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Comunicazione Filosofica n. 12 giugno 2003
Filosofare “infra”, ovvero dentro e oltre la crisi della didattica
di Graziella
Morselli
(20 settembre 2003)
Nel mese in cui si celebra a Modena un Festival che è ormai occasione ben collaudata di incontri, conferenze, esposizioni, festeggiamenti di ogni tipo in nome della filosofia, si ripete anche il rito secolare dell’apertura delle scuole, accompagnata dalla serie di lamentazioni e critiche che si accumulano ripetendo e accrescendo di anno in anno, all’infinito, il tema della crisi. Va da sé che anche la filosofia, da sempre assidua frequentatrice di ogni crisi, si riconosce tra le vittime di questo gioco al massacro, ovvero, in quanto è da sempre esercizio di autocritica, pone se stessa tra i colpevoli. La filosofia sembra godere, dunque, di buona salute in piazza mentre soffre di malattie incurabili, anzi aggravate da tendenze autoimmunitarie, nelle aule scolastiche.
Come ben si sa, non finisce mai la serie delle riforme annunciate, sperimentate, avviate e interrotte, che tentano di sanare la grande crisi della scuola, e di pari passo procede l’inseguimento di nuove forme, nuovi metodi, nuovi programmi per “adattare” l’insegnamento della filosofia ad una realtà che continua a sfuggire ad ogni analisi come ad ogni commissione ministeriale. E’ ancora il caso di continuare in questo modo? Sarebbe forse meglio rassegnarsi e attendere che la soluzione venga dall’alto, quale che sia, o prepararsi al crollo epocale che paventiamo, non essendo più in grado di fermarlo?
Per conto mio ritengo di gran lunga preferibile che, ormai forniti come siamo di tutte le informazioni, i dati statistici e i dati sensibili, le opinioni e le impressioni sulla grande malattia, abbandoniamo le dotte discussioni e le recriminazione passive per cercare una via di soluzione “dal basso” ossia intrapresa attivamente nella pratica, e tuttavia ben sostenuta da alcune convinzioni teoriche.
Un confronto alto sul terreno dell’empiria quotidiana
In basso solitamente si pone il luogo dove si opera quotidianamente, dato che nel parlar comune alta è la sede teorica e bassa quella empirica. Ma l’operare mediando tra le due sedi (ovvero tenendo presente gli stimoli culturali e il complesso delle conoscenze, e contemporaneamente misurandosi nell’opera quotidiana e sul terreno concreto) porta a rovesciare questi significati nel loro contrario, così che diviene “alto” il luogo del confronto con la realtà. La mediazione è dunque la via maestra, non certo intesa come ripiego, accomodamento, compromesso, ma intesa secondo due profili. Da una parte come assidua verifica delle condizioni che limitano o che favoriscono l’agire e, in corrispondenza, a modificare volta per volta i progetti e le strategie, dall’altra come disponibilità a trasformare se stessi, a mettere alla prova la propria visione del mondo nel confronto con quelle che, pur non dichiarate, agiscono come precomprensione nelle menti degli allievi.
Chi lavora in questo modo con la propria classe, più che “confilosofare” (secondo un termine ormai entrato nell’uso) media con la filosofia, opera nel terreno di mezzo e pone basi per andare oltre. In altre parole fa della filosofia “infra”, ovvero genera le infrastrutture del filosofare.
Per spiegarmi più chiaramente mi servirò di due elenchi di premesse, le teoriche e le empiriche, da assumere come opposte per rappresentare icasticamente quella spaccatura tra desideri e realtà che ci fa parlare di crisi dell’insegnamento della filosofia.
