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Comunicazione Filosofica n. 12 giugno 2003
Luciano Malusa
Uno sguardo sulle tendenze attuali riguardo alla didattica della filosofia[1]
1.
L’occasione felice dell’apertura dell’attività della sezione catanese della SFI, profondamente rinnovata per l’impegno benemerito e assiduo degli amici docenti delle Facoltà di Lettere e di Scienze della formazione, e di tanti docenti della scuola secondaria, mi permette di trattare di un argomento che in questi ultimi tempi è diventato, nel nostro paese e nella cultura filosofica, di attualità: la didattica della filosofia. Ho accettato l’invito dei colleghi con la consapevolezza di trovarmi tra persone che comprendono bene le nuove dimensioni della presenza della filosofia nella scuola e nella società, e quindi ho preparato una serie di considerazioni che vogliono, in maniera sincera e per nulla formale, inquadrare il fenomeno della “didattizzazione”, che sta caratterizzando molti ambiti disciplinari nella scuola e nell’Università, filosofia compresa.
Prima di iniziare intendo, però, elevare un pensiero commosso alla memoria dell’amico e collega prof. Corrado Dollo, che ci ha prematuramente lasciato, e che, in passato, molto aveva fatto per la SFI e per la sua sezione catanese. Sono ancora turbato per la sua scomparsa, che mi ha privato di un punto di riferimento nell’amicizia e nello studio. Intendo quindi ricordare la sua figura di studioso e di uomo di cultura, la sua ironia serena, il suo sentimento distaccato nei confronti degli eventi, la sua aria da antico aristocratico siciliano. Dedico a lui questo mio intervento, consapevole che, se fosse stato presente, non avrebbe mancato di farmi conoscere il suo illuminato punto di vista. Corrado Dollo amava la filosofia come istanza di serietà e di concretezza, non come vertice dell’astrazione e dell’estraneazione dal concreto; di qui la sua apparente noncuranza per molte manifestazioni filosofiche rarefatte e forse artefatte. In realtà Corrado era un grande appassionato nei confronti dello studio della filosofia come momento decisivo per l’esperienza umana. La sua formazione, i suoi gusti lo portavano allo studio della storia della scienza; però il suo scopo era quello di trovare nello spirito della scienza quella destinazione speculativa che la rendeva compiuta.
Corrado Dollo era molto schietto nel suo approccio ai problemi scientifici e filosofici, quasi addirittura “burbero”. Vorrei, per una volta, imitarlo, ponendo una questione cruciale per la presenza della filosofia nella società e nella scuola del nostro paese, ma non solo. Da presidente della Società filosofica italiana, il più antico sodalizio che raggruppa i docenti e gli studiosi di filosofia, credo di poter parlare chiaro sulle tendenze attuali. La SFI è un’associazione in profonda trasformazione, ed è bene prendere atto delle sue nuove scelte o tendenze, magari per correggerle o indirizzarle.
La premessa da cui parto è che oggi si parla molto di didattica della filosofia, ma che forse non si comprende fino in fondo cosa significhi affermare che essa è importante per un nuovo ruolo della filosofia nel mondo contemporaneo. Vorrei sgomberare il terreno da equivoci legati a qualche affermazione che farò, con il sostenere che sempre, nella storia della filosofia, il problema didattico è stato essenziale. Se lo è oggi in modo particolare è perché si è modificato il modo di essere della filosofia nella cultura e nella storia. Da sempre gli uomini hanno praticato la filosofia come attività educativa, che implicava il filosofare come impegno a insegnare la filosofia, e il rapporto educativo come mezzo per ricercare il vero ed il bene. Da poco, tuttavia, si è giunti a ritenere che la filosofia possa avere forte incidenza nella società anche se non si presenta nella sua valenza educativa “forte”. Il rapporto educativo che di fatto costituiva il filosofare si va trasformando e va perdendo le sue caratteristiche di accrescimento e incremento del patrimonio della filosofia. Addirittura si dubita che esista un patrimonio di sapere e di consapevolezza nell’ambito della disciplina che è chiamata “filosofia”.
