La
tecnica e l'atomizzazione della massa
I
titoli corrispondono a quelli dei paragrafi del libro. Sono stati effettuati
alcuni tagli ed eliminate le note.
La tecnica fa suo lo scenario
descritto da Marx, introducendo però quella variante che è l'atomizzazione
della massa e la sua disarticolazione in singolarità individuali che, foggiate
da prodotti di massa, consumi di massa, informazioni di massa, rendono superflua
la formazione di una massa concentrata, per cui "massa" non è più la
concentrazione di molti, ma, come "massificazione", è la qualità di
milioni di singoli, ciascuno dei quali produce, consuma e riceve le stesse cose,
ma in modo solistico.
In questo modo a ciascuno viene consegnata la propria
massificazione, ma con l'illusione della privatezza e con il finto
riconoscimento della sua individualità. Ciò comporta da un lato che simili
individui massificati non sentano alcun bisogno di concentrarsi per formare una
massa, e dall'altro che dopo essere stati nutriti abbondantemente di prodotti,
consumi, informazioni e valori di massa, quando escono di casa non percepiscono
più un "esterno" rispetto a un "interno", perché ciò che
incontrano in pubblico è esattamente ciò di cui sono stati nutriti in privato.
La schizotopia come
effetto della massificazione individualizzata.
Per questa singolare situazione dove il mondo esterno
non differisce da quello interno, G. Anders ha coniato l'espressione schizotopia,
che rinvia a quella "duplice esistenza spaziale'' per cui, grazie ai
media, siamo fuori siamo "in pubblico quando siamo "a casa", con
la conseguenza che nello spazio della casa siamo sempre "altrove",
mentre quando siamo "in pubblico" siamo semplicemente
"circondati" dal pubblico, quindi in una situazione dove ciascuno può
tranquillamente proseguire il suo stile di vita privata.
Là infatti dove la massa degli individui, che Le Bon e Freud avevano ritratto e
descritto come il luogo dell'irrazionalità, viene sostituita dalla massificazione
degli individui, che abolisce la differenza tra pubblico e privato, la
razionalità non è più la prerogativa del singolo individuo, ma della massa
degli individui che, con l'uniformità del loro comportamento "dentro"
e "fuori" casa, esprimono quell'omologazione collettiva che è
garanzia di quell'unica forma di razionalità riconosciuta dalla tecnica che è
la razionalità funzionale.
In questo scenario si capovolge il paradigma in
vigore nell'età pre‑tecnologica secondo cui la massa è irrazionale e
l'individuo è ragionevole, perché, come dice Nietzsche, là dove "tutti
vogliono la stessa cosa, tutti sono uguali: chi sente diversamente va da sé al
manicomio".
La circolarità
produzione‑consumo.
E’ noto che "produzione”, e “consumo"
sono due aspetti di un medesimo processo, dove decisivo è il carattere
circolare del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare
bisogni, ma si producono anche bisogni per garantire la continuità della
produzione delle merci. All'inizio e alla fine di queste catene di produzione
(di merci e di beni) si trovano gli esseri umani, instaurati come produttori e
come consumatori, con l'avvertenza che il consumo non deve essere mai
considerato, come avveniva nell'età pre‑tecnologica, esclusivamente come
soddisfazione di un bisogno, ma anche, e nell'età della tecnica soprattutto,
come mezzo di produzione. Là infatti dove la produzione non tollera
interruzioni, le merci "hanno bisogno" di essere consumate, e se il
bisogno non è spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrerà
che questo bisogno sia prodotto.
A ciò provvede la pubblicità, che ha il compito di
pareggiare il nostro bisogno di merci con il bisogno delle merci di essere
consumate. L'imperativo della tecnica: "si deve fare tutto ciò che si può
fare" trova qui il suo completamento: "si deve consumare tutto ciò
che si è prodotto, tutto ciò che si è fatto".