PREMESSE TEORICHE |
PREMESSE EMPIRICHE |
1. L’insegnamento della filosofia è da mantenere nella scuola italiana |
1. Per le esigenze della formazione, nella società d’oggi, la filosofia è materia priva di interesse |
2. E’ importante per la cultura della nostra democrazia, insegnare filosofia in tutte le classi della secondaria |
2. La maggior parte degli alunni non ha la preparazione di base e la scuola non ha fondi da investire per questa materia |
3. Occorrono alcune indicazioni nazionali di programma, per orientare i docenti alle scelte fondamentali |
3. La programmazione è nel caos delle autonomie, delle procedure collegiali, dell’assenza di criteri scientifici condivisi |
4. Lo studio della filosofia non fornisce contenuti ma l’accesso a una pratica del domandare riguardo alla totalità |
4. Impossibile vincere il nozionismo e impegnare in modo continuativo i giovani in riflessioni ad ampio raggio |
5. E’ essenziale la lettura dei testi e la loro contestualizzazione in un percorso storico e interdisciplinare |
5. La formazione dei docenti è spesso a questo scopo carente e mancano le risorse per l’autoformazione |
Com’è facile vedere, nella tabella si fronteggiano le migliori aspirazioni del/della docente di filosofia, su di un lato, e le più nette smentite che vengono dall’impatto con la realtà della scuola, sull’altro, e se si ritiene che le une e le altre premesse siano altrettanto vere, la contraddizione tra di esse è totale. Tanto che ogni insegnante sa come sia impossibile realizzare alcuna di quelle aspirazioni senza tener conto di quella realtà, senza tenere gli occhi aperti, riconoscere gli ostacoli e ammettere le sconfitte e le delusioni. Eppure, se cade nello scetticismo o inclina alla depressione, e rinuncia ad ogni tentativo, si trova in contraddizione con il fatto di rimanere tuttavia nella scuola condannandosi ad avvertire ogni mattina, senza saper rispondere, l’interrogativo sul senso di ciò che fa, che è poi l’interrogativo che va a toccare uno dei centri della sua vita.
L’interrogativo è inevitabile dal momento che l’insegnamento come istituzione, ovvero tutte le competenze, esperienze, forme e strumenti del lavoro del docente, è una consegna al docente da parte della società, costruita nel sentire comune e rappresentata dall’istituzione. Se società e istituzione sembrano aver perduto il ricordo stesso di quella consegna, che implicava un preciso compito per l’insegnante, egli/ella non può esimersi dal ricostruirla, pena la caduta del senso del suo lavoro e forse anche, come si è detto prima, della sua esistenza.
Individualismo in cattedra: inconvenienti e vantaggi
Per intraprendere la ricostruzione l’insegnante ha due vie: associarsi in un progetto comune (team, gruppo di lavoro, dipartimento, associazione), ovvero affrontare il problema da solo e a piccoli passi. Va da sé che il lavoro di progetto dà più strumenti e coinvolge più attori nella mediazione, perché si svolge entro un ampio arco di punti di vista e di situazioni, e attraverso le opportunità che ogni singolo componente del gruppo offre in fatto di conoscenze e di esperienze acquisite, permettendo così una vera e propria articolazione di strategie.
Tuttavia, come ben si sa, vi sono non pochi motivi di difficoltà relazionali all’interno dei gruppi, che possono intralciare o far fallire i progetti. La maggiore difficoltà del resto proviene dall’oggetto stesso di questi progetti, che è il rapporto didattico, poiché esso avviene sul terreno pratico in situazioni sempre difformi, e i suoi protagonisti sono individui dissimili, che stanno insieme ma non per questo partecipano necessariamente ad un’opera comune. Per questi motivi, in fin dei conti, occorre chiedersi se i progetti rivolti alla didattica, di ricerca teorica come empirica, non siano per loro natura inevitabilmente confinati nell’astrazione e difficilmente traducibili nella mediazione di cui stiamo parlando, che dovrebbe essere il loro vero obiettivo.
E allora, se le cose stanno così, mi sembra importante avanzare qui la tesi che l’abitudine a isolarsi, ovvero l’individualismo, che è visto per lo più come un difetto della categoria dei docenti secondari, perché ostacolerebbe ogni disegno unitario nella formazione, impedirebbe l’intesa tra docenti della stessa classe, vanificherebbe il funzionamento degli organismi collegiali, sia al contrario una realtà necessaria e opportuna quando la posta in gioco va ben al di là di quel disegno, di quell’intesa, di quel funzionamento.
