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Comunicazione Filosofica n. 13 aprile 2004

 

 

Filosofia e Critical Thinking

Suggestioni formali derivanti dal metodo del Counseling filosofico

 

di Domenico Massaro

 

L’educazione filosofica di base, come è noto, contribuisce alla formazione nei giovani di molteplici conoscenze e capacità di carattere sia contenutistico che formale. Tra le prime dobbiamo annoverare le nozioni circa i principali movimenti filosofici, lo studio dei protagonisti della storia della filosofia e la lettura e l’interpretazione di alcuni dei loro più significativi testi. Pur rappresentando senza dubbio un momento rilevante della cultura filosofica dei nostri giovani, tali competenze circa i contenuti non possono considerarsi né uniche né esclusive. Il lavoro filosofico comporta, infatti, anche obiettivi (e competenze) di carattere formale e metodologico, che si riferiscono ai principi logici, etici, estetici, politici, ecc., sulla cui base si costruiscono i sistemi di pensiero e si struttura la stessa conoscenza umana. Naturalmente, anche questi principi si collocano nella storia e s’intrecciano con lo sviluppo dei sistemi filosofici e con i loro modelli argomentativi. E, pertanto, a mano a mano che facciamo l’esperienza del discorso filosofico, abbiamo modo di conoscere e approfondire i principi del metodo deduttivo, dell’induzione, dell’abduzione, oppure le strategie del procedimento  dialettico, trascendentale, euristico, ermeneutico o analogico. Dal complesso di queste esperienze intellettuali – di carattere sia contenutistico che formale e metodologico – deriva il tratto tipico della formazione filosofica di una persona, che si suole anche designare come pensiero critico, o, con un’espressione in voga nel mondo anglosassone, Critical Thinking.  

Il cosiddetto “pensiero critico” con cui ha a che fare la formazione filosofica, dunque, non è un esito quasi taumaturgico del corso di filosofia, ma dipende dal modo in cui è condotto la lezione di filosofia, dallo spazio dedicato all’apprendimento delle strutture formali (a cui abbiamo fatto cenno sopra), dall’esperienza viva e concreta del dialogo e della scrittura filosofica. In termini più analitici possiamo dire che il consolidarsi del “pensiero critico” è collegato principalmente alle abilità di problematizzazione, storicizzazione, argomentazione.  Queste tre abilità coprono e, al tempo stesso, esplicitano la nozione polisemica (e ambigua) di “pensiero critico”. In estrema sintesi, mentre la storicizzazione disloca il soggetto nel passato (più o meno lontano), la problematizzazione riporta al nostro presente la parola dei filosofi e la rende utile per progettare il futuro. La storicizzazione e la problematizzazione sono momenti necessari e inscindibili della formazione filosofica di base e costituiscono il fondamento su cui si costruisce l’argomentazione. Senza la capacità di distanziare i problemi e le soluzioni, infatti, non saremmo in grado di avere una veduta ampia e sistemica della realtà, ma i problemi e le soluzioni della tradizione sono più interessanti se riletti alla luce dei problemi dell’oggi. Tale è la dialettica dello sviluppo civile e tale è la dialettica dell’esperienza filosofica. Possiamo dire questo concetto anche con parole diverse, ossia che è proprio della filosofia ciò che in qualche modo appartiene alla conoscenza (scientifica) in generale, e, cioè: articolare analisi e sintesi, veduta del particolare e veduta dell’insieme. Se la “storia” ci collega al passato e ci permette di acquisire una visione ampia e prospettica delle cose, il “problema” ha una sua fecondità teoreticamente euristica e ci mostra la dimensione mai conclusa e sempre aperta della filosofia, che in tal modo si prospetta come il territorio della “meraviglia” (cfr. Platone, Teeteto 155 d; Aristotele, Metafisica, A 2, 982 b). Dopo esser passati per l’esperienza della storia e la fatica del presente, possiamo guardare con più chiarezza in noi stessi, una volta che abbiamo provveduto a ripulire i vetri dei nostri occhiali. L’argomentare le nostre ragioni sarà ora operazione più agevole e meno ingenua.

