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Comunicazione Filosofica n. 12 giugno 2003
Fabio Minazzi
Dalla didattica alla teoresi e dalla teoresi alla didattica.
«I nostri bambini imparano già a scuola che l'acqua è composta dei gas idrogeno e ossigeno, o lo zucchero di carbonio, idrogeno e ossigeno. Chi non capisce queste cose è uno stupido. Le domande più importanti vengono occultate. […]
«Credo che l'educazione degli uomini si indirizzi oggi verso una riduzione della capacità di soffrire. Oggi si considera buona una scuola “if the children have a good time”. E questo prima non era il metro. E i genitori vorrebbero che i figli diventassero come loro stessi (only more so), eppure lasciano che ricevano un'educazione del tutto diversa dalla loro. - Non si tiene affatto alla capacità di soffrire, perché le sofferenze non devono esistere, ormai sono antiquate»
Ludwig Wittgenstein [1948]
1. Immanuel Kant e l'insegnabilità della filosofia
Nelle pagine finali della Critica della ragion pura Kant, trattando dell'architettonica della ragion pura, ha illustrato analiticamente il suo innovativo punto di vista critico-trascendentalistico, in virtù del quale il pensatore di Königsberg sostiene, apertamente, come non si possa mai insegnare la filosofia, ma si possa solo insegnare a filosofare.
Per argomentare il suo originale e, apparentemente, paradossale punto di vista critico-trascendentalistico Kant ha posto in relazione diretta la filosofia alla matematica. A suo avviso la differenza essenziale tra queste due discipline - costituenti entrambe due diverse specie di conoscenza razionale - non si radica affatto in una differenza di contenuto, bensì in una differenza di forma. A suo avviso
«la conoscenza filosofica considera quindi il particolare solo entro l'universale, mentre la conoscenza matematica considera l'universale nel particolare, anzi nel singolo, ma pur sempre a priori e mediante la ragione, per modo che, come questo singolo è determinato in base a certe condizioni universali della costruzione, così l'oggetto del concetto, cui questo singolo corrisponde solo in quanto suo schema, debba venire pensato in quanto universalmente determinato»[1].
Anche se nell'ambito della conoscenza della natura filosofia e matematica procedono «dandosi la mano», tuttavia per Kant non bisogna dimenticare la loro profonda differenza formale. Se è vero che per Kant la filosofia «consiste appunto nel conoscere i nostri limiti», occorre allora aver ben presente anche il diverso modo nel quale queste due discipline procedono nell'atto stesso in cui vengono trasmessi ai discenti i loro rispettivi contenuti disciplinari. Né va dimenticato come per Kant esistano anche due usi profondamente differenti della ragione umana, i quali, pur condividendo l'universalità della conoscenza e la sua innegabile produzione apriorica, tuttavia procedono in modo affatto differenziato, giacché mentre le forme dell'intuizione possono essere determinate in modo del tutto a priori, al contrario il contenuto della conoscenza implica, invece, un insopprimibile rinvio alla dimensione empirica della sensazione. I contenuti sensibili della conoscenza sono sempre dati empiricamente (sia pur nell'ambito dell'impostazione critica del trascendentalismo che contesta e rifiuta, coerentemente, la nozione empiristica classica della sensazione quale mera passività), mentre la forma della conoscenza può essere determinata a priori. Se nel primo caso i contenuti conoscitivi sono sussunti nelle differenti strutture aprioriche, nel secondo caso, invece, l'uso razionale si attua attraverso una costruzione dei concetti. La matematica sviluppa coerentemente questa costruzione dei concetti e, proprio per questo motivo, può anche costituire un'alcinesca seduzione specifica per un uso trascendente dei concetti in ambito filosofico, dando avvio ad una riflessione decisamente metafisica e dogmatica, sottratta ad ogni possibile controllo critico. Il sapere critico della filosofia kantiana si esercita anche e soprattutto nei confronti di questa specifica e quasi naturale tendenza metafisica, e si realizza proprio nel sottolineare i limiti che sempre concernono la natura della conoscenza umana.
In particolare Kant, riferendosi espressamente all'insegnabilità della matematica e a quella della filosofia, individua quello che, a suo avviso, costituisce la differenza specifica, irriducibile, delle due differenti forme di conoscenza razionale. A suo avviso, infatti, insegnando la matematica il docente e il discente finiscono per muoversi, inevitabilmente, nel medesimo orizzonte concettuale, poiché la dimostrazione di un teorema illustrata dal docente alla lavagna implica che anche lo studente debba ricollegarsi alle medesime fonti razionali cui fa appello il maestro. In altri termini, l'insegnamento della matematica presuppone che docente e discente si riferiscano ad una comune ed identica fonte conoscitiva razionale, quella stessa fonte da cui scaturirebbe, perennemente, la dimostrazione matematica e, più in generale, la conoscenza matematica. Quest'ultima si colloca su un piano di piena oggettività, con la conseguenza che può essere appresa e conosciuta solo nella sua dimensione oggettiva. In altre parole si può dire che per Kant la conoscenza matematica costituisce una conoscenza che risulta essere tale sia sul piano oggettivo (concernente direttamente la possibilità della sua insegnabilità da parte del docente) sia sul piano della soggettività del discente (che può appunto comprenderla solo se si rifà a quello stesso piano di oggettività della conoscenza cui deve attingere lo stesso docente nel momento in cui spiega o dimostra un determinato teorema matematico).
Secondo Kant questo processo di convergenza tra docente e discente, della loro autentica e progressiva identificazione con le fonti ultime ed oggettive della conoscenza non può invece attuarsi quando viene insegnata la filosofia: in questo caso quando viene presentato un determinato sistema filosofico quest'ultimo non è mai percepito dal discente come l'espressione oggettiva e razionale della conoscenza (in questo caso di quella filosofica), ma si configura, invece, come una conoscenza eminentemente storica e soggettiva, come un tentativo con il quale si è cercato di configurare, secondo una determinata possibilità teoretica, la conoscenza filosofica. In altri termini quest'ultima, pur essendo oggettiva nella sua intrinseca essenza, tuttavia viene sempre percepita da un punto di vista eminentemente soggettivo e storico da parte del discente che la studia. Se nel caso dell'insegnamento della matematica discente e docente possono rifarsi, contemporaneamente, alle fonti ultime, immodificabili ed oggettive, della conoscenza matematica, nel caso dell'insegnamento della filosofia, invece, docente e discente si trovano irrimediabilmente coartati su un terreno storico che li induce a considerare un determinato sistema filosofico come un tentativo di delineare l'oggettività della conoscenza filosofica:
«la causa di ciò sta nel fatto che le fonti conoscitive, onde può attingere il maestro, non si trovano da nessun'altra parte se non nei principi essenziali e autentici della ragione: il discepolo non può quindi individuarle in nessun altro luogo, né può eventualmente contestarle, e ciò, precisamente, perché l'uso della ragione si svolge qui solo in concreto, sebbene a priori, cioè ha luogo nell'intuizione pura ed appunto perciò infallibile, escludendo ogni illusione ed ogni inganno. Fra tutte le scienze razionali (a priori), dunque, si può imparare soltanto la matematica, e mai invece la filosofia (eccetto che storicamente): tutt'al più, riguardo alla ragione, si può imparare soltanto a f i l o s o f a r e»[2].
Secondo questa impostazione lo scarto esistente tra l'insegnabilità della matematica e l'insegnabilità della filosofia si radica, dunque, nella particolare condizione della stessa conoscenza filosofica la quale ultima non avrebbe ancora raggiunto un piano autenticamente oggettivo ed intersoggettivo. La filosofia, insomma, non ha ancora raggiunto un suo piano incontestabile e, di conseguenza, non costituisce ancora, come invece accade per la matematica, una scienza reale. Al più, la filosofia rappresenta solo una scienza possibile o, meglio ancora, l'idea di una scienza possibile che non si è ancora realizzata in una conoscenza razionale positiva, oggettiva ed intersoggettiva.
Se poi per filosofia si intende il sistema di ogni possibile conoscenza filosofica, in grado di valutare criticamente tutti i tentativi filosofici elaborati dall'umanità nel corso della sua storia, onde elaborare una conoscenza filosofica oggettiva, allora bisogna riconoscere che una tale conoscenza non è stata ancora effettivamente conseguita. Secondo Kant
«è necessario considerarla oggettivamente, se per filosofia si vuole intendere quel modello per valutare tutti i tentativi di filosofare, che debba servire per giudicare ogni filosofia soggettiva, la cui costruzione è spesso così varia e così mutevole. A questo modo, la filosofia è una semplice idea di una scienza possibile, mai data in concreto, alla quale tuttavia cerchiamo di avvicinarci per molte strade, sintanto che non venga scoperto l'unico sentiero, quasi cancellato dalla sensibilità, e sintanto che non ci riesca, per quanto è concesso agli uomini, di rendere la copia - sinora difettosa - uguale al modello. Sino a quel momento, non potremo imparare alcuna filosofia: in effetti, dov'è essa, chi mai la possiede, e da che cosa si può riconoscere? Si può soltanto imparare a filosofare, ossia si può soltanto esercitare il talento della ragione, applicando i suoi principi universali a certi esperimenti dati, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di indagare quei principi seguendoli sino alle loro fonti, e di confermarli o rifiutarli».
Tuttavia noi, come nani collocati sulle spalle dei giganti, possiamo ora renderci conto come il «talento della ragione» sia stato esercitato non solo, come immaginava Kant, nei confronti degli «esperimenti» filosofici del passato, ma anche nei confronti delle stesse fonti universali del sapere matematico. Anche in questo caso, infatti, nel corso della storia occidentale, il discepolo del matematico ha infine osato contestare le «fonti conoscitive» della conoscenza matematica e ciò che nell'epoca kantiana si presentava come a priori, indubitabile e necessario si è invece rivelato come frutto di una convenzione, sempre discutibile e contestabile. La matematica e la geometria cui guardava Kant con tanto ottimismo razionale (dogmatico), sono state ripensate come una possibile matematica e come una possibie geometria. Là dove sembrava vigere una fonte sicura e garantita della conoscenza matematica e geometrica, acronica e immodificabile perché necessitata e necessitante, si è invece scoperta la presenza critica del tarlo della storicità: anche per le conoscenze matematiche vale oggi quanto Kant riferiva esplicitamente, e in modo esclusivo, alla conoscenza filosofica. Le fonti universali e garantite della conoscenza matematica si sono rivelate essere meno garantite e meno universali di quanto si potesse mai sospettare nel Settecento. Anche ascoltando la rigorosa dimostrazione matematica svolta dal suo docente il discente può in realtà considerarla come un mero “tentativo” per sviluppare una determinata conoscenza matematica. Pertanto, ciò che un tempo appariva come oggettivo e immodificabile, si rivela essere anch'esso una conoscenza soggettiva e storica.
Si badi: questo singolare sviluppo della conoscenza matematica, del tutto imprevisto nell'orizzonte critico-trascendentalistico kantiano, se ha certamente messo in discussione l'impianto della rigida e dicotomica distinzione kantiana tra conoscenza matematica e conoscenza filosofica, non costituisce però - come invece avevano creduto all'inizio del XX secolo gli esponenti del neopositivismo - una sconfitta o una definitiva liquidazione critica dell'impostazione criticista kantiana. Certamente, il modo particolare con il quale Kant guardava al patrimonio conoscitivo della sua epoca non risulta essere più adeguato per render davvero conto, complessivamente, della problematicità e della complessità del nostro patrimonio tecnico-conoscitivo. Tuttavia, va anche aggiunto che la prospettiva critico-trascendentalistica non è stata affatto liquidata da questo suo debito particolare con una determinata forma della conoscenza storica umana. E questo accade, in modo apparentemente paradossale, proprio perché l'orizzonte critico-trascendentale individuato da Kant ci consente di meglio intendere anche questo imprevisto e singolare sviluppo non-kantiano della conoscenza matematica.