Infatti la posta in gioco, qui, è l’impresa di riuscire a portare le classi, nello studio della filosofia, a essere comunità di ricerca e di dialogo. Un’impresa che non ha lo scopo di creare un’isola felice nell’orario scolastico, né quello di contrapporre una materia alle altre, quasi la filosofia avesse una missione superiore. Al contrario, l’impresa implica l’adozione di un profilo per così dire “basso” della materia, una sua sottrazione almeno iniziale a quel suo profilo di esercizio difficile e aristocratico che è presente nell’opinione dei più, anche se occorre evitare di ridurla alla banalità. E la riuscita di tale impresa avrebbe effetti di trascinamento, con ricadute benefiche sulla didattica delle altre materie, perché una classe messa alla prova del filosofare insieme non può che acquistare un abito riflessivo e un’inclinazione alla domanda, al dialogo, al rispetto delle opinioni altrui.
Ma queste ultime affermazioni suonano alquanto iperboliche, come se le sostenesse niente più che un’utopia. Occorre perciò tornare all’analisi del termine prima usato, quello di “mediazione”, alla luce della dichiarazione appena fatta, che sia opportuna e necessaria la tendenza del/della docente ad operare in isolamento.
La via maestra tra le contraddizioni
Tornando alla tabella, e indicando con T le cinque voci a sinistra (premesse teoriche) e con E quelle a destra (premesse empiriche), esaminiamo singolarmente le contraddizioni che ognuna delle voci rappresenta, alla ricerca del punto di mediazione sul quale può far leva sia un lavoro progettuale d’insieme sia, più semplicemente, l’interazione quotidiana tra singolo/singola insegnante e classe.
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Il contrasto fra T 1 e E 1, richiederebbe in via di principio, per venire superato, un rovesciamento di opinione circa la cultura filosofica da parte degli attori della scena sociale (famiglie, forze politiche, mondo della produzione), tra i quali si è diffusa da qualche tempo, nel corso dell’impatto con la modernizzazione dell’Italia e con i grandi e rapidi cambiamenti del mondo, la convinzione che nella scuola secondaria superiore lo studio di materie non immediatamente impiegabili sul mercato del lavoro sia un “optional”. E’ evidente che un rovesciamento così generalizzato e radicale non avviene dall’oggi al domani. Tuttavia è possibile che una percezione della filosofia, più rispondente all’importanza che essa riveste per la formazione, provenga dal fronte opposto, ovvero dalla scuola stessa. Da subito e nei fatti, può nascere per opera di un/una docente in una classe che pratica l’esercizio del pensare filosoficamente, piuttosto che in situazioni di insegnamento “ex cathedra”. Infatti, l’insegnante che singolarmente si espone in prima persona alle avventure del dubbio, della ricerca e del confronto di idee, riesce a costituire il “medium” tra le urgenze della produttività, dell’efficienza tecnologica, del successo personale e le richieste di senso che tali urgenze lasciano insoddisfatte ma i giovani avvertono come imperative.·
Al contrasto fra l’aspirazione allo studio della filosofia generalizzato (T 2) e la constatazione della mancanza di una formazione di base in molti ordini di scuole (E 2), ma anche in molti casi là dove di norma dovrebbe essere acquisita per opera di altri insegnamenti e in anni precedenti, si può opporre l’osservazione di esperienze fatte in istituti tecnici o anche in scuole elementari (dove è stata applicato il metodo della Philosophy for children). In molti casi si è dimostrata la possibilità di realizzare forme di “iniziazione” tardiva al riflettere, all’ascoltare, al discutere, e di avviamento al comprendere e usare il linguaggio e i metodi della tradizione filosofica. Che vengano realizzate da più docenti o da uno solo, queste forme implicano mediazioni differenti (tra quella particolare classe e quel/quella docente) per rispondere alla molteplicità e varietà delle situazioni. e alle loro trasformazioni nel tempo. Ma certamente è più facile che la sensibilità e l’esperienza di un insegnante in contatto costante con i suoi alunni colgano il profilo della classe e le sue variazioni, e i momenti più adatti, le migliori opportunità per rapportarsi a loro.·