 

Nel quadro appena delineato, che incentra l’attenzione principalmente sulle competenze formali del lavoro filosofico, il nostro discorso incrocia un campo di ricerca che oggi si sta affermando,oltre che in America, anche in Europa, quello della consulenza filosofica. Non intendiamo qui condurre un’analisi documentata del counseling, ma più semplicemente vogliamo mostrare come l’interesse per la pratica della filosofia – o, più semplicemente, l’interesse per il lato utile o piacevole e rassicurante della filosofia -  possa offrire suggestioni in ordine alla stessa didattica filosofica.

 

Come è noto, la consulenza filosofica è una pratica che, mettendo a frutto le competenze contenutistiche e formali della filosofia, tende alla risoluzione dei problemi pratici del consultante. L’orizzonte entro cui si colloca è appunto quello del problem solving, ove per “problema” intendiamo un  impasse, un punto morto, un nodo che non riusciamo a risolvere anche (forse principalmente) perché non sappiamo come trattarlo dal punto di vista logico o a cui riserviamo un trattamento errato  Ma si deve subito aggiungere che la concreta risoluzione del problema e l’eventuale raggiungimento dell’equilibrio devono essere una conquista personale del consultante, nella sua libertà e autonomia. Questo passaggio è decisivo per definire filosofica la pratica della consulenza. Senza libertà e autonomia non c’è infatti filosofia, neppure in termini di terapia e applicazione. In altre parole, nella relazione consulente la filosofia non può venire fraintesa nella sua caratteristica di fondo. E, dunque, il consulente deve farsi mediatore presso il suo pubblico di quelle abilità che maggiormente si sono espresse nella tradizione filosofica, ossia il rigore logico e argomentativo, che sovrintende sia all’interpretazione dei testi che all’elaborazione dei discorsi dotati di senso. Se il lavoro della consulenza filosofica si esplica essenzialmente sul livello dell’analisi e comprensione del problema, in vista della presa di una decisione razionale, in grado di muovere congruentemente anche le emozioni del consultante, allora dobbiamo convenire che la logica gioca un ruolo decisivo sia nella formazione del consulente, che nello sviluppo della pratica. Ed è su questo aspetto che voglio ora soffermarmi.

Il campo di azione specifico della consulenza filosofica, dunque, va riposto nell’obiettivo di incidere non solo e non tanto sulle idee (e la filosofia spontanea) del consultante, ma principalmente sulle procedure logiche di risoluzione dei problemi.

