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Comunicazione Filosofica n. 13 aprile 2004
LA FILOSOFIA AL CINEMA
CHICAGO
A cura di Carla Poncina
Regia: Rob Marshall; Interpreti: Renèe Zellweger, Catherine Zeta-Jones, Richard Gere, Queen Latifah, Lucy Liu, Jonh C. Reilly; relizzazione USA-Canada 2002; durata 113’; genere: musical
″La verità è indivisibile, perciò non può riconoscersi
da se stessa; chi vuol riconoscerla dev’essere menzogna.″
Franz Kafka
Tratto da un musical storico, ambientato appunto a Chicago nel 1929, anno quanto mai simbolico per la storia americana, coreografato dal mitico Bob Fosse (Cabaret, All that jazz), il film costituisce un’opera prima di straordinario successo per un regista che viene dal teatro. Perfetti gli interpreti principali, calati brillantemente e ironicamente nei personaggi costituiti dalla classica coppia bionda-bruna Roxy e Thelma ( evidente citazione di Marylin Monroe e Jane Russel nel film Gli uomini preferiscono le bionde), dal cinico, brillante e costosissimo avvocato di grido Billy Flinn, dal marito di Roxy, l’invisibile, trascurato uomo-cellophane, dall’ambigua, straordinaria Mama, che come una divinità benevola e capricciosa insieme, regola la vita nella prigione dove sono finite, per aver ucciso rispettivamente marito e amante, Thelma e Roxy. Ma straordinari sono pure tutti gli altri personaggi che animano il proscenio (la chorus line), favorendo il gioco illusionistico di un continuo fluire dall’immaginazione alla vita e viceversa.
Il tema dell’incessante trascorrere dalla realtà al sogno, della difficoltà di discernere ciò che è vero da ciò che viene solo pensato, immaginato, si impone fin dalle prime scene, in cui si passa dal delitto al palcoscenico, da questo alla platea, dove Roxy a sua volta si immagina sulla scena, ripiombando immediatamente nella vita che, trascinandola rapidamente dall’ebbrezza erotica alla rabbia omicida, risulta in grado sommo teatrale.
Tanta brillantezza, unita a tanta inquietudine, rinvia al pensiero dei Sofisti, i sapientissimi interpreti della crisi della polis nella Grecia del V sec. a.c. Il loro pensiero appare inscindibilmente legato alla città, è all’interno di questa infatti che l’uso appropriato del linguaggio si propone come strumento di potere:
″ La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmare la paura e a eliminare il dolore, a suscitare la gioia e ad aumentare la pietà.″ (Gorgia, Encomio di Elena).[1]
Il loro pensiero si sviluppò in un’epoca in cui gli antichi criteri di verità e giustizia risultavano compromessi e i filosofi, abbandonando il tradizionale campo d’indagine, la phisis, si erano volti all’uomo, ″misura di tutte le cose″, individuando nella parola lo strumento più potente di cui egli dispone per esercitare il potere nella città e sugli altri uomini:
″Gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena […]. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell’animo e in inganni della mente. E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un finto discorso. Che se tutti avessero, circa tutte le cose, delle passate ricordo, delle presenti coscienza, delle future previdenza, non di uguale efficacia sarebbe il medesimo discorso.[…]. Nel più dei casi i più offrono, consigliera all’anima, l’impressione del momento.″( Gorgia, Encomio di Elena). Di fronte ai molti quesiti insolubili sollevati da Gorgia sparisce il criterio della verità, perché dell’inesistente, dell’inconoscibile, dell’inesprimibile – tali sono per Gorgia i caratteri dell’Essere- non c’è possibilità di giudizio.
Condizione essenziale perché l’inganno funzioni è che coloro cui ci si rivolge siano degli ingenui, se non proprio degli ignoranti. In modo spregiudicato, verrebbe da dire moderno, per la prima volta i sofisti analizzano e perfezionano l’uso della parola a fini di potere. La parola può trasformare la menzogna in verità, la verità in menzogna: ″Un solo discorso non ispirato a verità, ma scritto con arte, suol dilettare e persuadere la folla ″ (idem).
Nei discorsi dei sofisti, come in Chicago, va sottolineato l’utilizzo della retorica al fine di liberare l’agire da ogni responsabilità morale, anzi da ogni responsabilità tout court. Le parole verità, menzogna, colpa, espiazione, pena, perdono ogni significato preciso e tendono a confondersi le une con le altre.
Nel film il gioco delle parole si mescola con quello delle immagini, in un continuo rimando, e la con-fusione tra realtà e sogno[2] o immaginazione non potrebbe essere maggiore. Esemplare da questo punto di vista l’entrata in scena di Billy Flinn che canta un evidentemente ironico inno all’amore, mentre sullo sfondo scorrono immagini altrettanto ironiche ma dure, in cui campeggia il cinismo e l’avidità dell’avvocato.