Mi corre l’obbligo di fare un’altra precisazione, per non essere frainteso. Nella storia pochissimi sono stati coloro i quali hanno praticato la filosofia in senso tecnico ed in senso culturale “alto”. Pochissimi cioè sono stati coinvolti in un processo educativo che avesse la filosofia come mezzo e scopo. Moltissimi uomini non hanno mai neppure avuto sentore del sapere filosofico. Eppure, nelle scuole dove la filosofia si faceva, vigeva il paradigma di un coinvolgimento completo nell’apprendimento di essa e nella formazione al filosofare. Oggi la filosofia è avvicinata da molti, nella scuola e fuori, attraverso la divulgazione; il coinvolgimento nella ricerca filosofica si è tuttavia fortemente attenuato. Non si vuole affermare, quindi, che il paradigma dell’educazione filosofica come filosofare sia stato universalmente applicato ed accettato. Si vuol far notare che questo paradigma, ritenuto fino allo scorso secolo praticamente scontato, anche se applicato a pochi in grado di interiorizzarlo, e incoraggiato come fine e ideale dell’educazione, di una determinata educazione relativa alla vocazione filosofica, oggi non viene presentato più come valido in assoluto.
Per “didattizzazione” io intendo la tendenza che si è manifestata in questi ultimi anni nella scuola e nell’Università, praticamente in tutta Europa, a considerare ogni disciplina del sapere nella sua dimensione di trasmissibilità dalla logica disciplinare alla logica di apprendimento. Fin qui nulla di nuovo, rispetto a tendenze manifestatesi da parecchio tempo nei movimenti pedagogici, almeno a partire dalla metà dell’Ottocento, e poi proseguite con il cosiddetto “attivismo”. Per le tendenze del rinnovamento pedagogico novecentesco la disciplina non deve essere intesa più nella sua formale astrattezza ed organizzazione, bensì deve tradursi in linee di apprendimento del discepolo di una scuola, e deve adattarsi alle condizioni psicologiche e sociali di lui. Quello che io considero importante con il termine “didattizzazione” è la tendenza che si è manifestata in parecchi casi ad una “riduzione” dalla disciplina a tutto vantaggio di una serie di indicazioni di metodo e di constatazioni epistemologiche e psicologiche sulle condizioni del discepolo.
A me sembra che, con la didattizzazione attuale si sia modificato il senso del rinnovamento pedagogico manifestatosi tra Ottocento e Novecento, per il quale la centralità andava assegnata certo all’alunno e non all’istituzione od al corpo delle discipline del sapere, senza però che si perdesse di vista il momento di acquisizione del sapere, ed il congiungimento della scuola, con le sue iniziative, alle finalità delle discipline stesse. Mi sembra che oggi sia venuta meno la compenetrazione tra logica disciplinare e indicazioni psicologiche e metodologiche sull’alunno, e che si manifesti la tendenza a privilegiare l’alunno nella dinamica del suo sviluppo, assolutizzando le procedure. La metodica sull’alunno sembra divenuta il fine ultimo di ogni riflessione, al punto che nelle tendenze recentissime riguardo ai programmi scolastici si parla solo di “obiettivi” e di “metodologie” e non di “contenuti”.
Riguardo alla filosofia la “didattizzazione” non è molto antica come tendenza, ragion per cui ancora certe sue manifestazioni sollevano problemi e reazioni. Vorrei con molto distacco, ma non senza passione, considerare la direzione presa dalla didattizzazione filosofica e valutare quindi, di conseguenza, i diversi fenomeni che si sono manifestati con la creazione delle scuole di specializzazione per la Scuola secondaria (SSIS) e con la revisione dei programmi scolastici. Per brevità mi limiterò alla situazione italiana, eventualmente ricordando qualche linea di tendenza dei paesi della Comunità europea.
2.
Didattizzare la filosofia ha avuto sinora il significato di considerare il senso del far filosofia tra i giovani e di proporre determinate scelte nell’approfondimento delle tematiche filosofiche dettate non tanto dal rilievo di esse, ma dalle esigenze degli alunni. Ma ha avuto soprattutto il significato di creare nuovi linguaggi sulla dimensione scolastica della filosofia e sulle scelte degli studenti in ordine ai problemi filosofici. Queste tendenze non mi disturbano, si intenda: tuttavia introducono uno “stile” di filosofare che va capito a fondo, e che non pare sempre condivisibile.