Effettivamente, il fatto, storicamente documentabile e accertabile, che il sapere matematico abbia infine assunto uno statuto epistemico molto più simile a quello plastico e critico attribuito da Kant, in via privilegiata, alla riflessione filosofica non fa che rendere ancor più feconda la prospettiva euristica del trascendentalismo critico kantiano. Siamo messi di fronte ad un autentico paradosso: per Kant il sapere matematico si presentava come un sapere più saldo ed oggettivo proprio per la sua configurazione intrinsecamente razionale ed oggettiva. Di fronte a questo stabile sapere la filosofia non aveva ancora raggiunto una saldezza minimamente paragonabile e tale da farle assumere una configurazione oggettivamente trasmissibile alle generazioni dei discenti. la fragilità intrinseca della riflessione filosofica, il suo essere costantemente esposta alle insidie della metafisica la trasformavano inevitabilmente in un tentativo, eminentemente storico, che poteva solo essere studiato nella sua valenza di mera “prova” teoretica, che il discente - e anche il nuovo filosofo - non poteva che saggiare criticamente. Lo sviluppo storico successivo ha invece scompaginato queste carte kantiane e ora configura una situazione che allo stesso Kant sarebbe apparsa alquanto paradossale e critica. Infatti lo sviluppo del pensiero matematico si è svolto lungo una linea di tendenza assimilabile a quella in cui si è trovata, per secoli, la stessa filosofia. Col risultato che anche le fonti razionali della stessa riflessione matematica possono essere sottoposte ad una critica radicale, in grado di mostrarne tutta l'intrinseca convenzionalità. Ma questo aspetto, lungi dal trasformarsi in un marchio d'infamia costituisce invece la condizione paradossale del sapere umano. Meglio ancora il sapere umano, proprio attraverso questo sviluppo storico che ha finito per relativizzare le stesse fonti razionali del conoscere matematico, ha infine scoperto una sua antinomia costitutiva: quella a causa della quale l'uomo deve convivere con un sapere il quale, pur essendo “oggettivo”, in grado cioè di spiegare plausibilmente alcuni settori significativi del reale, delineando anche talune predizioni (che hanno poi un riscontro positivo), d'altro canto e anche “relativo” non solo perché sottoposto ad un incessante sviluppo storico-critico, ma anche perché concerne sempre settori delimitati e parziali del reale. Secondo questa pista prospettica, ad un tempo epistemologica ed ermeneutica, l'oggettività della conoscenza si salda strettamente con la sua stessa relatività storica e proprio questa tensione antinomica costituisce la sfida più radicale del sapere scientifico, così come si è venuto configurando nel corso degli ultimi secoli. Ma è proprio su questo terreno, eminentemente antinomico, che il trascendentalismo kantiano può aiutare a dipanare criticamente un problema come quello conoscitivo che si rivela sempre più complesso e tale da richiedere degli specifici paradigmi multidisciplinari per essere circoscritto e meglio rappresentato. Inutile aggiungere come nel compiere questa affermazione occorra senza dubbio liberare il kantismo da tutte le sue sclerosi e dal suo stesso soffocante “spirito di sistema”. Ma questo doveroso ripensamento critico del kantismo non intacca in alcun modo il suo specifico taglio critico-trascendentale e la specificità epistemica ed ermeneutica della sua ottica prospettica, mediante la quale la torsione critico-trascendentalistica introdotta dalla «rivoluzione copernicana» ci suggerisce di rileggere, in modo profondamente innovativo, non solo lo statuto epistemico della filosofia, ma anche quello del sapere scientifico oggettivo, più consolidato e paradigmatico e la sua stessa, intrinseca, storicità.
Né andrebbe inoltre dimenticato come Kant, nel sostenere il suo punto di vista, in base al quale «si può soltanto imparare a filosofare», abbia anche precisato come il concetto di filosofia possa essere inteso in due differenti accezioni: come concetto eminentemente scolastico e come concetto eminentemente cosmico. Se il primo concetto scolastico implica e attua, di per sé, un riferimento privilegiato ad un sistema complessivo delle conoscenze, il secondo si configura, invece, come «la scienza della relazione di ogni conoscenza con i fini essenziali della ragione umana (teleologia rationis humanae), ed il filosofo non è un artista della ragione, bensì il legislatore della ragione umana». Dunque per Kant il matematico, il fisico e il logico sono, sostanzialmente, degli «artisti della ragione», mentre il filosofo, di contro, proprio in virtù del conceptus cosmicus della filosofia, si configura, invece, come un «legislatore della ragione umana» in grado di mirare all'unità sistematica del sapere dal punto di vista dei differenti fini disciplinari. In questa prospettiva critica la filosofia cosmica si configura, insomma, secondo la migliore tradizione trascendentalistica della «metafisica critica», come lo studio della «connessisone sistematica dell'intera conoscenza» la quale trova, infine, un suo riferimento privilegiato nello studio dell'uso speculativo e in quello pratico della ragione pura, ambiti che per Kant vengono conclusivamente espressi, rispettivamente, dallo studio della metafisica della natura e dallo studio della metafisica dei costumi (tutte espressioni nelle quali, naturalmente, il termine “metafisica” va ormai assunto nella nuova accezione critica kantiana, coincidente con lo studio critico-trascendentale delle rispettive “ontologie” poste in essere dai differenti usi, speculativi o pratici, della ragion pura[3]).
Ma allora, potremmo infine chiederci, in questa specifica prospettiva critico-trascendentalistica il filosofare e la sua stessa insegnabilità come possono mai essere intesi? Se da un lato si accetta di confrontarsi seriamente con l'evoluzione della conoscenza umana, quale si è svolta da Kant ai giorni nostri e se, di contro e dall'altro lato, si accetta anche il fecondo suggerimento euristico kantiano, bisogna allora concludere che la riflessione filosofica e il suo stesso insegnamento devono tener conto, in primo luogo, proprio di quella torsione critico-epistemica introdotta dalla «rivoluzione copernicana» inaugurata da Kant con l'elaborazione del suo programma criticista. Per questa ragione l'insegnamento della filosofia non può più astrarre dallo studio dei differenti e specifici quadri concettuali che contraddistinguono le differenti forme del sapere umano e, di conseguenza, la sua insegnabilità (sia a livello universitario, sia a livello medio) deve mettere in evidenza proprio questa dimensione eminentemente critico-formale per mezzo della quale quella «connessione sistematica dell'intera conoscenza» si configura non già attraverso la delineazione di un sistema complessivo e definito delle conoscenze, bensì nella costruzione di una prospettiva critica in grado recuperare pienamente la dimensione concettuale presente entro ogni specifico ambito disciplinare. Né può essere taciuto come in questa prospettiva, che risulta essere, ad un tempo, didattica e culturale, il ruolo della filosofia non possa essere né depotenziato, né, tantomeno, eluso o ridotto ad un hortus conclusus. Al contrario, la pratica della riflessione filosofica si delinea come l'orizzonte entro il quale il problema della verità e quello del senso recuperano una capacità di dialogare con i differenti saperi disciplinari, offrendo anche un comune terreno problematico per un fecondo confronto tra le differenti discipline. Il che significa, nel concreto agire dell'azione scolastica quotidiana, saper individuare nella filosofia un comune terreno ermeneutico entro il quale far interagire i differenti saperi disciplinari, senza peraltro rinunciare a quel particolare e specifico patrimonio conoscitivo cui la stessa tradizione filosofica ha messo capo nel corso della sua stessa esistenza storica e concettuale. Ma questa conseguenza, che, di primo acchito, sembra del tutto banale e scontata se ci si colloca nell'ottica prospettica suggerita dal trascendentalismo-critico kantiano, in realtà necessita, a sua volta, di un suo più articolato confronto con le differenti e opposte alternative che spesso cercano di imbrigliare o di liquidare la possibilità stessa di una autentica riflessione filosofica nel quadro della trasmissione (universitaria e media) dei differenti saperi disciplinari.
2. Il docente di filosofia deve essere filosofo?
Le considerazioni svolte nel precedente paragrafo possono tuttavia far sorgere nel lettore un'obiezione decisiva e motivata. Infatti la decisione di svolgere delle considerazioni attinenti la didattica della filosofia prendendo le mosse, in modo specifico e dichiarato, da una determinata posizione filosofica e, in particolare, da quella, eminentissima, delineata e suggerita da Kant, non costituisce forse un limite intrinseco per impostare una seria riflessione oggettiva sulla didattica della filosofia? In altri termini, si potrebbe obiettare come queste considerazioni risentano troppo del particolare punto di vista teorico criticista difeso dal loro estensore. Di conseguenza, si potrebbe chiedere a quest'ultimo di assumere un'ottica prospettica molto più comprensiva e flebile, teoreticamente meno delineata, necessariamente non legata a questo o quel determinato indirizzo filosofico specifico.
Apparentemente questa critica e questa richiesta sembrano del tutto plausibili e corrette. Tuttavia, a ben considerare il problema, esse prestano il fianco a molteplici considerazioni critiche. E' veramente possibile affrontare il problema didattico dell'insegnabilità della filosofia senza possedere un proprio autonomo punto di vista filosofico? Non solo: l'eventuale assunzione di un tale, assai improbabile, punto di vista neutro e incontaminato (incontaminato, naturalmente, da un punto di vista teorico) è altresì auspicabile? Ancora: non è forse vero esattamente l'opposto, che quando si inizia a riflettere sulla possibilità dell'insegnamento di una qualsiasi disciplina (e, in questo caso, della filosofia, in particolare) si è comunque costretti ad assumere un proprio punto di vista specifico e particolare, alla luce del quale viene poi articolata la riflessione sulla possibilità dell'insegnamento della filosofia? Si può veramente insegnare la filosofia senza nutrire alcuna specifica propensione per la disciplina che si vuole trasmettere? Si può essere docenti di filosofia senza filosofare? Ancora: si può filosofare senza inclinare per un determinato punto di vista teorico? E si può forse tacere la propria inclinazione teorica? Oppure, di contro, il docente di filosofia può insegnare questa materia specifica indifferentemente, come potrebbe insegnare qualunque altra disciplina? Ma si può veramente insegnare qualunque disciplina senza esserne coinvolti, senza sentirla carne della propria carne, sangue del proprio sangue? Si può praticare, studiare ed insegnare una disciplina senza esserne coinvolti non solo come docenti e studiosi, ma anche come uomini, in carne ed ossa, vivi in mezzo ad altri uomini?
Per parte mia ritengo che tutte queste diverse considerazioni (e altre che, agevolmente, si potrebbero variamente affiancare) sono in grado di mettere in piena evidenza tutti i limiti intrinseci di una posizione, astratta e dogmatica, come quella coincidente con la contraddittoria richiesta di trattare un determinato problema (come quello attinente la didattica della filosofia) senza tuttavia possedere un proprio specifico punto di vista teorico alla luce del quale quello stesso problema può essere effettivamente affrontato e discusso. In realtà, l'illusione di non possedere un tale punto di vista prospettico costituisce, appunto, una mera illusione dogmatica, perché poi, inevitabilmente, ognuno prende sempre le mosse da un suo specifico orizzonte teorico, alla luce del quale affronta e risolve i problemi che deve o vuole discutere con i suoi discenti. In questo caso è allora decisamente meglio assumere esplicitamente, alla luce del sole, un determinato punto di vista, difendendolo in modo consapevole e critico, onde poterlo presentare ed analizzare in tutta la sua articolazione e poterlo quindi porre costantemente a confronto con la situazione reale che si vuole affrontare. Insomma se si vuole insegnare ai propri discenti a filosofare è molto meglio che il docente costituisca, non solo nelle ore di lezioni, il miglior modello di riferimento per questo stesso “filosofare”. Anche perché un'eventuale e drammatica scissione tra la figura del docente che filosofa in classe in un modo e poi, nella vita pratica (quella della scuola e quella più generale della società in cui vive) si comporta in modo difforme o addirittura contrario costituisce già, per gli studenti, una lezione che difficilmente può poi essere rimossa o trascurata.
So bene che proprio questo atteggiamento volto a dichiarare apertamente il proprio punto di vista filosofico e teorico è sistematicamente evitato non solo dagli insegnanti, ma anche da molti manuali scolastici (e non mi riferisco esclusivamente ai manuali di filosofia o a quelli delle sole discipline umanistiche, ma anche a quelli delle discipline scientifiche che hanno anch'essi la disdicevole e diffusa tendenza di presentare la propria trattazione in modo apparentemente “asettico” e “neutro”, tacendo tutti i problemi teorici che invece nascono per ogni dove nella trattazione di qualunque argomento, umanistico o scientifico). Tuttavia, reputo che un tale atteggiamento, per quanto diffuso e comune, costituisca qualcosa di profondamente sbagliato e scorretto.
Sbagliato e scorretto, in primo luogo, nei confronti del rapporto educativo e culturale che pure si vuole intrattenere con i propri discenti. Dal punto di vista del dialogo educativo e della stessa possibilità di trasmettere, con efficacia, dei contenuti disciplinari specifici è infatti irrinunciabile aprire un confronto sincero e diretto con i propri stessi discenti. Non certamente per prevaricarli o per condizionarli, come purtroppo troppo spesso succede, soprattutto quando si tacciono le proprie personali prese di posizione (in questo caso si pretende addirittura di trasmetterle, in modo del tutto truffaldino e tacito, come coincidenti, in modo pressoché “oggettivo” e “naturale”, con la disciplina insegnata…).