Questo doppio registro richiama i Dissoi lògoi, i Discorsi doppi, , risalenti alla prima metà del IV sec., in cui l’ignoto autore sviluppa una tesi e un’antitesi sostenendo sostanzialmente l’identità dei contrari. Siamo di fronte a posizioni scettiche e/o relativistiche, all’interno delle quali non va sottovalutato l’elemento giocoso, di divertissement, che scaturisce dalla consapevole abilità retorica di cui fa mostra il sapiente. Si potrebbe parlare in un certo senso di giochi linguistici. E l’elemento giocoso e brillante è caratteristico dello stesso film che stiamo analizzando[3], al fondo del quale traspare una sostanziale messa in discussione di ogni tipo di valori che si pretendano assoluti:
″Se analizzi a fondo, vedrai che è così l’altra legge dei mortali: nulla è mai assolutamente bello né brutto; ma le stesse cose, come il momento le afferri le fa brutte; come si cangi, belle ″. [4]
E il sofista Antifonte: ″ L’individuo applicherà nel modo a lui più vantaggioso la giustizia, di fronte a testimoni, ma in assenza di testimoni seguirà piuttosto le norme di natura, perché le norme di legge sono accessorie, quelle di natura essenziali.[…]. Se uno trasgredisce le norme di legge, finchè sfugge agli autori di esse, va esente da biasimo e da pena; se non sfugge no."
La reazione socratico-platonica a queste posizioni fu durissima, anche se non sarebbero concepibili le raffinate modalità argomentative di Platone senza la lezione dei sofisti. Ne è testimonianza il dialogo Gorgia, in cui le opposte posizioni di Socrate e Callicle definiscono la distanza incolmabile tra i filosofi ricercatori di verità e i retori sofisti, che si accontentano del successo ottenuto nelle dispute, senza curarsi di verità e giustizia. Ecco la posizione di Callicle:
″Io credo, qualora nascesse un uomo che avesse adeguata natura, scossi via da sé, spezzati tutti questi legami, liberatosi da essi, calpestando i nostri scritti, i nostri incantesimi, i nostri prestigi, le nostre leggi, tutte contro natura, emergendo, da nostro schiavo, lo vedremmo nostro padrone e qui, allora, di luce limpidissima il diritto di natura splenderebbe.″
È la posizione che sarà ripresa da Nietzsche, uno dei maestri del sospetto [5], quasi con le stesse parole, e contro cui Socrate fatica a ribattere, e tuttavia insiste nella convinzione che l’abile uso della parola, la retorica, può dare potere successo, ricchezza, ma non felicità, la quale appartiene di diritto solo al giusto. Ma questa è un’altra storia.
Torniamo al film: trattandosi di un musical il piano della narrazione dei fatti si interseca continuamente con la realtà pensata, sognata, o immaginata, che traspare dai testi della canzoni, ammiccanti e ironici, i quali stanno lì a contraddire continuamente la realtà, che perde via via consistenza a vantaggio dell’illusionistica manipolazione operata dall’altro grande personaggio del film: l’avvocato di successo, il grande giocoliere della parola e della realtà, colui che a pagamento trasforma la verità in menzogna e la menzogna in verità : Billy Flinn. Il primo balletto e il geniale tip-tap in tribunale che costituisce l’arringa conclusiva e vittoriosa, costituiscono una vera illustrazione dei principi sofistici, anche attraverso la modalità dei dissòi logoi. Ne scaturisce il frantumarsi della verità, che in quanto tale può dirsi in un solo modo, mentre riflessa e spezzata in mille specchi appare, per ciò stesso, inganno e menzogna:
″oggi la Menzogna la devono ascoltare in tantissimi, quasi tutti, anche se spesso provoca indignazione. In più, grazie ai mezzi mediatici, è spettacolarizzata tanto da colpire l’immaginazione; in più fa parlare di sé, è sempre modificabile a seconda delle necessità; si arricchisce di particolari attraenti durante il suo percorso fino a diventare persino credibile per una percentuale altissima di ascoltatori″[6].
Queste parole non si riferiscono al film, né ai sofisti, ma descrivono la realtà di un’epoca in cui, grazie all’enorme proliferazione dei media, il controllo della parola e la possibilità di diffonderla coincidono con il potere tout-court, e apparire agli occhi del mondo significa in definitiva esistere.
A questo proposito esemplare è il personaggio del marito di Roxy. La sua intima natura è dichiarata ancora una volta attraverso una canzone: egli è mister Cellophane, l’uomo che non si vede e quindi non esiste. Il trucco da clawn che porta ne esplicita l’assenza di maschera, non di individuo e rinvia direttamente ai tragici, seppur divertenti, personaggi felliniani, come Cabiria ad esempio.