Mi spiego meglio: si assiste al passaggio di parecchi capitoli della filosofia, così come si sono costituiti nei secoli, all’ambito di un sapere sulla acquisibilità di certe consapevolezze. Non si pone più l’accento sulle sequenze di problemi e di soluzioni, o sulle diverse dottrine stratificate e spesso contrapposte, ma ci si interroga sul come problemi e soluzioni possano entrare nel patrimonio dei giovani e come possano determinare certi loro comportamenti e consapevolezze. La didattizzazione porta come risultato quindi l’aprirsi di un contenzioso con le situazioni culturali della filosofia del passato e con le tendenze stesse della ricerca che permangono oggi nelle Università. Si contrappone allora la cultura in formazione degli alunni e il costituirsi di un patrimonio culturale medio della nazione e delle diverse società ad una serie di tendenze sul piano della ricerca storica, dell’indagine teoretica in senso stretto, epistemologica, etica, estetica, ed altro. Le tendenze filosofiche prevalenti sono commisurate alla condizione sociale delle scuole, allo spirito complessivo della condizione giovanile: con il risultato di dichiarare tutte o parte di tali tendenze ormai incapaci di incidere sulla formazione e sull’interesse delle nuove generazioni. Si è assistito al manifestarsi di questa operazione anche durante i lavori del XXXIII Congresso nazionale della SFI di Genova, che, essendo dedicati ad un tema di natura squisitamente “didattica”, si sono benissimo prestati per analisi anche impietose dell’inadeguatezza della ricerca storica nei confronti delle attese delle giovani generazioni che affrontano gli studi medi superiori. Rinvio senz’altro ai due volumi che contengono gli Atti[2].
L’attuale momento di discussione sulla filosofia nella scuola e nelle sue valenze formativa a livello di scuole anche diverse da quella liceale vede il prevalere di un’inquietante noncuranza sulle valenze delle manifestazioni e delle tendenze filosofiche prese in se stesse. Si discute di ciò che può dare la filosofia ai giovani nel loro percorso formativo e nel loro iter di apprendimento, ma non si guarda alla disciplina per quel che essa, con il suo patrimonio di acquisizioni plurisecolari, può fornire nella sua tensione veritativa, nelle sue capacità di spronare la mente ad acquisire quella saggezza e quella quadratura che sono indispensabili per una formazione compiuta dell’uomo. L’accento posto sui problemi meramente metodologici o sociologici significa che, alla luce di queste tendenze, la filosofia sfugge, si nasconde nella sua autentica capacità di indurre al pensiero come esercizio primario dell’essere umano. Inoltre la didattizzazione significa assumere la pura convenienza psicologica e sociale come paradigma per giudicare una soluzione filosofica, un autore, una tendenza. Viene completamente espunto il senso della ricerca filosofica come ricerca di una sintesi superiore alle stesse discipline scientifiche e constatative, e si considerano dottrine ed autori come elementi capaci di interagire nella formazione personale, a prescindere dalle loro valenze veritative o argomentative.
C’è comunque, a mio avviso, qualcosa di peggio: didattizzare significa sostituire al linguaggio filosofico, desunto da autori e da tradizioni, un linguaggio desunto dalle tendenze pedagogiche contemporanee, che non parla di sistemazioni, di acquisizioni, di chiarificazioni, di problemi filosofici, ma che, al contrario, parla di ciò che la filosofia può dare in ambito educativo, e di come si può far filosofia nello specifico scolastico e educativo, in vista dei processi formativi. Con la conseguenza che si passa per filosofia una forma di lessico pedagogico riguardante la formazione filosofica, senza che esso indichi un passaggio da problemi e soluzioni a consapevolezze e acquisizioni, cioè una vera e propria “trasmissione” tra generazioni del filosofare e del patrimonio di certezze e di problemi.