In secondo luogo, questa dichiarazione d'intenti (che, naturalmente, va compiuta in modo progressivo e adeguato ai livelli di comprensione e di sviluppo degli stessi discenti) risulta essere indispensabile onde consentire un confronto teorico onesto, sincero e alla luce del sole, tra le proprie prese di posizioni teoriche, tra i propri orizzonti di riferimento culturali, civili ed esistenziali, e le diverse possibilità di scelta culturale e teorica che possono e devono essere poi assunte, in piena libertà, dai propri docenti. In questo senso il docente non può che essere un collaboratore attivo ed intelligente dei suoi discenti che gli sono affidati proprio perché l'insegnanti li aiuti a crescere e maturare in piena libertà ed autonomia di pensiero, onde trasformali in cittadini in grado di assumere responsabilmente le loro libere decisioni.
In terzo luogo, la chiarificazione del proprio punto di vista prospettico aiuta immensamente il discente a meglio orientarsi nel dedalo delle differenti prospettive teoriche. Non solo: questa chiarificazione consente al discente non solo di meglio intendere la natura e la finalità della riflessione filosofica, ma gli permette anche di percepire il valore reale ed intrinseco del filosofare nell'ambito del modo concreto con il quale il suo docente si confronta e si muove a contatto con i problemi disciplinari che affronta nel corso dello svolgimento del proprio programma, ma anche nei confronti della stessa vita quotidiana e di tutte le sue molteplici istanze. Non bisogna dimenticare che soprattutto gli studenti delle scuole secondarie superiori vivono, per la loro età, in una situazione esistenziale del tutto particolare, alla luce della quale sviluppano un peculiare spirito critico (spesso anche decisamente feroce, perché legato ad una quasi naturale sincerità di pensiero - che non ha ancora appreso le alchimie di un vivere trasversale ed obliquo e di un pensare tendenzialmente ipocrita, se non decisamente menzognero). Di per sé lo studente, per la sua stessa età, è poco incline ad essere indulgente con gli adulti che incontra quotidianamente, né è pienamente consapevole della complessità delle differenti situazioni, pertanto, non cogliendo sempre i grigi e le molteplici sfumature, tende ad appiattire la realtà entro dicotomie astratte e rigidamente contrapposte. Se è vero che il lavoro del docente deve essere anche volto a far comprendere ai discenti la complessità del reale, la presenza di paradigmi multipolari che ci aiutano a meglio intendere la pluralità di vincoli che strutturano ogni singola realtà, non si può tuttavia trascurare questo singolare approccio esistenziale (ed etico) che spesso anima i discenti in età scolare. Proprio con questo spirito critico i giovani studenti giudicano i propri docenti ed è con questo stesso spirito critico che occorre allora instaurare un dialogo e un confronto diretto, onde attuare e porre in essere un autentico processo di crescita e di progressiva emancipazione intellettuale.
Naturalmente non è facile instaurare questo dialogo che è, ad un tempo, conoscitivo ed educativo. Ma non è facile perché, in fondo, per dirla con Platone, il docente ha esattamente l'arduo compito di scrivere nell'anima del discente. Ma per scrivere veramente nell'anima del discente il docente deve essere in grado, in prima persona, di possedere lui stesso quel sapere e quella passione che gli consentono, appunto, di scrivere nell'animo del suoi discenti. Il discente, del resto, pur con tutte le sue inevitabili carenze conoscitive e metodologiche, non tarda affatto a percepire criticamente se il proprio docente ha veramente metabolizzato la materia che insegna. Il discente avverte, insomma, se le parole che il docente dedica alla sua disciplina sono carne della sua carne e sangue del suo sangue, oppure se quelle parole non possiedono alcuna fonte autentica, ma sono solo la stanca e acefala ripetizione acritica di una lezione mille volte ripetuta e mai metabolizzata. Proprio per questa ragione, in quarto luogo, il docente non può non possedere una sua specifica posizione filosofica la quale deve emergere ed essere dichiarata, naturalmente secondo i tempi e le circostanze strettamente connesse con l'effettivo lavoro didattico svolto nel concreto di ciascuna classe. Ma è comunque importante che queste prese di posizioni teoriche emergano con la dovuta chiarezza, perché aiutano immensamente il discente a meglio orientarsi e a meglio capire la disciplina che sta studiando. Aiutano anche a far vedere come la disciplina non costituisca una realtà morta e del tutto staccata dalla vita perché anzi la stessa astrazione filosofica, pur sospendendo e ponendo tra parentesi le pulsioni più immediate del mondo della prassi, tuttavia è da questa dimensione della vita che trae origine e sempre alla vita ritorna, per potenziarla e renderla più autentica, più critica, più degna di essere vissuta da uomini nati, per dirla con l'Ulisse dantesco, non per vivere come bruti, ma per seguir «virtute e canoscenza». Ma se questo fecondo aggancio con la realtà non è praticato, in prima persona, dal docente, inutilmente quest'ultimo si diffonderà nell'illustrare, per esempio, il comportamento di Socrate o quello di Giordano Bruno. Le sue lezioni rimarranno vuote astrazioni che producono solo quella morta gora di cui sono purtroppo piene le aule delle nostre scuole (intendo la «morta gora» prodotta da quella noia mortale che egemonizza molte aule scolastiche del nostro paese).
Non solo: questa dichiarazione concernente il proprio orientamento filosofico risulta essere tanto più importante e culturalmente feconda soprattutto se posta in connessione diretta con una disciplina dallo statuto eminentemente problematico come la filosofia. Per la verità, come ho accennato, un discorso analogo andrebbe ripetuto anche per le discipline scientifiche che pure sembrano possedere un orizzonte conoscitivo più stabile, sicuro e garantito, molto meno problematico, proprio perché problemi di senso e di verità si pongono anche nei confronti della stessa conoscenza scientifica, non appena si voglia andare al di là delle mere nozioni superficiali e banalmente dogmatiche (le quali, di per sé, non significano poi pressoché nulla, soprattutto se si ha a cuore la possibilità di una comprensione critica adeguata del valore culturale e oggettivo di una determinata teoria scientifica). Non appena si abbandona questo terreno superficiale e dogmatico che trasforma tutte le conoscenze (quelle scientifiche incluse) in indigeste “pillole” di sapere e si affronta il problema del loro significato (anche nell'ambito scientifico che i più vorrebbero immune da ogni problema epistemico e filosofico), in realtà le questioni aperte iniziano a rampollare per ogni dove e lo stesso docente è inevitabilmente invischiato a chiarire la sua stessa posizione personale, anche per aiutare i discenti a pensare con la propria testa. Questo chiarimento giova in modo eminente ai discenti perché li aiuta a meglio orientarsi entro il dedalo teorico delle differenti questioni affrontate e consente loro di confrontare, con maggior facilità, taluni assunti teorici con le dichiarazioni compiute dai loro stessi insegnanti.
Di contro, in quinto luogo, questo metodo mira alla trasparenza culturale ed umana ed è del tutto antitetico a quel modo di procedere, alquanto diffuso e consuetudinario, in nome del quale il docente non si pone in discussione ritraendosi sistematicamente e volutamente dalla possibilità di dichiarare la propria presa di posizione teorica (salvo poi introdurla subdolamente - come si è accennato - tacendola e negandola, nel corso di tutte le sue lezioni e nel corso dello svolgimento del suo programma). In tal caso il discente non è messo nella condizione di meglio comprendere il docente che ha di fronte e con il quale deve pur lavorare, ma finisce per essere trasformato in una sorta di “vaso vuoto” che si vuole “riempire” con un determinato patrimonio di idee e di pensieri. Un patrimonio che in ultima analisi si cerca, appunto, di trasmettere in modo apparentemente indolore e non dichiarato, facendolo assorbire alla chetichella e nel più completo silenzio metodologico. Silenzio che spesso facilita un'operazione culturale scorretta, con la quale il docente lascia credere che la propria particolare interpretazione di un determinato problema aperto (o di una determinata disciplina) coincida, senza residui, con il problema stesso o con l'intera disciplina insegnata. In tal modo si facilita unicamente un indottrinamento passivo e stupido dei discenti che vengono considerati, appunto, come dei recipienti vuoti che possono essere “riempiti” a piacimento del docente. Poi, quando la misura è colma, il discente viene infine licenziato, dichiarandolo “maturo”. Tuttavia è evidente come una tale impostazione costituisca l'antitesi più radicale di una scuola nella quale i docenti sono, per dirla con Nietzsche, i liberatori dei propri discenti. Al contrario, in questa scuola del silenzio i docenti sono, semmai, i castratori occulti delle coscienze giovanili, sono coloro che vorrebbero coartare lo spirito dei giovani cittadini affidati alle loro cure, piegandoli ad un loro particolare (e dogmatico) modo di intendere e sentire la vita e il mondo culturale.
E' ben vero come di fronte a queste due possibilità teoriche esiste poi un terzo caso che, forse, costituisce anche quello più diffuso e dilagante. E' quello dei docenti del tutto privi di una loro autentica presa di posizione teorica che insegnano una disciplina senza neppure sapersi orientare al suo interno, senza possedere un proprio punto di vista per mezzo del quale configurare, in modo autonomo e critico, l'intero sapere delle discipline che pure insegnano. Certamente questo costituisce il caso più degradante e umiliante per l'insegnamento di qualunque disciplina. Purtroppo non si può negare come questa situazione, eminentemente negativa e tale da richiedere interventi drastici (che però non vengono mai attuati), sia anche molto diffusa nella nostra scuola, nella quale si incontrano anche docenti del tutto non-motivati o completamente ignoranti, oppure, ancora, semplicemente incapaci di insegnare una materia che, complessivamente, non conoscono e ignorano tout-court. Naturalmente tutte queste differenti possibilità negative costituiscono un autentico scandalo, continuato ed aggravato, per l'insegnamento, tuttavia bisogna anche riconoscere che nella scuola italiana, purtroppo, esistono anche questi casi che non sono affatto sporadici. Non è naturalmente questa la sede per affrontare le gravi e molteplici cause sociali, civili e politiche che hanno determinato questa disastrosa situazione, tuttavia non si può negare come di fronte a questi docenti la richiesta formulata nelle pagine precedenti sia del tutto inattuabile e improponibile. Anche perché se questi docenti dovessero veramente dichiarare il loro particolare punto di vista - come, peraltro, a volte succede - non potrebbero far altro che comunicare ai propri discenti un punto di vista del tutto deprimente dal punto di vista culturale e civile, entro il quale il valore della cultura, l'importanza delle scelte teoriche e delle differenti opzioni culturali, teoriche, civili ed etiche, sono sistematicamente presentate come autentiche “fesserie” cui non bisognerebbe prestare il minimo interesse. Il che, sia ben chiaro, costituisce, comunque, una lezione per i discenti, anche se è agevole rilevare come una tale ammaestramento può anche avere effetti del tutto negativi e veramente devastanti, soprattutto se il discente non è messo nella condizione di confrontare queste scelte deprimenti, immorali ed anti-culturali con altre indicazioni alternative e conflittuali, più valide sul piano civile, culturale ed etico[4].
Ma se mio avviso si deve quindi rispondere in modo del tutto positivo alla domanda con cui si è aperto questo paragrafo, occorre anche rendersi conto come una tale impegnativa presa di posizione non possa non confrontarsi con lo stato complessivo di degrado della scuola italiana attuale. In altri termini occorre chiedersi se questa auspicata presa di posizione teorica possa essere veramente compatibile con l'attuale avvilimento della situazione scolastica italiana e come possa reagire a questa devastante tendenza decisamente anticulturale.
3. Il degrado della scuola e il suo progressivo dissolvimento culturale.
Per la verità se ci si vuole occupare oggi della didattica della filosofia, in Italia, non si può trascurare o eludere il drammatico problema del progressivo degrado della scuola italiana e del suo parallelo dissolvimento culturale che, negli ultimi anni, è stato sempre più perpetrato nelle nostre scuole, di ogni ordine e grado. Con la sola esclusione di qualche politico disonesto, gli osservatori, esterni ed interni al mondo scolastico, sono in genere concordi nel rilevare un progressivo e drammatico abbassamento dello standard medio del livello culturale dei giovani che escono da ogni livello scolastico italiano. Questo abbassamento è registrato, in primo luogo, dalle stesse famiglie entro le quali i genitori possono agevolmente confrontare il “sapere” conseguito dai loro figli ad un determinato livello di studio con quello che loro stessi avevano conseguito, anni addietro, a quel medesimo livello di istruzione. In genere questo confronto non è affatto positivo, né, tantomeno, esaltante.