Si tratta di un consumo che non è la fine
naturale di ogni prodotto, ma il suo
fine. E questo non solo perché altrimenti si interromperebbe la catena
produttiva, ma perché il progresso tecnico, sopravanzando le sue produzioni,
rende obsoleti i prodotti, la cui fine, lo ripetiamo, non segna la conclusione
di un'esistenza, ma fin dall'inizio ne costituisce lo scopo. In questo processo
la tecnica usa i consumatori come suoi alleati per garantire la mortalità dei
suoi prodotti, che è poi la garanzia della sua immortalità.
L'incoscienza della
deprivazione.
Rifornendo gli individui di mondi possibili, di
identità proteiformi e di scelte sempre reversibili, la cultura del consumo
diffonde, nello sfarfallio delle possibilità, quella illibertà che è poi
l'astensione dalla scelta, tipica nel mondo del conformismo. Siccome non è
connessa a immagini di oppressione, questa forma di illibertà non è
assolutamente avvertita, e la deprivazione che comporta non è neppure
lontanamente accompagnata dalla sensazione di essere deprivati. Solo in
occasione di qualche guasto tecnico avvertiamo che il mondo che ogni giorno
abbiamo a portata di mano d'improvviso scompare, e allora invochiamo la tecnica,
affinché ci restituisca in artificio quel mondo che con tutte le sue possibilità
ci fa dimenticare che siamo stati deprivati del mondo naturale, e ormai anche
della possibilità di abitarlo.
L'incoscienza della
coscienza omologata.
Quanto s'è detto per il mondo della produzione vale
anche per il mondo del consumo, essendo produzione e consumo due aspetti del
medesimo processo, all'inizio e alla fine del quale incontriamo l'uomo che abita
un mondo delimitato da due ordini a cui corrispondono due obbedienze: l'ordine
di produrre e l'ordine di consumare ciò che è stato prodotto per consentire la
continuità della produzione.
Affinché il ciclo non si interrompa è necessario che
l'ordine non sia sentito come un ordine e l'obbedienza come obbedienza. Per
raggiungere questa condizione è sufficiente che il mondo della sovrabbondanza
dei beni prodotti e consumati non venga avvertito come uno dei possibili mondi,
ma come l'unico mondo, fuori dal quale non si danno altre possibilità di
esistenza. Allora e solo allora l'ordine e l'obbedienza non saranno più
percepiti come fatti coercitivi, allo stesso modo di come i pesci del fondo
marino non percepiscono come coercizione la pressione dell'acqua e gli animali
di terra la pressione atmosferica.
Se il mondo dei beni da produrre e consumare riesce a
costituirsi come mondo coeso senza lacune, senza interruzioni, senza
alternative, gli obblighi imposti da questo mondo e le obbedienze richieste non
saranno più avvertiti come tali, bensì come condizioni naturali di essere nel
mondo. Ma quando un mondo riesce a farsi passare come l'unico mondo,
l'omologazione degli individui raggiunge livelli di perfezione tali che i regimi
assoluti o dittatoriali dell'età pre‑tecnologica neppure lontanamente
avrebbero sospettato di poter realizzare.
Mentre infatti nelle varie fasi che in successione
hanno caratterizzato l'età pre‑tecnologica lo schiavo, il servo,
l'operaio potevano guardare a mondi diversi da quelli dischiusi dal padrone, dal
signore o dal datore di lavoro, nell'età della tecnica, dove il rapporto non è
tra uomini, tra servi e signori, ma tra tutti gli uomini, servi o signori che
siano, e l'apparato, non si dà altro mondo al di fuori di quello che l'apparato
dischiude, e là dove la possibilità di altri mondi è preclusa, l'obbedienza
esplicita, di cui nell'età pre‑tecnologica il servo aveva ancora
coscienza, diventa superflua.
Naturalmente quando ordini e obbedienze non sono più
necessari e, in assenza di altri mondi possibili, neppure più avvertiti come
tali, si ha l'impressione che ordini e divieti non esistano più, quindi si ha
l'illusione della libertà, che trova la sua attuazione nella possibilità di
scegliere fra tutti i beni di cui è rifornito quell'unico mondo che ci è dato
di abitare. La dialettica hegeliana tra il mondo del servo e il mondo del
signore trova la sua soluzione nell'unico mondo che la tecnica concede sia ai
servi sia ai signori, vincolati entrambi, pur nella differenza delle mansioni, a
"collaborare" al mantenimento dello stesso mondo che, oltre a sé, non
lascia altri mondi possibili.
