G. COLLI, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975, pp. 13 – 14. 110 – 113.

Le origini della filosofia greca, e quindi del­l'intero pensiero occidentale, sono misteriose. Secondo la tradizione erudita, la filosofia na­sce con Talete e Anassimandro: le sue origi­ni più lontane sono state cercate, nell'Otto­cento, in favolosi contatti con le culture orien­tali, con il pensiero egiziano e quello india­no. Per questa via non si è potuto accertare nulla, e ci si è accontentati di stabilire analogie e parallelismi. In realtà il tempo delle origini della filosofia greca è assai più vicino a noi. Platone chiama «filosofia», amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attivi­tà educativa, legata a un' espressione scritta, al­la forma letteraria del dialogo. E Platone guar­da con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i «sapienti ». D'al­tra parte la filosofia posteriore, la nostra filo­sofia, non è altro che una continuazione, uno ­sviluppo della forma letteraria introdotta da Platone; eppure quest’ultima sorge come un fenomeno di decadenza, in quanto «l'amore della sapienza» sta più in basso della «sapienza». Amore della sapienza non significava in­fatti, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello, che già era stato realizzato e vissuto.

Non c’è quindi uno sviluppo continuo, omo­geneo, tra sapienza e filosofia. Ciò che fa sor­gere quest'ultima è una riforma espressiva, è l'intervento di una nuova forma letteraria, di un filtro attraverso cui risulta condizionata la conoscenza di quanto precedeva. La tradi­zione, in gran parte orale, della sapienza, già oscura e avara per la lontananza dei tempi, già evanescente e fioca per lo stesso Platone, ai nostri occhi risulta così addirittura falsifi­cata dall'inserimento della letteratura filosofica (pp. 13 – 14).

   D'altra parte è lo stesso Platone che ci rende possibile il tentativo di una tale ricostruzione. Senza di lui, che pure è stato l'autore di un ri­volgimento così fatale e definitivo, sarebbe as­sai difficile avvertire il distacco da quell' età dei sapienti e attribuire al pensiero arcaico dei Greci un'importanza maggiore di quella di una balbettante anticipazione. I moderni si sono di solito accontentati di quest'ultima pro­spettiva, nonostante la significativa e limpida indicazione di Platone, quando chiama la propria letteratura « filosofia », contrapponen­dola alla precedente «sofia». Su questo pun­to non ci sono dubbi: a più riprese Platone designa l'epoca di Eraclito, di Parmenide, di Empedocle come l'età dei « sapienti », di fron­te a cui egli presenta se stesso soltanto come un filosofo, cioè come un «amante della sa­pienza », uno cioè che la sapienza non la pos­siede. Oltre a ciò, e in riferimento preciso al valore della scrittura, ci sono due passi fonda­mentali in Platone, la cui importanza è decisi­va ai fini di un'interpretazione generale del suo pensiero e della sua posizione nella cultu­ra greca.

Il primo passo è il mito raccontato nel F edro sull' invenzione della scrittura da parte del dio egiziano Theuth, e sul dono di essa, destinato agli uomini, che Theuth fa al faraone Tha­mus. Theuth magnifica i pregi della sua in­venzione, ma il faraone ribatte che la scrittu­ra è sì uno strumento di rammemorazione, ma puramente estrinseco, e che persino rispetto alla memoria, intesa come capacità interiore, la scrittura risulterà dannosa. Quanto alla sa­pienza, la scrittura la fornirà apparente, non già veritiera. E Platone commenta il mito ac­cusando di ingenuità chiunque pensi di tra­mandare per iscritto una conoscenza e un'ar­te, quasi che i caratteri della scrittura avessero la capacità di produrre qualcosa di solido. Si può credere che gli scritti siano animati dal pensiero: ma se qualcuno rivolge loro la pa­rola per chiarire il loro significato, essi espri­meranno sempre una cosa sola, sempre la stessa.

Il secondo passo è contenuto nella Settima let­tera. Parlando della propria vita e delle espe­rienze dolorose vissute alla corte del tiranno di Siracusa, Platone racconta che Dionisio II aveva preteso di divulgare in un suo scritto la presunta dottrina segreta platonica. Sulla ba­se di questo episodio, Platone contesta in li­nea generale alla scrittura la possibilità di esprimere un pensiero serio, e dice letteral­mente: «nessun uomo di senno oserà affidare i suoi pensieri filosofici ai discorsi e per di più a discorsi immobili, com' è il caso di quelli scritti con lettere}}. Ancora più solennemente ribadisce poco oltre, ricorrendo a una cita­zione omerica: “Perciò appunto ogni perso­na seria si guarda bene dallo scrivere di cose serie per non esporle alla malevolenza e alla incomprensione degli uomini. In una parola, dopo quanto si è detto, quando si vedono ope­re scritte di qualcuno, siano le leggi di un le­gislatore o scritti di altro genere, si deve con­cludere che queste cose scritte non erano per l'autore la cosa più seria, se questi è veramen­te serio, e che queste cose più serie riposano nella sua parte più bella; ma se veramente co­stui pone per iscritto ciò che è frutto delle sue riflessioni, allora" è certo che" non gli dèi, ma i mortali" gli hanno tolto il senno"”.

Gli interpreti moderni non hanno tenuto nel dovuto conto questi due passi platonici. Si tratta di dichiarazioni stupefacenti e sembra inevitabile trarne la conclusione che tutto il Platone a noi noto, cioè il complesso di opere scritte che sono i suoi dialoghi, e su cui si so­no basati sinora ogni interpretazione di que­sto filosofo e tutto l'enorme influsso da lui esercitato sul pensiero occidentale, tutto ciò insomma non era nulla di serio, secondo il giudizio di chi l'aveva scritto. Ma allora tut­ta la filosofia posteriore, a cominciare da Aristotele, in quanto presuppone più o meno di­rettamente una conoscenza e una discussione degli scritti platonici, sarebbe anch'essa qual­cosa di non serio? Questo almeno è il giudi­zio anticipato su di essa da parte di Platone, dato che tutta la filosofia posteriore sarà qual­cosa di scritto. Per il nostro presente scopo re­stano comunque due cose da osservare: anzi­tutto che un'interpretazione generale di Pla­tone non può prescindere da quanto si è det­to, e in secondo luogo che l'età dei sapienti va contrapposta, e in qualche modo merita di essere messa più in alto, rispetto all' età dei fi­losofi (pp. 110 – 113).