Questa situazione è, di per sé, inquietante e drammatica, non solo per il singolo individuo, ma anche per l'intera collettività nazionale. Se infatti i giovani rappresentano, indubbiamente, il futuro della nazione e se è anche vero, baconianamente, che sapere è potere, allora una nazione che alleva giovani generazioni sempre più ignoranti e prive di conoscenze specifiche, non può certo felicitarsi con se stessa, né può guardare con ottimistica fiducia al futuro. Da qualunque parte si voglia valutare questo dato occorre riconoscere che esso è francamente inquietante e veramente preoccupante, sia per l'intero paese e i suoi destini, sia per la vita dei singoli individui. Soprattutto perché il mondo sta diventando sempre più complesso, competitivo e agguerrito (soprattutto sul piano conoscitivo) e quindi tale da richiedere al singolo quote sempre maggiori di conoscenze. Naturalmente in un mondo sempre più complesso e ricco di sapere si può comunque continuare a vivere (o a sopravvivere) anche rimanendo profondamente ignoranti, ma allora questa consapevole scelta di ignoranza ha un suo prezzo specifico che non deve essere sottaciuto e rimosso. Un prezzo che sarà pagato sia dal singolo individuo - cui si pareranno di fronte un numero molto più limitato di possibilità, anche esistenziali - sia dal punto di vista dell'intera collettività - un paese più ignorante dovrà pagare sempre di più la conoscenza altrui e la tecnologia fornita da altri paesi (più avanzati tecnologicamente e più ricchi di conoscenza). Se qualcuno nutrisse a questo proposito qualche dubbio potrebbe riflettere sull'esigua quantità di brevetti attribuibili al nostro paese negli ultimi anni. Oppure, potrebbe riflettere sul fatto, non meno inquietante, che gli italiani, pur essendo uno dei paesi in cui si sono venduti più telefonini cellulari, tuttavia non ha elaborato alcun modello di telefono cellulare in grado di reggere la concorrenza dei prodotti esteri. Col risultato che in Italia la stragrande maggioranza di cellulari sono di produzione estera, con i notevoli vantaggi economici che si possono agevolmente intuire.
Di fronte a questo dato macroscopico, che dovrebbe far tremare le vene ai polsi di tutte le persone minimamente consapevoli ed interessate al futuro del proprio paese, si registra, invece, un'incoscienza complessiva. In certi casi si registra, addirittura, una difesa di questo progressivo, e sempre più conclamato, degrado. Complessivamente, però, sia all'interno della scuola, sia al suo esterno, sono veramente poche ed esigue le forze che cercano di arginare o di combattere questo gravissimo fenomeno. In genere il degrado della scuola è, invece, semplicemente accettato, quando poi non è anche pienamente “giustificato” e “difeso”, quale nuovo volto del nostro essere proiettati, sempre più, in una società “post-moderna”[5] e post-capitalistica. All'interno della scuola si diffondono le posizioni più amene e incredibili, in virtù delle quali si stigmatizza la stessa denuncia di questo abbassamento culturale e ci si riferisce a questo autentico disastro sociale parlando, invece che di «perdita della conoscenza», di mera trasformazione dei livelli cognitivi. Con questa “foglia di fico” tutto diventa giustificabile: discenti che studiano per anni una lingua, con esiti scolastici del tutto positivi, ma che poi, una volta all'estero, non sanno ordinare una coca-cola in un bar. Studenti che ad una prima seria prova delle proprie conoscenze mostrano molteplici lacune e gravi, che nella scuola sono sempre giustificate o coperte con vari e fantasiosi trucchi burocratici, tutti eticamente disdicevoli e decisamente anti-culturali. Tra questi, in questa sede, basti ricordare la scandalosa invenzione del “sei rosso” (o “sei politico”) che ormai è entrato istituzionalmente a pieno regime nelle nostre scuola secondarie superiori e per mezzo del quale uno studente che pure ottiene un esisto negativo e insufficiente in una determinata materia può comunque essere promosso alla classe successiva, beneficiando, appunto, di una promozione politica, espressa dal “sei rosso”. In teoria lo studente dovrebbe ipoteticamente recuperare i suoi deficit culturali e conoscitivi nel corso dell'anno scolastico seguente. Tuttavia la geniale trovata ministeriale consiste nel riconoscere che la promozione attuata con il “sei rosso” ha un valore pienamente legale e che quindi lo studente, una volta ammesso alla classe successiva, non può più arretrare. E questo avviene anche se il medesimo non recupera affatto le sue lacune conoscitive. Conseguentemente i corsi di recupero svolti dagli insegnanti si riducono a poco più che ad una presa per i fondelli (di coloro che studiano, in particolare). Gli studenti possono anche non frequentare questi corsi: la loro promozione non può più essere messa in discussione. Al massimo, essendo stati già promossi alla classe successiva, manterranno quella insufficienza che trascineranno a vita, fino alla fine degli studi, senza un grave danno. Né mancano degli studenti che hanno già individuato quelle materie che possono permettersi tranquillamente di non studiare, senza tuttavia mettere mai in discussione la loro promozione scolastica. E' chiaro come questo assurdo e demenziale metodo scolastico (eticamente riprovevole e del tutto anti-culturale), oltre a rendere accettabili delle inaccettabili lacune conoscitive, finisca anche per essere fomite continuo di una immoralità diffusa, per mezzo della quale non solo si attua un progressivo e drastico abbassamento del livello culturale complessivo della scuola italiana, ma si mina anche, e in modo grave, lo stesso humus morale e civile su cui dovrebbe basarsi la vita di una nazione. Perché si mina la moralità civile di una nazione? Per il semplice e banale motivo che uno studente, vedendo i propri compagni che sono promossi con questi imbrogli-legalizzati del “sei politico”, non è affatto incentivato a studiare in modo serio, ma semmai è indotto ad accettare una situazione che premia gli ignoranti e tratta da fessi coloro che compiono il proprio dovere. Considerato da un punto di vista storico-politico-civile più ampio, il nobile sistema del “sei rosso” costituisce un elemento del tutto in sintonia con quella “nazione-da-carnavale” di cui già Gramsci, nei primi decenni del XX secolo, si lamentava apertamente, parlando della marginalità economica, culturale e civile dell'Italia nel contesto del quadro europeo ed internazionale.
Ho voluto accennare a questo problema non solo perché esso costituisce uno dei mali peggiori della scuola italiana contemporanea, ma anche perché non si può affatto prescindere da questa situazione specifica quando si pensa e si riflette sulla didattica della filosofia. Oggi, infatti, la difesa della cultura nella scuola (e non solo nella società) rappresenta una battaglia e un impegno civile che devono essere condotti con la piena consapevolezza di muoversi in netta contro-tendenza contro un mondo istituzionale e civile che - per svariati motivi (che non è ora possibile analizzare) - ha perso la bussola e si muove a tentoni, lungo un precipizio. Più in generale, questi aspetti rinviano direttamente al profilo di un paese sempre più allo sbando, nel quale il “carnevale” sembra appunto costituire la regola. Un paese sempre più provinciale, ignorante e marginale, largamente dominato dalla criminalità e dalla corruzione, nel quale le poche forze di controdentenza rischiano, sempre più, di essere soffocate. E' chiaro che un tale scenario di quotidiano degrado non può non essere senza riflessi per lo stesso insegnamento della filosofia. Se non altro perché questo insegnamento deve svolgersi proprio all'interno di queste scuole in cui l'ignoranza regna sempre più sovrana e dove lo stesso rapporto tra “autorità” ed “autorevolezza” è stato ormai minato, ab imis fundamentis, da molti anni. Col bel risultato che spesso nelle scuole si incontrano simpatiche figure di “responsabili”, completamente “irresponsabili” (“responsabili” per percepire il corrispondente fondo di incentivazione, ma del tutto latitanti sulle funzioni che dovrebbero pure svolgere), oppure dirigenti che ignorano il lavoro scolastico che pure dovrebbero “dirigere”, docenti ignoranti che ignorano le materie che insegnano e via declinando secondo una complessa configurazione fenomenologica che lascio volentieri all'immaginazione del lettore o - quel che è peggio - alla sua diretta esperienza di qualche istituto scolastico.
Il fatto poi che all'interno di questo autentico marasma sia pure possibile trovare pochi e volenterosi insegnanti, presidi e operatori scolastici che, nonostante tutto, cercano di contrastare questo degrado complessivo e questo stato fallimentare dell'istituzione scolastica, non fa che rendere ancora più triste l'intera situazione. Proprio perché queste poche forze sane sono del tutto isolate e sistematicamente derise e schiacciate da un'organizzazione scolastica e burocratica sempre più volta a rafforzare, paradossalmente, quegli elementi patologici che hanno contribuito ad accelerare il degrado scolastico. Non per nulla nelle nostre scuola trionfa la tipica (e tradizionale) “furbizia” italica, quella, per intenderci, decisamente pre-moderna, che non ha conosciuto la riforma, ignora lo sviluppo economico e che pone in sistematico non cale le competenze e le conoscenze scientifiche, e che si è parallelamente abituata a sopravvivere muovendosi, appunto con furbizia, contro un potere burocratico ed istituzionale che percepisce come cieco, opprimente e complessivamente irrazionale. Purtroppo a questa tipica e tradizionale furbizia italica, che costituisce un paradigma dominante negativo, guardano, positivamente e senza alcun ripensamento critico o un eventuale dubbio, discenti, docenti, presidi, operatori scolastici, segreterie etc. etc., contribuendo, ancor più, a configurare una scuola sempre meno degna di questo nome.
In ogni caso è contro questa scuola, contro questo degrado, contro questa ignoranza che bisogna reagire e lavorare positivamente se si vuole veramente tutelare non solo la scuola, come istituzione culturale e civile nazionale, ma anche l'insegnamento della filosofia. Non è infatti possibile impostare seriamente questo insegnamento se si deve parallelamente lavorare con degli studenti che pur dovendo studiare, per esempio, la lingua latina, non sanno tuttavia comprendere il titolo latino di un'opera di un filosofo antico, rinascimentale o moderno. Né è possibile svolgere una effettiva trasmissione critica del sapere filosofico se questi studenti non conoscono la geometria euclidea che pure, per esempio al liceo scientifico, avrebbero dovuto imparare negli anni precedenti del biennio. Inutile ricordare come lo studio della filosofia richieda anche il dominio di altri, pur minimali saperi, la cui mancanza rende alquanto improbabile una sua trasmissione culturale e civile efficace.
Né, perlomeno a mio avviso, vale adottare un atteggiamento da struzzi, voltando la faccia in un'altra direzione. E' ormai un fatto conclamato che molti studenti liceali degli ultimi anni compiono nei loro scritti gravi errori ortografici e sintattici, né si afferma nulla di nuovo nel ricordare come ormai dalle scuole dell'obbligo un giovane cittadino italiano possa essere licenziato, senza tuttavia avere ancora imparato a leggere, a scrivere e a far di conto correttamente. Il che costituisce, nuovamente, un autentico disastro, non solo per la singola persona, che non ha conseguito ciò che bisognava socialmente trasmettergli, ma anche per la società che, in tal modo, non progredisce, ma, inevitabilmente, arretra. I molteplici dati statistici, variamente raccolti, sono ormai conosciuti persino dagli stessi ministri che sanno benissimo come alle sufficienze delle scuola dell'obbligo non corrisponda più un reale contenuto conoscitivo adeguato a quella sufficienza. Questo andazzo è ormai tollerato e giustificato a livello istituzionale, perché si è progressivamente diffuso il concetto che nella scuola dell'obbligo nessuno possa più essere fermato, perché tutti devono essere inevitabilmente “promossi”, secondo una tendenza alla promozione generalizzata che, anno dopo anno, ha infine intaccato e coinvolto anche le scuole superiori (non più dell'obbligo) dove, soprattutto nei licei, si registrano, sempre più, percentuali bulgare di promossi. Naturalmente anche in questo caso in Italia si è scelta la strada più comoda e in discesa: tutte queste promozioni generalizzate non indicano affatto un'autentica trasmissione effettiva del sapere, un'autentica elevazione culturale delle popolazione, ma indicano solo la diffusione di un lassismo civile complessivo, in nome del quale nessuno vuole più avere problemi e tutti sono invariabilmente spediti alla classe successiva, con buona pace delle verifiche e dei saperi effettivi. Come si vede il “sei rosso” non è altro che la conseguenza ultima, del tutto coerente e matura, di una scuola che ha sempre più abdicato alla sua funzione sociale e civile e ha perso la bussola della sua stessa funzione culturale.