Anche per la contraddizione fra T 3 e E 3, laddove risulti difficile una programmazione concordata, oppure impossibile raggiungere criteri epistemologici di buon livello, esiste la possibilità di superare il problema mediante pratiche di composizione tra opposte esigenze. In questo caso è utile la doppia decisione di mantenere, da una parte, la guida dei grandi maestri della tradizione, e di rispettare, dall’altra parte, le direzioni verso cui si orienta, nello sviluppare la ricerca, il lavoro comune in classe. Entro questi due binari, anche temi estemporanei, suggeriti da circostanze locali o da occasioni temporali concrete, saranno sottratti all’improvvisazione per trovare una collocazione rigorosa. Al tempo stesso sarà salvaguardato il diritto della disciplina di insegnamento a non essere dequalificata o stravolta da intromissioni particolaristiche.·
Le premesse al quarto punto investono anch’esse la programmazione e quindi la questione dei contenuti e dei metodi. E’ proprio nel caso della filosofia che si avverte come il nozionismo sia una grave malattia della scuola, contratta sia dai docenti sia dagli alunni quando si abituano a trattare i saperi come corpi costituiti da riprodurre o come tecniche da utilizzare. Ma tale cattiva abitudine viene facilmente contrastata dal contatto immediato e precoce con gli interrogativi propri della filosofia e con i testi dei grandi pensatori. Infatti, più che quanto i filosofi hanno già pensato, ai giovani interessa sapere come hanno pensato quegli stessi problemi che urgono nella loro mente. Quando poi arrivano a cogliere il livello alto e generale delle questioni o, come si suole dire, a pensare nel quadro della totalità o dell’universale, scoprono un loro interesse a praticare logiche e stili diversi e applicarli ad antichi problemi nella situazione di oggi, o a nuovi problemi. La domanda, la ricerca, la discussione, la stessa produzione scritta, finiscono con l’apparire loro non più faticose né troppo impegnative. Un ruolo decisivo, in questo caso, lo svolge la passione con la quale l’insegnante si dedica a quelle pratiche insieme a loro, e ancora una volta ciò potrebbe avvenire meglio nel caso di una classe isolata. Anche se l’optimum si otterrebbe, certamente, con la partecipazione di più docenti appassionati, infervorati nel raggiungimento del traguardo dopo aver perseguito un progetto comune.·
Se è vero T 5, che il filosofare porta a confrontarsi con la grande tradizione, e implicitamente a leggerne i testi tenendoli, al tempo stesso, nella prospettiva storica che li ha generati e che li distanzia da noi, il sospetto che sia vera la premessa E 5 balza agli occhi ogni volta che si vedono docenti attaccati pigramente a vecchie pratiche, come la rassegna storica dei filosofi da manuale o la mnemonica che procede per schede, mappe, riassunti, imparaticci di ogni tipo. Ma questa resistenza è dovuta soltanto alla pigrizia, al rifiuto di applicarsi a nuovi studi, alla presunzione di sapere quanto basta? Vi sono docenti che portano con sé, immutata, la convinzione che loro compito sia trasmettere corpi di sapere storicamente identificati in autori, scuole, sistemi di idee, o come tecniche acquisite, e a questo compito spesso sono onestamente preparati. A convincerli della necessità di cambiare non saranno progetti, nei quali essi non vedono che superficialità e improvvisazione, né gruppi di colleghi volenterosi. Potranno invece stimolarli, in qualche caso, i loro alunni venuti a contatto con altre classi impegnate nel filosofare, che vorranno emularle. Anche questo è un effetto di mediazione, tra ideali e realtà, tra docenti che praticano due differenti profili didattici (alto e “basso”, ovvero astratto e concreto), e anche tra docenti e allievi.
La domanda cruciale
Dopo aver cercato di rispondere in modo positivo ai timori e ai dubbi iniziali, indicando vie mediane e realistiche, e come siano possibili, chi sarebbero i protagonisti, quali i tempi prevedibili, rimane da indagare sugli spazi. Può avere un luogo, nelle scuole, una didattica rinnovata della filosofia? Per “luogo” intendiamo qualcosa di più di una casella del curricolo o dell’orario, o della disponibilità di un laboratorio multimediale, di una biblioteca, di esperti per consulenze, di aggiornamento. Perché spesso vi è luogo soltanto sulla carta, quella del POF o quella delle circolari e dei verbali, laddove imperversano la retorica della programmazione e si apre il vuoto della più superficiale incompetenza. Anche pagelle, registri, tabelloni, che certificano le valutazioni, possono costituire per la filosofia luoghi del tutto privi di senso.
