anche una seconda rivoluzione copernicana: l'essere che si pone nel Cogito scopre come l'atto stesso con il quale si distacca dalla totalità partecipi ancora del­l'essere che l'interpella in ciascun simbolo. Una filosofia nutrita dal simbolo sarebbe quindi il contrario di una apologetica che pretendesse di condurre la riflessione verso la scoperta di un igno­to; per contro, essa installa l'uomo a titolo prelimi­nare all'interno del suo fondamento: a partire da qui, incarica la riflessione di scoprire la razionalità del suo fondamento. Solo una filosofia nutrita al pieno del linguaggio può quindi essere indifferente al problema di come accedere all' essere e alle con­ dizioni della propria possibilità, avendo tuttavia costantemente cura di tematizzare la struttura razio­nale e universale della sua adesione allo stesso esse­re. Questa è, ai miei occhi, la potenza evocativa del simbolo. Permettetemi, per finire, di ripetere la sentenza iniziale sotto un'altra forma, più arcaica e più enig­matica. Questa versione è quella di Eraclito l'oscu­ro: “Il signore, cui appartiene quell'oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna” (Diels-Kranz, 22 B 93)” (pp. 35 – 39).