Di fronte a questa gravissima situazione non è però possibile limitarsi a dire che bisogna ulteriormente abbassare il livello della scuola, onde renderla veramente fruibile a tutte le masse popolari del paese. Questo atteggiamento costituisce solo un comportamento irresponsabile e indegno di nazione civile. Anzi, un vero e proprio comportamento incivile, in virtù del quale le masse popolari del paese vengono sempre più turlupinate: un tempo lo studio era privilegio di pochissimi, mentre i più erano relagati all'analfabetismo. Oggi, invece, dopo tante lotte e conquiste sociali, ci si è molto raffinati: a parole il diritto allo studio è finalmente concesso a tutti ma, parallelamente, è stato progressivamente svuotato di ogni effettivo e reale contenuto conoscitivo. I fattori sono cambiati, ma il risultato sociale finale non muta: la stragrande maggioranza della popolazione resta ignorante, anche se armata e dotata del fatidico pezzo di carta.
4. La didattica della filosofia e le sue oscillazioni
Il quadro richiamato nel precedente paragrafo, che a taluno, pure, sembrerà forse troppo pessimistico ed eccessivo, deve tuttavia essere tenuto nel debito conto per meglio comprendere le condizioni attuali, connesse con l'insegnamento della filosofia e le relative possibilità che si possono eventualmente individuare in questa situazione, certamente non facile, né, tantomeno, entusiasmante. A questo proposito, riflettendo sulle tendenze in atto in relazione alla didattica della filosofia, Luciano Malusa ha rilevato come attualmente nella scuola
«non si pone più l'accento sulle sequenze di problemi e di soluzioni, o sulle diverse dottrine stratificate e spesso contrapposte, ma ci si interroga sul come problemi e soluzioni possano entrare nel patrimonio dei giovani e come possano determinare certi loro comportamenti e consapevolezze. La didattizzazione porta come risultato quindi l'aprirsi di un contenzioso con le situazioni culturali della filosofia del passato e con le tendenze stesse della ricerca che permangono oggi nelle Università. Si contrappone allora la cultura in formazione degli alunni e il costituirsi di un patrimonio culturale medio delle nazione e delle diverse società ad una serie di tendenze sul piano della ricerca storica, dell'indagine teoretica in senso stretto, epistemologica, etica, estetica, ed altro. Le tendenze filosofiche prevalenti sono commisurate alla condizione sociale delle scuole, allo spirito complessivo della condizione giovanile: con il risultato di dichiarare tutte o parte di tali tendenze ormai incapaci di incidere sulla formazione e sull'interesse delle nuove generazioni»[6].
Secondo questa prospettiva la didattizzazione della filosofia ha avviato un processo coincidente, paradossalmente, con la progressiva dissoluzione dello spazio della… filosofia. Effettivamente, di fronte a questa didattizzazione ciò che è stato messo in crisi progressiva non è stata la pregiudiziale cultura di base dei discenti (come avrebbe dovuto accadere nell'ambito di un autentico rapporto educativo), ma, al contrario, è stato posto in discussione, per essere infine liquidato, proprio lo statuto autonomo dello stesso orizzonte filosofico. Il che risulta essere in sostanziale linea di coerenza con quel degrado scolastico complessivo cui si è fatto precedentemente cenno. In tal modo la filosofia, con la sua specifica tradizione concettuale, con il suo linguaggio tecnico, con le sue forme argomentative, con le sue topiche, con i suoi problemi, con i suoi stili di pensiero e con i suoi tradizionali argomenti e problemi finisce per trasformarsi, sempre più, in una sorta di galassia sconosciuta, del tutto imprendibile e totalmente altra dal mondo della prassi quotidiana degli studenti. In questa situazione, sempre più esasperata, taluni sostengono che la filosofia dovrebbe semplicemente prendere atto di questo iato, pressoché infinito, esistente tra la propria tradizione, il proprio orizzonte e la propria metodica, per piegarsi infine anch'essa alle esigenze della vita più immediata ed acritica, senza inutilmente recalcitrare alla sempre più irreversibile trasformazione della scuola contemporanea.
Va ricordato come tale opera di dissoluzione della filosofia sia stata attuata attraverso una progressiva egemonia della pedagogia (e del suo linguaggio) sulla filosofia (e sul suo lessico). In questo senso, insomma, nella didattica della filosofia la componente pedagogica ha progressivamente e paradossalmente finito per fagocitare completamente l'oggetto delle sue cure (la filosofia), la quale ultima è stata così distrutta o, se si preferisce, soffocata, da un approccio asfissiante che, in ultima analisi, ha finito per assolutizzare, indebitamente, l'aspetto formativo, senza più prestare alcuna attenzione agli specifici ed autonomi contenuti disciplinari della riflessione filosofica. Indubbiamente la stessa vocazione della filosofia a presentarsi come una sorta di orizzonte critico privilegiato di dialogo e di confronto tra i vari e differenti saperi ha forse contribuito, perlomeno in questa specifica prospettiva pedagogica e psicologica, a vanificare la sua stessa autonomia disciplinare specifica. In tal modo si è tuttavia innescato un processo complessivo, mediante il quale la pedagogia ha finito per annichilire, tendenzialmente, la filosofia. In contrasto con questa tendenza, Malusa ha giustamente osservato che
«la pedagogia non può eliminare, nel suo attribuirsi la gestione della problematica formativa, lo specifico della filosofia come insieme di attività di ricerca che si alimentano di certo dalla capacità di trasmettersi e di accrescersi nella stessa consapevolezza delle diverse generazioni, ma che pure mantengono viva una tensione che è propria di un procedimento il quale si alimenta dalle conquiste e dalle ristrutturazioni».
Per la verità questo rilievo può essere ripetuto non solo nei confronti della filosofia, perché l'aggressione pedagogica investe anche tutte le discipline insegnate nelle scuole, nei cui confronti è stato fatto valere, con forza e sempre più, un atteggiamento mentale e culturale in nome del quale la disciplina è stata progressivamente e sistematicamente piegata alle esigenze della formazione e del discente, al punto da essere trasformata in una variabile del tutto secondaria del processo formativo, senza poter più dire alcuna parola autonoma e specifica sui contenuti conoscitivi che pure dovrebbe trasmettere criticamente. In tal modo il processo formativo, nel momento stesso in cui si imponeva in modo totalitario ed imperialistico, distruggeva, progressivamente, tutti i differenti contenuti disciplinari che poteva toccare. Come un novello e perverso re-Mida negativo, questo approccio pedagogico-psicologico ha via via intaccato e nullificato i differenti saperi disciplinari e, in nome della tirannica centralità del problema didattico, delle dinamiche formative, nonché della psicologia dei discenti, è infine riuscito a favorire un movimento e una tendenza (soprattutto nella testa delle famiglie e di molti insegnanti) che ha contribuito a degradare, sempre più, i livelli conoscitivi che potevano essere eventualmente insegnati e trasmessi in una scuola. In tal modo le esigenze acritiche ed immediate degli alunni, in vece di essere corrette, criticate ed educate, hanno finito per prendere il sopravvento, diventando l'alfa e l'omega di ogni intervento didattico-educativo sul cui letto di Procuste ogni singola disciplina veniva (e viene, sempre più!) tagliata, strappata, martirizzata e variamente amputata. Col bel risultato che il successo scolastico viene ormai garantito, sia pur formalmente, in modo sempre meno problematico, a fronte di una trasmissione critica del sapere sempre più evanescente e del tutto inconsistente. Queste considerazioni critiche devono essere sviluppate non tanto per contrapporsi pregiudizialmente ad una riflessione pedagogica che, pure, ha i suoi diritti e le sue ragioni. Semmai, questi rilievi vanno tenuti presenti per contrastare una tendenza sempre più diffusa e distruttiva, in nome della quale, partendo unilateralmente dal solo “benessere scolastico” del discente, dalle loro esigenze e dalle loro dinamiche psicologiche di formazione, ogni disciplina è stata progressivamente e sistematicamente evirata dei suoi contenuti disciplinari, impedendole anche di svolgere quella salutare opera educativa e formativa, mediante la quale si attua proprio l'educazione del singola persona.
In questo modo, a voler guardare l'evoluzione generale della scuola italiana nel suo complesso storico e civile, si può allora motivatamente sostenere come la trasmissione dei contenuti disciplinari si sia storicamente realizzata e imposta entro due unilateralità complementari e speculari. Si è infatti passati da una fase primordiale in cui i contenuti erano imposti senza alcun rispetto per le dinamiche psicologiche e pedagogiche di formazione degli studenti (e con una ferocia classista davvero singolare) ad una successiva fase, del tutto opposta, ma altrettanto unilaterale e dogmatica, durante la quale, invece, i contenuti sono stati progressivamente vanificati, a tutto vantaggio di un pedagogismo che gira sempre più a vuoto, producendo un denso fumo illusorio di pseudo-conoscenza di cui sono ormai sempre più piene le scuole italiane. Questa seconda tendenza è oggi alquanto diffusa e generalizzata. Per reagire a questa grave deriva sociale ed istituzionale della scuola non è più sufficiente rimettere al centro dell'azione didattica l'insegnamento dei contenuti disciplinari, ma occorre anche ripensare, in modo complessivo, l'insegnamento, salvaguardando un giusto equilibrio dinamico (necessariamente calibrato sull'età evolutiva del discente) tra la tendenza pedagogico-didattica e quella contenutistico-disciplinare.
Nel caso specifico della filosofia questo rapporto si configura come un momento fondamentale della stessa trasmissione della disciplina, perché la filosofia, fin dalla sua prima esistenza nel mondo greco e nella tradizione occidentale, si è sempre configurata come il luogo per un dialogo privilegiato tra maestro e discepolo. Per la filosofia occidentale questo dialogo costituisce, in modo emblematico, lo spazio preciso entro il quale, in genere, si sono formati gli allievi di un determinato filosofo. Non solo: questo spazio dialogico rappresenta anche una preziosa e irrinunciabile dimensione critico-concettuale entro la quale la stessa filosofia si è svolta teoreticamente, assumendo forme molteplici e saggiando differenti piste speculative. Inoltre, come non può non sapere, per diretta esperienza personale, chiunque abbia insegnato, il dialogo che si instaura tra docente e discenti costituisce il luogo privilegiato per un'intensa e comune dialettica di crescita e di riflessione, entro la quale non si compie mai una mera trasmissione passiva di una sapere, perché, appunto, si instaura sempre un rapporto tendenzialmente spirale, e sempre aperto, da ambo i lati del confronto. Mediante questo processo spirale, sempre aperto, il dialogo e la crescita sono, paradossalmente, reciproci e tali da coinvolgere, allo stesso tempo, il docente e i discenti. Se è vero, per dirla con Karl Kraus, che gli allievi mangiano il cibo metabolizzato dai loro maestri[7], d'altra parte è anche vero che i maestri metabolizzano e ruminano il loro cibo anche nel momento stesso in cui lo presentano ai loro discenti e, in tal modo, finiscono per modificarlo grazie e attraverso il loro dialogo con i loro studenti. Col risultato che dopo il dialogo entrambi gli attori di questa comunicazione filosofica autentica sono modificati da quella loro stessa reciproca dialogicità.
Questo processo è sempre aperto, come è sempre aperta qualunque ricerca volta ad approfondire la nostra conoscenza, onde non farsi sbarrare la strada da pregiudizi o da assunti dogmatici che pure ostacolano variamente la crescita della conoscenza e la vita quotidiana degli uomini. Nell'ambito filosofico questo delicato e fondamentale rapporto maestro-allievo non solo deve essere rigorosamente tutelato, ma deve anche essere rinvendicato come un luogo costitutivo specifico del filosofare, nella sua stessa dimensione teorica autonoma. Anche per questa ragione il docente non può insegnare ai suoi discenti a filosofare se lui, in prima persona, non filosofa di fronte e con i suoi studenti. Se possono nascere dubbi legittimi sui contenuti disciplinari della filosofia (ma per questo aspetto cfr. infra) non può invece esserci dubbio alcuno sul fatto che la filosofia, per sua natura intrinseca, richiede in modo eminente dialogo e confronto continuo. Un dialogo e confronto che per la filosofia non costituiscono affatto un aggiunta estrinseca o spuria alla sua natura intrinseca, poiché invece costituiscono, momenti insopprimibili e fondamentali della sua stessa realizzazione sociale e civile. In questo senso specifico la spiralità della riflessione filosofica coinvolge sempre la didattica nella teoresi e la teoresi nella didattica. Si tratta sempre di un circolo aperto e problematico, perché la sua chiusura dà vita, inevitabilmente, ad una scuola chiusa e sostanzialmente dogmatica (secondo il classico modello pitagorico, basato sull'ipse dixit, a causa del quale il discente può solo chiosare o commentare il detto del maestro; se invece opta per una diversa strada, quella critica, è inevitabilmente espulso da una scuola che non tollera minimamente prese di posizioni divergenti e conflittuali). In ogni caso la spiralità critica tra teoresi e didattica rinvia costantemente a due momenti diversi, ma complementari, di sistole e di diastole, della ricerca filosofica che prende le mosse dalle domande del dialogo per riferirsi alla teoresi e parte poi dalla teoresi per reimpostare il dialogo, secondo un processo di sviluppo sempre aperto perché in questo movimento la critica costituisce il motore più segreto e profondo dell'intero movimento. Si badi: dicendo quanto si è testé affermato non si vuol certamente dire che la didattica della filosofia debba realizzare una scuola di filosofia. Molto più delimitatamente, la didattica della filosofia non può invece fuoriuscire da questo modello autenticamente filosofico e da questo telos, perché si deve, appunto, realizzare un insegnamento della filosofia finalizzato ad insegnare ai discenti a filosofare. Si parla nuovamente di “filosofare”, e non di “filosofia” e, quindi, risulta importante trasmettere ai discenti tutta una serie di competenze filosofiche che consentano loro di avviare la possibilità di una propria autonoma riflessione critica.