La consulenza tende a far guadagnare un punto di vista nuovo e a produrre un cambiamento nella prospettiva logica del soggetto. Il più delle volte, infatti, il conflitto (o il malessere delle persone “sane”) nasce dal fatto che la persona si sente prigioniera della situazione che lei stessa ha contribuito a determinare e da cui non sa come venirne fuori. Riuscire a trovare soluzioni nuove che ci portino fuori dalla palude in cui siamo caduti: ecco un impegno formidabile per le nuove pratiche filosofiche, che si dicono “filosofiche”, perché pretendono di indurre un cambiamento non di superficie, ma profondo, che riguarda cioè l’ottica con cui guardare al mondo, a noi stessi e agli altri. Alla domanda: “Qual è il tuo scopo in filosofia?” – Wittgenstein rispondeva: “Indicare alla mosca la via di uscita dalla trappola”. Più, in generale, l’uscita dalla trappola passa sovente per una ristrutturazione del campo logico e il passaggio da una prospettiva angusta a una veduta superiore e più ampia. La storia della logica è piena di esempi a cui possiamo attingere per riparare i tanti guasti che facciamo, con le parole e le inferenze sbagliate, quando tentiamo di risolvere un problema. Come la mosca di Wittgenstein, spesso non riusciamo a liberarci dai nostri stessi sbagli. La filosofia ci può dare una mano, ad esempio chiarendoci che spesso commettiamo errori di tipizzazione logica, scambiando un elemento per la sua classe di appartenenza, come nel celeberrimo paradosso di Epimenide di Creta (VI sec. A. C.) il quale afferma “Tutti i Cretesi sono bugiardi”. La creazione involontaria di paradossi è frequentissima nella comunicazione quotidiana ed è, altresì, la causa di tanti trattamenti erronei delle difficoltà della nostra vita. Un’applicazione ai casi della vita di questo discorso è, ad esempio, l’esortazione della madre (o dell’insegnante) al proprio ragazzo: “Sii spontaneo!”, “Studia, ma non perché te lo chiedo io, bensì per tua spontanea volontà!”. Naturalmente, consigli di questo tipo, oltre che illogici, sono anche destinati all’insuccesso: non producono un reale cambiamento, ma non fanno che aumentare il contorcimento mentale dei soggetti coinvolti nel problema. Ecco, dunque, che cos’è un impasse, ossia l’impossibilità di uscire dal problema e di assumere una decisione che segni un reale cambiamento. Che problema abbiamo davanti? dunque –  possiamo dire parafrasando Wittgenstein. Spesso abbiamo problemi analoghi all’antinomia del mentitore, che è una vera e propria difficoltà logica, per la cui soluzione si sono adoperati logici di ogni tempo, da Aristotele a Russell (la leggenda narra che un logico antico, Filita di Cos, vissuto all’incirca tra il 340 e il 285 a. C., sia addirittura morto a causa delle estenuanti meditazioni notturne spese nel tentativo di risolvere il paradosso). Oggi disponiamo della soluzione (soddisfacente) di Russell, secondo cui per risolvere le antinomie occorre escluderne l’autoreferenzialità, ossia si deve evitare che l’enunciato si riferisca a se stesso. Una soluzione intuita già da Aristotele che, negli Elenchi sofistici, discutendo delle fallacie logiche, distingue un aspetto del discorso per cui esso può essere considerato vero “limitatamente a un determinato oggetto” e un altro aspetto, per cui è “falso in linea generale”. In altri termini, il problema logico di Epimenide cretese nasce dalla riflessività dell’enunciato, ossia dalla confusione tra classe e membro. L’asserzione si riferisce a “tutte le asserzioni” di Epimenide cretese (la classe) e, dunque, anche all’asserzione in questione (che è un membro della classe). Come hanno mostrato  P. Watzlawick, J. H. Weakland e R. Fisch in Change (Principles of Problem Formation and Problem solution (1973), i paradossi della vita quotidiana del tipo “Sii spontaneo!” hanno la stessa struttura del paradosso del mentitore, ossia violano la teoria dei tipi logici, secondo cui qualunque cosa presupponga “tutti gli elementi di una classe, non può essere un elemento della classe”, pena il paradosso.

Applicando tale regola alla logica della decisione e del cambiamento, incrociamo quello che il counseling considera un momento decisivo della sua terapia, vale a dire la capacità di prendere le distanza dal problema e concepire strategie concettuali significativamente di livello superiore rispetto ai termini stessi del problema. L’impiego di alcune delle distinzioni della logica, dunque, ci può far uscire dalla trappola della riflessività della soluzione tentata e farci guadagnare un punto di vista nuovo, una prospettiva diversa che è la nostra soluzione tanto ricercata. A differenza del proverbiale asino di Buridano – che muore per non saper scegliere a quale dei due sacchi di paglia saziare la propria fame – la filosofia insegna che non sempre la soluzione va ricercata nella scelta tra due termini dati (uno o l’altro dei membri di una classe), ma a volte è opportuno spostarsi a un livello logico superiore (tutte le alternative, ossia gettare il proprio sguardo non su un membro, ma sulla classe). Tale manovra porta a una ristrutturazione del campo, ossia ci fornisce un modo nuovo di guardare al problema e ci rende più vicina la soluzione.

Ecco, dunque, in conclusione, qualche esempio di come la “pratica filosofica” possa offrire interessanti indicazioni, spunti o suggestioni in ordine a una didattica che si ponga il problema della formazione alla riflessività e al pensiero critico.