L'opinione pubblica come
specchio di rifrazione della descrizione mediatica del mondo.
Se non c'è un mondo al di là della sua descrizione,
la telecomunicazione non è un "mezzo" che rende pubblici dei fatti,
ma la pubblicità che concede diventa il "fine" per cui i fatti
accadono. L'informazione cessa di essere un "resoconto" per tradursi
in una vera e propria "costruzione" dei fatti, e questo non nel senso
che molti fatti del mondo non avrebbero rilevanza se i media non ce li
proponessero, ma perché un enorme numero di azioni non verrebbero compiute se i
mezzi di comunicazione non ne dessero notizia. Oggi il mondo accade perché lo
si comunica, e il mondo comunicato è l'unico che abitiamo.
Non più un mondo di fatti e poi l'informazione, ma
un mondo di fatti per l'informazione.
Solo il silenzio restituirebbe al mondo la sua genuinità. Ma questo non è più
possibile. E così, quello che andava profilandosi sul registro innocente
dell'informazione diventa il luogo eminente della costruzione del vero e del
falso, non perché i mezzi di comunicazione mentono, ma perché nulla viene più
fatto se non per essere telecomunicato. Il mondo si risolve nella sua
narrazione.
Gli effetti di questo risolvimento sono facilmente
intuibili se appena volgiamo l'attenzione a quel gioco dei consensi che siamo
soliti chiamare democrazia. Se infatti
la realtà del mondo non è più
discernibile dal racconto del mondo,
il consenso non avviene più sulle cose, ma sulla descrizione delle cose, che ha preso il posto della loro realtà.
Nella democrazia tutti possono dire la loro, cioè fare la loro descrizione
del mondo. Ed è in questo senso che un tempo i partiti rappresentavano le
diverse opinioni della gente, i sindacati rappresentavano i lavoratori, le
associazioni industriali gli imprenditori; ora è la televisione a rappresentare
tutte queste rappresentazioni; ed è in questa rappresentazione di secondo grado
che si descrive il mondo e si costruisce il consenso.
Un consenso che non arriva alle cose, ma si arresta
alla loro rappresentazione, in quel gioco di specchi dove il sondaggio
dell'opinione pubblica è il sondaggio dell'efficienza persuasiva dei media, che
prima creano l'opinione pubblica e poi sondano la loro creazione. A questo punto
il "mezzo", il "medium", non è tanto la televisione, ma
l'opinione pubblica, ridotta a specchio di rifrazione del discorso televisivo in
cui si celebra la descrizione del mondo.
In ciò nulla di nuovo. Anche la vita degli antichi o
quella dei medioevali era lo specchio di rifrazione su cui si celebrava il
discorso mitico o il discorso religioso; la novità è che nelle società
antiche, dove si disponeva solo di piazze e di pulpiti, non era possibile
raggiungere l'intero sociale, per cui restavano spazi per idee e discorsi
differenti, da cui prendeva avvio la novità storica. Oggi questo spazio è
praticamente abolito, e la novità storica, se potrà esprimersi, dovrà
prodursi in forme che non si lasciano intravedere.
Esempi
di domande per stimolare la discussione in classe
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In che senso la massificazione può andare di pari passo
con il riconoscimento dell'individualità? |
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Che cosa indende G. Anders con il termine "schizotopia"? |
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In cosa consiste il passaggio dalla "massa degli
individui" alla "massificazione degli individui"? |
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In che senso anche i bisogni vengono "prodotti"? |
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Perché la cultura del consumo è una privazione, anche
se inavvertita, della libertà di scelta? |
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In che senso l'obbedienza al sistema non è più vissuta
come coercizione? |
 |
In che senso l'informazione "costruisce" i
fatti? |
 |
Qual è il pericolo maggiore che deriva dalla creazione
dell'opinione pubblica da parte dei media? |
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