5. La classe quale comunità ermeneutica di dialogo
Assecondando pienamente questa sua istanza costitutiva, la filosofia non può allora non trasformare, in modo del tutto naturale e direi “fisiologico”, secondo le proprie finalità teorico-disciplinari, una classe scolastica[8] in una sorta di “seminario” permanente o, se si preferisce, in un gruppo aperto e critico di discussione ermeneutica, nel quale i differenti discenti sono costantemente inviatati a discutere liberamente e a confrontarsi sui vari argomenti affrontati (in particolare i testi filosofici, cfr. infra) presentati e discussi dal docente. L'organizzazione della classe come un seminario permanente implica però un profondo ripensamento non solo della didattica, ma dell'intera organizzazione scolastica, perfino delle sue stesse strutture architettoniche. Attualmente questa trasformazione può solo essere avviata e auspicata, sia pur compiendo, con decisione, alcuni “piccoli passi” significativi in questa precisa direzione. Non si può certamente negare come si debba ancora percorrere una non breve strada per trasformare sistematicamente una classe in una piccola comunità ermeneutica, anche perché le scuole attuali non sono minimamente preparate (per molte ragioni: economiche, culturali, materiali, architettoniche, burocratiche, istituzionali, etc.) per affrontare una sfida innovativa così radicale, ma anche, in fondo, così semplice. Semplice, perché può essere avviata anche prendendo le mosse dalle classi attuali e dalla loro sciagurata configurazione architettonica. Difficile, perché dovrebbe svilupparsi in una direzione che potrebbe consentire, per esempio, una diversa utilizzazione delle varie risorse bibliotecarie ed informatiche presenti (o ancora del tutto assenti…) in una scuola. Tuttavia, perlomeno a mio avviso, malgrado tutti questi molteplici e certamente non flebili ostacoli, occorre comunque muoversi, con determinazione, in questa direzione seminariale, aprendo una progressiva battaglia di civiltà e di cultura, in grado di sfruttare tutte le eventuali possibilità che pure, fin da ora, possono essere individuate tra le pieghe dell'attuale ordinamento.
Ma vi è di più. Parlando della didattica della filosofia non possiamo dimenticare come la filosofia non possa configurarsi con uno statuto definito e condiviso come accade nell'ambito di altre discipline. Quando poi si cercano di chiarire, sia pure con molta buona volontà, i cosiddetti “nuclei fondanti” - ma chi avrà poi mai detto che questi nuclei devono essere fondanti? non ci potrebbe essere, come insegna, per esempio, il criticismo kantiano - liberato dalle sue stesse scorie dogmatiche - un sapere senza fondamenti? - ci si trova di fronte ad elenchi alquanto imbarazzanti. Perché sono “imbarazzanti”? Perché in questi elenchi, bene o male, si cerca di tener conto di tutte le principali tendenze filosofiche presenti nella tradizione occidentale. Naturalmente tale elenco non può essere però esaustivo ed ecco allora l'imbarazzo della scelta: la volontà di elencare, in modo più o meno ampio, più o meno convincente, più o meno plausibile, alcuni di questi movimenti confligge inevitabilmente con quelle tradizioni che l'estensore, in modo più o meno consapevole, o più o meno dichiarato, ritiene poi essere i più rilevanti. Ma sempre, nel compiere queste delimitazioni, inevitabilmente arbitrarie, or qui, or là, emerge una certa prevalenza, una certa accentuazione, tramite la quale fa capolino una determinata preferenza, una determinata inclinazione. Allora si cerca di correggere questo “vizio” teorico e, in genere, si mette allora capo ad una sorta di minestrone filosofico che, volendo accontentare tutti i gusti, può solo avere il bel risultato di scontentare i più. Meglio ancora: in genere, le differenti impostazioni vengono semplicemente giustapposte, cercando di affiancare, per fare un solo esempio, a quella che si presenta come la scontata - ma non chiarita - “radicalità” della domanda filosofica una sua non meglio precisata e parallela “problematizzazione” (ma sarà anch'essa altrettanto “radicale”?). In modo analogo la razionalità dei metodi di ricerca viene affermata, nel mentre si cerca poi di tenere nel debito conto anche un tipo di riflessione filosofica oracolare e per nulla argomentativa, etc. etc.
A voler essere benigni, si può rilevare come in genere tutti questi, pur nobilissimi, sforzi finalizzati ad individuare i “nuclei fondanti” della filosofia (che dovrebbero corrispondere, horribile dictu, a quello che in ambito psicopedagogico sono individuate come le “strutture della disciplina”), si limitano ad avvicinare concetti e metodi che paiono avere tutti in comune solo una certa e vaga “aria di famiglia”. Ma occorre tener presente come quest'aria di famiglia” risulti essere sempre abbastanza generica, contraddittoria e fortemente opinabile, proprio perché nel seno della tradizione filosofica occidentale convivono anche impostazioni concettuali e stili di pensiero del tutto opposti e decisamente conflittuali. Ma tant'è, prendendo le mosse da questi presunti “nuclei fondanti” si vogliono poi individuare i corrispondenti “nuclei didattici” e le relative “competenze”. Queste griglie e tutto quel che ne consegue costituiscono, forse, la gioia più pura ed intensa per una sana prospettiva psicopedagogica, tuttavia devo francamente ammettere che personalmente ho ben altra idea della felicità (e anche della didattica della filosofia). Sono sempre queste le griglie che, in qualche caso più sciagurato, taluno vorrebbe addirittura trasformare anche in un incredibile modello diretto per l'insegnamento della filosofia riducendo (o trasformando?) questa disciplina alla mera compilazione di test (aperti, chiusi, semi-aperti e semi-chiusi e via delirando). Di fronte a questa tendenza sarà meglio affermare che quando parlo di didattica della filosofia non penso certamente a talune autentiche “grullerie” germoglianti dalle suddette griglie (infatti le uniche griglie che personalmente apprezzo sono quelle da utilizzarsi nei barbecue).
In dichiarata avversione a tutte queste tendenze, a mio avviso occorre invece ribadire che non è lungo questa strada che può essere recuperato il senso e la funzione dell'insegnamento della filosofia. Per parte mia seguirei un percorso radicalmente diverso in grado, semmai, di rimettere al centro della nostra consapevolezza, ad un tempo culturale, filosofica e didattica, la centralità della filosofia come pensiero filosofato. Ma dove mai possiamo rintracciare il pensiero filosofato? Unicamente nei testi dei classici, perché la filosofia vive essenzialmente nel filosofato. E' allora indispensabile partire dai testi? Forse proprio partire no, ma passarci, fermandocisi adeguatamente, certamente, perché è solo lavorando sui testi dei classici e della tradizione che si possono finalmente instradare i discenti a filosofare. Il filosofare implica, necessariamente, l'acquisizione di metodi, di linguaggi, di argomentazioni, di problematiche, di tradizioni concettuali, etc. etc., che possono essere conosciute e comprese solo lavorando sul pensiero filosofato dei classici del pensiero. Per questa ragione a mio avviso la centralità dei testi della tradizione filosofica è e rimane ineludibile. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una centralità dei testi che non concerne solo la didattica della filosofia nelle scuole di ogni ordine e grado (cfr. infra), perché invero questa centralità dei testi vale anche per la ricerca filosofica più specialistica, storica e teoretica. Ancora una volta la singolare spiralità critica ed aperta dell'orizzonte filosofico si ritrova presente sia nell'insegnamento medio ed elementare della filosofia, sia nel suo insegnamento universitario, sia nella ricerca più avanzata e critica.
Il confronto con il classico è sempre ineludibile non solo perché il classico, secondo la felice definizione di Italo Calvino, è tale proprio perché non ha mai finito di dire quello che vuol dire, ma perché il pensiero filosofico può essere seriamente rintracciato solo nel filosofato, solo nei linguaggi effettivamente costruiti e utilizzati per costruire discorsi filosofici sensati. Né può essere dimenticato come il classico parli diversamente ad ogni generazione: la sua forza specifica si radica proprio in questa capacità di non aver mai terminato di dire ciò che ci vuole comunicare. Nella sua capacità di rivelare, a differenti generazioni collocate in varie fasi della storia dell'umanità, pensieri e riflessioni diverse quando non, addirittura, conflittuali.
Se poi noi ora ci troviamo di fronte ad una nuova generazione che non è più in grado di intendere la lingua in cui il classico è scritto, a mio avviso non dobbiamo tanto proclamare la necessità sociale e civile di attuare una trasformazione della scuola che si dovrebbe adeguare a questi nuovi, più bassi, livelli conoscitivi. Dobbiamo invece avere la capacità di interrogarci sulle cause di fondo concernenti la mancanza di queste competenze minimali e, se possibile, rimediare effettivamente a queste deficienze, a questo progressivo imbarbarimento dello spirito. In caso contrario la barbarie dilagherà, ma non dovremo nasconderla o, peggio ancora, travisarla per una nuova forma dio sapere. Ma dovremo individuarla per quello che è, essendo consapevoli che la storia umana non registra solo periodi di progresso e di approfondimento, ma anche momenti di stasi e persino di regresso. E il regresso è regresso, non è progresso. Se si perde la capacità di leggere dei testi della nostra tradizione non siamo necessariamente di fronte ad una trasformazione del nostro sapere, poiché questa incapacità potrebbe anche indicare un singolare abbassamento dei livelli conoscitivi di una determinata generazione. In questo caso non basta constatare le carenze, perché occorre saper intervenire per rimuoverle. Certamente - e molto francamente - non mi pare proprio che la geniale trovata del “sei rosso” ci aiuta a muoverci in questa direzione.
In ogni caso, se sapremo reagire a questa grave deriva, mettendo infine i discenti in condizione di essere nuovamente in grado di leggere e capire un testo classico, potremo allora far prestare loro attenzione alle differenti forme costruttive dei vari universi di discorso, sviluppando, al contempo, un'analisi storico-critica dei linguaggi che costituiscono (e spesso costruiscono) dei modelli paradigmatici per quegli stessi universi di discorso. Presteremo allora attenzione alle regole di metodo che si sono storicamente affermate entro le differenti tradizioni concettuali e studieremo queste ultime cogliendo anche il loro intreccio problematico. In tal modo abitueremo il discente a sviluppare il filosofare non imbastendo dei discorsi a vanvera (o sul vuoto, come spesso accade di sentire), ma abituandolo a confrontarsi con la complessità dei problemi, con la complessità dei testi e con la complessità delle stesse questioni aperte che la storia concettuale occidentale ha variamente e continuamente definito, ridefinito e configurato, sviluppando quella singolare tela di Penelope che chiamiamo “filosofia”.
Per operare tutte queste scelte, per individuare gli autori, i testi e i relativi percorsi ermeneutici per un possibile intervento didattico scolastico, non mancano oggi molteplici strumenti e anche diverse, valide, indicazioni istituzionali. Basterebbe tener presenti, per non fare che un solo esempio, peraltro davvero emblematico, i Programmi Brocca [9] i quali non solo presentano differenti contenuti e le tracce per numerose e plurali piste concettuali, ma forniscono anche preziosi spunti per organizzare i contenuti dei percorsi, delineati attraverso l'individuazione di argomenti omogenei, sempre in grado di intrecciare, proficuamente, la dimensione storica con quella teorica. In questa prospettiva la centralità del testo è veramente decisiva, perché solo lavorando sul testo del classico si recupera, in modo fecondo, il rapporto diretto tra il discente e la tradizione del pensiero filosofico, permettendo anche allo studente di individuare i mezzi, i metodi, le strategie argomentative, etc. presenti nei passi studiati e presi in diretta considerazione. Ma, chiaramente, la centralità del testo, l'analisi dei metodi linguistici, dei mezzi concettuali, delle varie procedure inferenziali non portano a nulla se nella disamina del testo il docente non si mette costantemente in gioco, dichiarando anche i suoi problemi e la natura delle sue stesse opzioni teoriche, il taglio della sua lettura del classico.