Dovremmo dire che la filosofia ha luogo là dove viene domandata, esercitata, vissuta, purché non si scambino queste condizioni con quelle proprie di uno spazio interiore, il quale non appartiene propriamente alla scuola. E’ nella scuola che dobbiamo far abitare l’interrogativo, la ricerca, il dialogo filosofici, se vogliamo ricostruire il suo senso nella vita di oggi. Ma qui può sorgere anche il più grande dubbio, che tutto ciò non abbia spazio nella crisi adolescenziale, che appare sempre più un mare in tempesta nella desolazione di una società ormai sorda ai bisogni autentici dei giovani, priva di prospettive per la loro vita, dimissionaria rispetto ai compiti educativi. La scuola che questa società continua a mala pena a tenere in piedi, sembra spesso uno scenario fatiscente, poggiato su basi sempre più sgretolate, dove si recitano copioni che interessano sempre meno a chi le frequenta, ripiegato com’è sulla sua sofferenza, oppure occupato a produrre propri copioni per le recite del rifiuto e della trasgressione, della disperazione e del cinismo, che corrispondono a domande inespresse, e le mascherano.
L’insegnamento della filosofia sembra non avere mezzi per affrontare tanti casi di turbamento e disorientamento tra gli adolescenti.
Siamo così giunti alla domanda cruciale: la nostra scuola è in grado di costituire uno spazio visibile e pubblico, dove possano trovare risposte le domande più urgenti dei giovani? Uno spazio in cui il pensiero non rimanga un esercizio dilettevole, ma possa venire scoperto come la risorsa essenziale per vivere in un mondo alienato?
Davanti a questa domanda si affollano tutte insieme le nostre premesse a ribadire le ragioni per rinnovare l’insegnamento e a ricordare le grandi difficoltà che vi si oppongono. Né appaiono sufficienti a contenere quelle ragioni e quelle difficoltà, le considerazioni che si potrebbero ancora fare seguendo la via della mediazione.
Il fatto è che il disegno che si è delineato ai nostri occhi di docenti, con gli obiettivi da perseguire, sembra destinato per la sua grandezza a sconfinare dall’orizzonte quotidiano fino a precipitare.
La malattia, il farmaco, il vaccino
Il grande disegno è quello che pone la pratica della filosofia al centro di quella terapia del vivere di cui tutti sentiamo il pressante bisogno, come farmaco indispensabile per un platonico “vivere bene”. Uno degli obiettivi primari è quello di somministrare il farmaco precocemente, a scopo preventivo, come fosse un vaccino necessario a difendere dalla malattia le nuove generazioni.
Tuttavia, per costruire abbiamo bisogno di piccoli passi, di tempi lunghi e di molto realismo. La risposta a quella domanda è affidata a questo cauto procedere, un procedere che richiederebbe anche di andare in buona compagnia, cercando giorno per giorno di ingrossare la piccola schiera che si è messa già in cammino. Forse possiamo paragonare questa schiera a quella dei “medici scalzi” di maoista memoria, purché non ci si accusi di voler fare riferimenti ideologici fuori luogo, ma si tenga soltanto presente quanto povera di mezzi, ma non di tenacia e di coraggio, sia la piccola schiera dei/delle docenti che lavorano all’innovazione.
Proviamo allora a modificare un po’ quella domanda, per moderare l’inquietudine che essa suscita, in questo modo: saremo capaci, noi che amiamo essere coinvolti nel lavoro della filosofia, di ottenere lo spazio indispensabile al dialogo pubblico con i giovani, nel loro tempo e nelle loro scuole?
E’ evidente che a tale domanda non si può rispondere subito e che occorrerà rispondere in molti, dopo aver creato una sorta di alleanza. L’alleanza di coloro che, stanchi del troppo dire, hanno deciso che occorre passare al fare, e che alla filosofia non può bastare di “star bene in piazza”. Se ha per sua natura il dono di nutrire le menti nell’esercizio di dare e cercare ragioni per vivere in relazione con gli altri, alla filosofia è necessario stare soprattutto nel luogo dove questo esercizio coincide interamente con l’avventura della formazione, e dove le menti giovani possono incontrare le forme, le regole, e gli esempi più alti del pensiero.