Il film in realtà testimonia di una lotta per apparire, per essere riconosciuti, più che per vivere. Anzi, il vivere in sé risulta veramente poca cosa, e di scarso valore, per i vari personaggi, rispetto alla possibilità di vivere un’esistenza di maschere:
"Prosopon era per i greci la maschera teatrale ed era anche il modo di essere visti dagli altri. Voglio quindi credere che da questo termine, dal suo ambivalente significato possa essere nata l’ idea «teatrale» nel filologo Luigi Pirandello, che da quella classica parola sia germinato il suo drammatico mondo: il dramma dell’essere e dell’apparire, della realtà e della finzione, della vita e della forma, dello smarrimento dell’io, della perdita dell’identità" (Vincenzo Consolo).
In questo contesto tutto fa spettacolo, e la scena dell’impiccagione di una delle presunte assassine, forse l’unica a non esserlo realmente, viene presentata come un numero da palcoscenico, in questo continuo gioco di rimandi tra teatro e vita. Il dramma vero non è aver ucciso o essere condannata, ma non ottenere nemmeno una fotografia, fermando per un istante quell’incessante fluire del tempo e delle cose che trasforma l’esistenza in nulla.
[1]Questo a dire il vero va riferito agli uomini più che alle donne che, anche quando sembrano prevaricare, risultano a ben vedere piuttosto vittime, come si evince ad esempio dallo straordinario encomio di Elena di Gorgia, citato poco sopra, e nel film preso in esame, a conclusione del quale le due stelle otterranno pure di continuare a ballare nei cabaret, ma grazie ad una lotta che si è svolta tra uomini: il procuratore distrettuale che aspira alla carriera politica e il famoso avvocato che più prosaicamente si accontenta del potere della ricchezza
[2] Il tema del sogno meriterebbe da solo un approfondimento, dato che è stato costantemente usato, data la forza insita nello stesso, per mettere in discussione la validità del reale.
[3] Va precisato che il tono giocoso è tipico del musical, anche se la ripresa del genere dopo il 2000 (Moulin Rouge, Chicago) appare caratterizzata da minor candore e ingenuità, maggior durezza nel rappresentare la realtà, rispetto alle produzioni degli anni ’40 e ’50.
[4] Da Ragionamenti duplici, trad. Di M.Timpanaro Cardini, in I Presocratici,vol.II .
[5] A proposito di maestri del sospetto, non furono forse i sofisti i primi, grandissimi, maestri del sospetto?
[6] Cornelio Valetto, Verità e menzogna, L’Unità, 10 ottobre 2003.
[1] A dire il vero questa versatilità appartiene a tutte o quasi le grandi opere classiche. Penso al pubblico della Commedia dantesca, o dell’Orlando furioso. Ma il paragone forse più adeguato è con il melodramma italiano, Verdi in particolare, conosciuto e cantato almeno fino alla metà del secolo scorso da italiani di ogni classe sociale.
[2] Mi riferisco in particolare ad un autore come Stanley Cavell, eminente studioso di Wittengstein, che in molte sue opere fa riferimento al cinema, arrivando ad affermare, in modo certo paradossale,"che c’è più filosofia in un balletto di Fred Astaire che in molti saggi accademici." Di lui ricordiamo: La riscoperta dell’ordinario, Carocci, Roma 2001, The World Viewed. Reflections on The ontology of film, Harvard University Press, Cambridge (Ma) 1971; Pursuits of Happiness. The Hollywood Comedy of Remarriage, Harvard University Press, Cambridge 1981, trad. It. Alla ricerca della felicità, Einaudi, Torino 1999.
[3] Ci riferiamo, seppure in modo del tutto parziale a G. Deleuze (L’immagine movimento.CinemaI, Ubulibri, Milano 1984, L’immagine tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989);U.Curi, Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, U.Curi, Ombre delle idee, Pendragon, Bologna 2002); Zizek (Il soggetto scabroso, Raffaello Cortina, Milano 2003).
[4] Antonio Gnoli, Quello sguardo dal bordo del letto, in Repubblica, 1-7-2003.
[5] Intervista di A.Gnoli a R.Calasso :Franz Kafka, l’allucinazione si chiama cinema, in Repubblica, 1-7-2003.
[6] Carlo Sini, nell’intervento da lui tenuto all’interno dell’annuale convegno della S.F.I., organizzato ad Urbino nell’aprile 2001, ha indicato il novecento come il secolo del cinema.
[7] Aristotele, Poetica, 51b.
[8] W. Benjamin,, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einaudi, Torino 1966. Tale aspetto è stato sottolineate da U.Curi nel saggio apparso in Iride, a.XV, settembre-ottobre 2002, p. 540.
[9] Platone, Lettera VII, 344c.
[10] Cfr. Le fiabe del lieto fine, psicologia delle storie di redenzione, di Marie-Louise von Franz, red edizioni, Novara (1986), 2004.
[11] Isabella Bossi Fedrigotti, introduzione a: Le fiabe del lieto fine, citato sopra, p. 9.
[12] Julio Cabrera, Da Aristotele a Spielberg, Bruno Mondatori, Milano 2000.