Il discente impara a filosofare filosofando, a sua volta, col docente per mezzo del quale, a partire dal testo, compreso e analizzato, si possono e si devono instaurare dei dialoghi di confronto col testo e con i problemi che solleva. Questi dialoghi devono sempre essere in grado di far comprendere adeguatamente ai discenti il carattere multimensionale della realtà e la sua complessità. Ma questa complessità, per essere compresa e dipanata criticamente, richiede nuovamente, in primo luogo, la presenza di una passione filosofica autentica che il discente deve poter avvertire nelle riflessioni del docente e anche nella sua lettura del testo del classico. Senza questo coinvolgimento diretto del docente le pagine affrontate, le discussioni stimolate dalle riflessioni del classico, rischiano di rimanere lettera morta. Oppure costituiscono solo semi che germoglieranno solo in poche, troppo poche, teste. Inoltre, è proprio attraverso queste scelte e lo studio parallelo di questi differenti percorsi, costruiti sui testi dei classici, che è possibile accostare i discenti alla stessa complessità della tradizione filosofica occidentale, facendo loro comprendere la compresenza di stili differenti e apertamente conflittuali. La scelta calibrata e meditata di modelli differenti della riflessione filosofica consentirà, ancora una volta, di evidenziare la pluralità di metodologie, di approcci critici, di agomentazioni, di linguaggi, di orizzonti di riflessione e di intervento pratico nel mondo della prassi, confrontandosi con i quali le stesse posizioni sostenute dal docente si chiariranno e si relativizzeranno, mostrando la loro stessa natura teorica e la loro precisa configurazione storico-concettuale.
In questa specifica prospettiva ermeneutica si può anche mostrare come la conflittualità tra differenti e contrastanti stili di pensiero costituisca una ricchezza, non ultima, della stessa tradizione filosofica occidentale che, non a caso, ha direttamente alimentato la formazione di una società progressivamente più libera e tollerante, seriamente disposta a confrontarsi apertamente con punti di vista decisamente conflittuali, alternativi ed ostili. Il valore civile della riflessione filosofica emergerà così dallo stesso lavoro quotidiano svolto in forma sempre più seminariale e paradossalmente circolare all'interno della classe la quale, da piccola società atomica, prevalentemente individualistica, si trasformerà in un gruppo aperto di confronto e di lavoro, dove i singoli individui impareranno, progressivamente, a sostenere idee diverse e persino radicalmente conflittuali, argomentando e utilizzando i mezzi più adeguati per comprendere gli altri e per meglio sviluppare le proprie argomentazioni, senza appunto rinunciare al proprio punto di vista personale ed individuale. La classe come comunità ermeneutica, in grado di educare costantemente al dialogo, al confronto e alla democrazia del pensiero e del colloquio concettuale, costituisce, indubbiamente, un risultato significativo per l'insegnamento della filosofia (ma, in verità, non solo per questo insegnamento, evidentemente).
Ma l'acquisizione di questo stile civile deve inoltre costituire anche un'occasione per apprendere una specifica capacità critico-concettuale che ponga sempre più in grado il discente di affrontare le questioni connesse con il significato non solo della sua vita e dei cosiddetti “massimi problemi”, ma anche il significato di quello che fa quotidianamente e delle altre discipline che studia nei differenti settori della sua formazione scolastica. In questo senso l'insegnamento della filosofia non può non finire per esercitare, nella stessa vita del singolo studente, quell'effetto proprio della torpedine che Socrate rivendicava, coerentemente, al proprio filosofare nell'Atene democratica, ma anche in quella dei Trenta tiranni. In questo modo potrà essere anche trasmesso il gusto e la vocazione più profonda della filosofia che, in ogni epoca, con vari pensatori e all'interno di differenti e plurali tradizioni concettuali, ha tuttavia sempre “abitato”, nei suoi momenti più creativi e profondamente innovativi, gli autentici problemi aperti di una determinata società e di una determinata civiltà. Questo nomadismo concettuale della filosofia si trasforma, allora, non più in un elemento della sua intrinseca debolezza disciplinare, ma, al contrario, in un aspetto della sua fecondità euristica, proprio perché la filosofia, con la sua stessa, irritante, formalità cui abitua, è sempre in grado di porre le sue questioni in relazione ai problemi più aperti e decisivi che l'umanità ha via via affrontato nel corso della sua storia. Anche secondo questo angolo prospettico la didattica della filosofia non può non rinviare alla teoresi, scoprendo poi come la riflessione teorica, per sua natura intrinseca, si apra al dialogo e al confronto e, quindi, nuovamente, alla stessa didattica della filosofia. In questa prospettiva, ancora una volta, riflessione filosofica e didattica della filosofia si richiamano costantemente, proprio perché costituiscono due diversi momenti di un medesimo processo costitutivo della ricerca filosofica la quale, attraverso il dialogo e il confronto con i propri interlocutori privilegiati, costruisce il senso della sua riflessione e della sua funzione civile. Per questa ragione di fondo la didattica della filosofia non può neppure essere concepita se il docente, in quanto pensatore e filosofo, non si mette in discussione di fronte ai suoi discenti, giocandosi, appunto, come filosofo che si confronta con aspetti particolari del filosofato della tradizione occidentale. Di contro, questo suo giocarsi come filosofo che filosofa sul filosofato non potrebbe neppure costituirsi e delinearsi se non si attuasse attraverso un dialogo plurale ed aperto (che possiede anche un'innegabile valenza formativa ed educativa). Questo dialogo non è infatti tanto finalizzato a trasmettere un determinato punto di vista teorico, bensì ad aiutare costantemente il discente, per dirla con Nietzsche, a diventare ciò che è. Ad aiutarlo, insomma, a trovare la propria strada e la propria vocazione specifica, dotandolo di tutti i mezzi concettuali e di gli strumenti critici messi a disposizione dalla tradizione filosofica occidentale che poi gli consentiranno di meglio operare e argomentare le sue differenti e contrastanti scelte di cittadino in un mondo di uomini adulti e responsabili. Il valore peculiare e veramente irrinunciabile della filosofia nel mondo scolastico si radica esattamente in questa formazione che se nella scuola media si limita al contributo fondamentale fornito dalla filosofia per aiutare il discente a formarsi una sua specifica Bildung, nell'ambito universitario implica, invece, l'approfondimento di un dialogo che deve rendere sempre più compartecipe il discente dei programmi di ricerca teorici in cui il docente deve essere, a sua volta, impegnato, nuovamente nella sua qualità di autentico filosofo.
5. L'insegnamento della filosofia nei vari ordini e gradi scolastici.
Queste considerazioni impongono allora di riflettere innovativamente anche sulla collocazione scolastica dell'insegnamento della filosofia e sul suo ruolo educativo e formativo. A questo proposito, occorre tuttavia tener anche presente la specifica situazione dell'insegnamento della filosofia nel nostro paese. In Italia l'insegnamento della filosofia ha risposto, per molti decenni del XX secolo, ad una precisa, e ben specifica, organizzazione istituzionale la quale, a sua volta, rifletteva una determinata organizzazione sociale di classe[10].
In questo quadro bisogna quindi porsi un problema molto più generale e universale: la filosofia può veramente essere insegnata in ogni ordine e grado di studi? A questo proposito preferisco subito avanzare la risposta che penso possa essere avanzata: sì, certamente, la filosofia deve essere insegnata in tutti gli ordini e nei diversi gradi degli studi. In altri termini, penso che l'insegnamento della filosofia costituisca un autentico diritto di cittadinanza irrinunciabile e debba pertanto essere fornita a tutti i cittadini italiani[11]. La filosofia, come molte altre discipline - penso, per esempio, alla matematica - deve potersi insegnare a tutti i cittadini. Tutti i cittadini devono possedere dei rudimenti minali concernenti la filosofia, proprio perché non è più concepibile il rispetto del diritto di pari cittadinanza per tutti gli individui del nostro paese se costoro non posseggono anche degli elementi minali e di base della conoscenza filosofica che deve entrare a far parte del bagaglio comune di tutti gli italiani
Difendendo questa posizione, implicante un insegnamento della filosofia presente anche nella scuola dell'obbligo, nonché una sua diffusione in tutti i differenti ordini di scuole, ci si espone a numerose critiche. Molte di queste provengono, per quanto curioso possa sembrare, dagli stessi insegnanti medi di filosofia i quali, in genere, condividono ancora pienamente l'idea gentiliana che la filosofia possa essere insegnata unicamente nei licei e, al massimo, in poche altre scuole superiori (licei artistici, istituti psico-pedagogici et similia). E' singolare osservare come queste forti resistenze ad un significativo allargamento dell'insegnamento di una disciplina nei vari ordini e gradi scolastici non siano invece presenti presso altre comunità disciplinari nel cui seno il problema di un insegnamento diffuso e capillare della propria materia è considerato come acquisito e scontato. Se, per esempio, consideriamo la comunità dei matematici il problema dell'insegnabilità della matematica in tutti gli ordini e gradi scolastici è saldamente condiviso e difeso unitariamente. Anzi, non viene neppure messo minimamente in discussione perché agli occhi dei matematici è veramente scontato che tutti i cittadini, di qualunque età scolare, per essere veramente tali, debbano necessariamente conoscere molteplici elementi matematici. La matematica si insegna così in qualunque ordine di studi e in qualunque grado scolastico. La complessità e la difficoltà - oggettive - della matematica non costituiscono affatto un ostacolo alla sua insegnabilità. La matematica è così insegnata dalle elementari all'università e, inoltre, è presente in qualunque indirizzo di studio, con una rilevanza sempre molto significativa. Per la filosofia, invece, la possibilità di estendere il suo insegnamento ai differenti indirizzi di studio crea già notevoli problemi e forti resistenze. Inoltre crea ancor più problemi e resistenze sostenere che la filosofia dovrebbe essere insegnata in ogni ordine di scuola, dalle elementari all'università.
In entrambi i casi le obiezioni che vengono avanzate sono abbastanza simili e si riducono, in ultima analisi, alle seguenti considerazioni: la filosofia non può essere insegnata adeguatamente se il discente non dispone di un preciso e determinato bagaglio culturale. Inoltre, sembra a taluni che la filosofia possa essere proficuamente insegnata solo là dove esiste già una specifica ed acquisita formazione di una determinata mentalità che, grossomodo, possiamo indicare come quella liceale. A mio avviso entrambi questi rilievi non costituiscono, in realtà, delle serie obiezioni contrastanti la necessità e l'opportunità - civile e culturale - di dilatare l'insegnamento della filosofia sia in tutti gli indirizzi scolastici, sia nei suoi differenti gradi. Se infatti è vero quello che abbiamo delineato nei paragrafi precedenti non si vede proprio perché la filosofia non possa essere insegnata attuando specifiche curvature che la mettano in condizione di occuparsi seriamente di molteplici indirizzi disciplinari, pur mantenendo la sua autonomia prospettica. Per sua natura la filosofia ha sempre dialogato con tutti i differenti campi del sapere umano, anche perché molto spesso la filosofia si è sviluppata tra le pieghe dei differenti saperi, costituendo un momento epistemico irrinunciabile per lo sviluppo intrinseco di queste stesse competenze disciplinari. Di conseguenza si tratta allora di enucleare, in modo certamente equilibrato e calibrato, questi differenti ambiti di riflessione, tenendo anche presenti le specificità di ciascun indirizzo di studio.
Anche la seconda obiezione non rivela una forza critica maggiore. Come infatti la matematica, che pure costituisce una disciplina oltremodo complessa e impegnativa, può tuttavia essere insegnata secondo una sua specifica gradualità, analogamente, se si riconosce che la filosofia costituisce un patrimonio irrinunciabile per la formazione di qualsiasi cittadino, allora non si può più seriamente negare che anche la filosofia deve poter essere insegnata, sia pur con modalità profondamente differenti, a qualunque grado dello sviluppo scolastico. Semmai, in questo caso, si tratta di cambiare, e in modo profondo, la mentalità dei tradizionali insegnanti di filosofia i quali hanno finito per sviluppare una concezione profondamente elitaria della loro disciplina e del suo stesso insegnamento medio. Sotto un certo aspetto questi insegnanti rappresentano il frutto più conseguente dell'impostazione istituzionale gentiliana, tacitamente presente nella stessa organizzazione scolastica italiana. Gentile pensava che la filosofia dovesse essere insegnata unicamente agli studenti liceali, perché solo da queste scuole sarebbero usciti gli esponenti delle future classi dirigenti italiane. Il discorso classista gentiliano era tanto lineare quanto feroce: considerato che la filosofia aiuta il discente a meglio ragionare e a meglio sviluppare, in modo autonomo e consapevole, il suo senso critico, si configura allora la necessità sociale di limitare drasticamente queste capacità di riflessione critica ai soli esponenti delle classi dirigenti. Un domani questi ultimi dovranno infatti comandare ed è quindi “cosa buona e giusta” che sappiano ragionare criticamente, utilizzando, al meglio, le loro capacità intellettuali. Chi invece non frequenta le scuole liceali è tendenzialmente destinato a far parte della popolazione che dovrà ubbidire a coloro che dirigeranno la nazione. Ma se si deve ubbidire a degli ordini è allora meglio non essere in grado di ragionare: tanto meno si ragionerà, tanto più prontamente si eseguirà un ordine, senza contestarlo, senza dilazionarlo nel tempo e senza fiatare. Dunque per questa feroce ragione sociale coloro i quali dovranno presto ubbidire ai futuri dirigenti è meglio che non studino e che non imparino affatto la filosofia.
Nella sua brutale linearità di classe questo ragionamento gentiliano ha naturalmente dovuto subire tutti gli sconquassi che la storia civile e politica del XX secolo si è puntualmente incaricata di sviluppare contro i bei sogni dei nostri simpatici neoidealisti. Tuttavia, questo loro impianto concettuale, affidato ad una trasmissione tacita e non dichiarata, coincidente con le stesse strutture istituzionali della scuola secondaria superiore italiana, è sostanzialmente uscita indenne dal crollo del fascismo ed è rimasta saldamente operativa anche durante il mezzo secolo successivo della cosiddetta prima repubblica antifascista italiana. Col bel risultato che lungo pressoché tutto il Novecento, la scuola italiana ha costantemente riprodotto la mentalità e la sensibilità culturale, filosofica e civile gentiliana. Non ci si deve quindi stupire se attualmente la stragrande maggioranza dei docenti di filosofia della scuola secondaria superiore si dichiarino decisamente contrari o fortemente perplessi di fronte alla proposta di dilatare in ogni ordine e grado di studi la presenza dell'insegnamento della filosofia.
Tuttavia, questa loro tenace resistenza culturale (e sociale) e questa loro preclusione pregiudiziale può forse essere scalfita e messa in crisi definitiva confrontando la situazione italiana concernente l'insegnamento medio della filosofia, con quanto accade in altri paesi europei. Da questo punto di vista è agevole osservare come l'Italia si trovi in una posizione decisamente privilegiata. Effettivamente, bisogna riconoscere che nel nostro paese la presenza dell'insegnamento medio della filosofia è significativo e, comunque, molto maggiore di quello riscontrabile presso altre nazioni europee. Non per nulla la più importante e duratura riforma scolastica italiana del XX è stata concepita e realizzzata da uno dei più eminenti filosofi italiani del secolo. Conseguentemente ancor oggi l'Italia è uno dei paesi europei in cui la presenza dell'insegnamento medio della filosofia - per quanto limitato ai licei e a poche altre scuole secondarie superiori - è molto superiore a quella prevista da altri ordinamenti scolastici. In molti altri paesi - per esempio basterebbe pensare ad alcuni Länder tedeschi - la filosofia non è affatto insegnata nelle scuole superiori, poiché è presente solo nelle università. Ebbene, in questi paesi non mancano coloro i quali non concepiscono neppure la possibilità di un insegnamento medio-superiore della filosofia, perché a loro avviso questa disciplina può essere insegnata e studiata adeguatamente e in modo rigoroso unicamente e solo in ambito universitario. Per noi italiani, che abbiamo alle spalle più di un secolo di insegnamento medio-secondario della filosofia nelle scuole, è abbastanza agevole comprendere i limiti intrinseci - sostanzialmente elitari e pregiudiziali - di una tale presa di posizione pregiudiziale e del tutto ingiustificata. Ma, perlomeno a mio avviso, un analogo pregiudizio culturale di fondo è quello che attualmente si registra in Italia, alla base delle numerose resistenze ad una seria dilatazione dell'insegnamento della filosofia in tutti gli indirizzi scolastici e in ogni ordine di scuola.
A parte queste resistenze, stratificatesi nel tempo e sulla base di una precisa prassi scolastica più che centenaria, tuttavia, non esistono obiezioni di principio per impedire di compiere una tale dilatazione, che sarebbe profondamente innovativa, non solo per l'insegnamento della filosofia, ma anche per la stessa vita complessiva dell'intero nostro paese. Naturalmente nel sostenere la necessità e l'opportunità di una tale dilatazione dell'insegnamento della filosofia non si nega come per ogni ordine di studio e per ogni differente indirizzo debbano poi essere studiate le modalità specifiche e più adatte e da attuarsi gradualmente per l'introduzione diffusa dell'insegnamento della filosofia. Tuttavia, bisogna anche ammettere come tutte queste, pur indispensabili, organizzazioni disciplinari, curricolari, di programma e di contenuti, etc., costituiscono solo dei problemi risolvibili in modo abbastanza agevole. Non costituiscono, invece, delle obiezioni di principio insormontabili. Anche quello che si configura come l'ostacolo apparentemente maggiore - quello che ci ricorda come l'insegnamento della filosofia richieda sempre la precedente acquisizione di un determinato e ben specifico sapere minimale di base - in realtà, non costituisce un'obiezione di principio, proprio perché ogni grado di formazione scolastica dovrebbe appunto presentare anche dei suoi contenuti conoscitivi minimali, ben precisi. Semmai, in questo caso il problema è un altro e concerne la ridefinizione delle strategie e delle modalità stesse dell'insegnamento della filosofia. E' chiaro, infatti, che non si può insegnare la filosofia ad uno studente di dodici anni come la si insegna ad uno studente di sedici e, ancora, come la si insegna ad uno studente di venti. Ma questa giusta constatazione vale, naturalmente, anche per tutte le altre discipline: non si può insegnare la matematica ad uno studente di dodici anni allo stesso modo con il quale la si insegna ad uno studente di sedici o, ancora, ad uno studente di venti. Questo problema, attinente la considerazione delle differenti modalità di studio concerne tuttavia l'organizzazione interna di un programma e dei relativi contenuti, non costituisce affatto un'obiezione insormontabile.
D'altra parte occorre anche aggiungere come questa dilatazione dell'insegnamento della filosofia vada attuata non solo nelle scuole pre-universitarie e in tutti i suoi indirizzi, ma va attuato anche a livello universitario, rompendo, una buona volta, il micidiale abbinamento che vede invariabilmente legata la presenza della filosofia alle sole Facoltà di Lettere o quelle di Scienza della formazione. Anche in ambito universitario occorre invece rivendicare una presenza diffusa e trasversale della filosofia la quale deve poter essere presente in tutti gli indirizzi di studio (anche e soprattutto in quelli scientifici, ma non solo in questi, of course!). Anche in questo caso bisogna superare i tradizionali e pregiudiziali steccati ideologici, culturali e civili che vorrebbero confinare pregiudizialmente la riflessione filosofica alla sola dimensione umanistica. Bisogna invece rivendicare una presenza strategica molto più diffusa e capillare della filosofia in tutti i diversi corsi di laurea.
Con questo cenno finale non può allora sfuggire come il problema della didattica della filosofia, se affrontato secondo la curvatura brevemente indicata in questo contributo, si configura veramente come un orizzonte strategico, teorico, culturale e civile di primaria importanza per l'intera nazione. Un orizzonte che non solo deve vedere impegnati tutti i docenti di filosofia in prima fila in questo complesso ed arduo dibattito nazionale, ma che richiede anche un notevole sforzo per difendere e diffondere la presenza istituzionale dell'insegnamento di una disciplina come la filosofia che da tutti questi cambiamenti istituzionali, civili e culturali non può che trarre un complessivo giovamento notevolissimo, trasformandosi da disciplina elitaria ed esclusiva, pensata ed insegnata solo a pochi eletti liceali, in una componente irrinunciabile per un uomo sempre più proiettato verso la comprensione e la modificazione di una realtà complessa ed enigmatica come quella nella quale siamo stati catapultati. Scriveva Wittgenstein, nel 1946: «si potrebbe fissare un prezzo per i pensieri. Alcuni costano molto, altri meno. E con che cosa si pagano i pensieri? Col coraggio, credo»[12].
[1] I. Kant, Critica della ragione pura, introduzione, traduzione e note di Giorgio Colli, Adelphi Edizioni, Milano 19763, pp. 714-5, corsivo nel testo; le due cit. kantiane che figurano immediatamente dopo nel testo sono tratte entrambe da p. 724.
[2] I. Kant, Critica della ragione pura, trad. it. cit., p. 810, corsivi nel testo, mentre la cit. che segue nel testo è tratta dalle pp. 810-11 (il primo corsivo è di Kant, mentre il secondo e mio). Le altre cit. che seguono nel testo sono tratte, rispettivamente, da p. 811 e da p. 813.
[3] Per un approfondimento di questa prospettiva critico-trascendentalistica sia lecito rinviare sia al mio volume L'epistemologia come ermeneutica della ragione (Erga-Cnr, Genova 1994) sia a Paolo Parrini, Conoscenza e realtà (Laterza, Roma-Bari 1995) e Id., Sapere e interpretare (Guerini e Associati, Milano 2002).
[4] In relazione alla situazione contemporanea della scuola italiana sia lecito rinviare al volume dello scrivente Socrate bevve la maieutica e morì. Quale futuro per la scuola italiana?, Prefazione di Riccardo Chiaberge, Gruppo Editoriale Colonna, Milano 1997, nel quale si dedica anche un'attenzione particolare alla presenza storica dell'insegnamento della filosofia nelle scuole medie secondarie superiori.
[5] Occorre tuttavia riconoscere come il gran parlare, che, solo una manciata di pochi anni fa, veniva incessantemente compiuto in relazione ai tempi “post-moderni” e alla “postmodernità”, sembra essere ormai passato completamente di moda. Ora, l'ultima moda del giorno, si “ingaglioffa” con altre realtà, molto più urgenti ed imperiose, in attesa, spasmodica, della prossima “novità”.
[6] Luciano Malusa, Uno sguardo sulle tendenze attuali riguardo alla didattica della filosofia, «Bollettino della Società Filosofica Italiana», maggio-agosto 2002, n. 176, pp. 43-54, la cit. si trova a p. 46, mentre la cit. che segue poi nel testo è tratta da p. 50. Per quanto concerne più direttamente il più recente dibattito concernente la didattica della filosofia, in questa sede mi limito a segnalare il sistematico contributo di Enrico Berti ed Armando Girotti, Filosofia, Editrice La Scuola, Brescia 2000 (nel quale si trova anche un'ampia ed analitica bibliografia ragionata cui senz'altro rinvio, cfr. le pp. 175-222) e il precedente volume, a più voci, di Aa. Vv., Filosofia per tutti. La filosofia per la scuola e la società del 2000, a cura di Mario De Pasquale, Franco Angeli, Milano 1998.
[7] Kraus: «gli allievi mangiano ciò che i professori hanno digerito» (Karl Kraus, Detti e contraddetti, a cura e con un saggio di Roberto Galasso, Adelphi Edizioni, Milano 19993, p. 210).
[8] Naturalmente in questo caso la quantità è qualità e quindi le classi non possono essere troppo numerose, in palese contrasto con le ultime ordinanze ministeriali che hanno invece innalzato il tetto massimo degli studenti che possono essere presenti in una classe portandolo al folle numero di trenta studenti. Inutile aggiungere come questa decisione, del tutto anti-didattica, anti-pedagogica e anti-culturale, è stata introdotta per mere opportunità di carattere estrinsecamente economiche (violando anche quanto previsto per lo spazio fisico da attribuirsi ai singoli studenti in una classe e violando anche evidenti norme di sicurezza civile).
[9] Cfr. Piani di studio della scuola secondaria superiore e programmi dei trienni. Le proposte della Commissione Brocca, Le Monnier, Firenze 1992, in 2 tomi.
[10] Sulla presenza della filosofia nei licei italiani è ancora utile consultare il pur datato contributo di Vittorio Telmon, La filosofia nei licei italiani, Editrice Clueb, Bologna 1990 (ristampa anastatica della prima edizione di questo volume apparsa originariamente presso «La Nuova Italia» Editrice di Firenze nel 1970).
[11] A questo proposito sia lecito segnalare i contributi dello scrivente, L'insegnamento della filosofia, diritto di cittadinanza per la scuola italiana del nuovo millennio, «Insegnare filosofia», anno IV, novembre 1999, n. 1pp. 5-7 e Id., La filosofia come anima vivente della cultura, «Insegnare filosofia», anno IV, febbraio 2000, n. 2, pp. 3-5.
[12] Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, a cura di Georg Henrik von Wright, con la collaborazione di Heikki Nyman, edizione italiana a cura di Michele Ranchetti, Adelphi Edizioni, Milano 1980, p. 100.