Nell’attuale situazione italiana si è assistito alla proliferazione di testi di didattica della filosofia che sono in buona parte caratterizzati dalla presenza di questo linguaggio pedagogico sulla filosofia tra gli alunni e nella formazione dei giovani. Sovente prevalgono toni retorici e si adottano considerazioni che sono valevoli genericamente per ogni processo educativo[3]. Sono consapevole che affermando questo posso attirarmi critiche di superficialità e cordiali antipatie. Però debbo dire con sincerità quello che penso da lungo tempo. La quantità di testi dedicati alla didattica della filosofia era molto modesta negli anni della mia formazione filosofica in Padova, dove peraltro aveva sede il Centro didattico nazionale per i Licei, diretto allora da Giuseppe Flores d’Arcais, ed il cui compito era anche quello di incoraggiare studi ed aggiornamenti sulla didattica della filosofia. Di queste lacune riguardo alla metodologia dell’insegnamento filosofico io mi lamentavo, ritenendole frutto di una sorta di “boria de’ filosofi”, per parafrasare Vico. Pensavo che non vi fosse la capacità di comprendere che non può bastare la trattazione di alti problemi filosofici in opere astruse per offrire alla scuola metodi adeguati per il loro insegnamento e la loro assimilazione. Ora mi trovo di fronte all’opposta “boria”, quella dei “didatti” o dei “pedagogisti”, i quali ritengono di prescindere quasi totalmente dalla logica del filosofare concreto in una comunità di studiosi od in un ambiente internazionale per offrire precetti finalizzati all’insegnamento dei filosofi o dei problemi filosofici, precetti che prescindono in buona parte dalla valenza speculativa delle soluzioni proposte.
In luogo di trattare degli specifici problemi filosofici nella loro traducibilità per la mentalità dei giovani, si preferisce oggi disquisire su ciò che la filosofia è per il mondo giovanile o su ciò che occorrerebbe fare per rendere operante un influsso filosofico nella scuola. Si disquisisce su modalità didattiche standardizzate, presentate come risolutive per un’efficace formazione filosofica. La tendenza della didattizzazione ora si trasferisce dai testi ai siti internet in cui si parla di didattica della filosofia e si riportano materiali su di essa. Si trasferisce sui “forum” informatici, e viene istituzionalizzata dal Ministero attuale, il quale affida anche alla SFI il compito di seguire “via internet” gli insegnanti in ruolo più giovani nel loro primo contatto con le problematiche didattiche[4]. Di filosofia intesa nel senso di ricerca e di verifica non se ne vede più. Per dire meglio: tra riviste, libri e siti internet si vedono pochi tentativi di compenetrare problematiche filosofiche e processi di apprendimento. Si parla e si disquisisce sulle responsabilità dell’insegnante di filosofia, sul suo ruolo nella formazione giovanile, sulle metodiche per farla interagire con molte altre strategie scolastiche, ma di vera filosofia in atto non si parla quasi mai.
Non vorrei essere frainteso: non sto denunciando con la didattizzazione un imbarbarimento degli studi filosofici. Sto solo notando uno spostamento di accento dalla filosofia come disciplina, con la quale dovrebbero confrontarsi giovani e meno giovani, alla filosofia come ingrediente formativo, deprivata però della specificità della sua struttura. Non è che la tendenza didattizzante si manifesti solo nella filosofia: essa è divenuta una costante di ogni disciplina. Però si nota benissimo che lo studio della filosofia sta mutando parecchio con questa tendenza: si finisce con il dimenticare che l’umanità procede nell’accrescimento del proprio sapere mediante un impegno ad approfondire e ad ampliare l’orizzonte che dev’essere corale, che non può conoscere dispersioni. Distinguere senz’altro la logica dell’accrescimento disciplinare dalla logica della formazione è necessario per salvaguardare entrambi gli ambiti. Ora, proprio la didattizzazione rischia di mettere in crisi la disciplina, senza il vantaggio però di accrescere il ruolo formativo di essa in una scuola organizzata senza riferimenti seri alla complessità dottrinale stessa.
3.
La disciplina non può insomma essere trascurata a vantaggio della formazione. Questa necessità si avverte soprattutto per la filosofia, disciplina quanto mai particolare per la sua situazione di cerniera tra diversi ambiti, addirittura per la sua collocabilità al di fuori dall’orizzonte scientifico, ma in una stretta connessione con ogni ambito umano (pratico-politico, religioso, artistico, sociale). Se la filosofia non ha definizioni precise o collocazioni come disciplina, ma appare una disciplina di “cerniera”, che criticamente valuta o integra l’enciclopedia stessa del sapere, ebbene proprio questa sua collocazione del tutto atipica la rende largamente esposta al rischio di vanificarsi nella sua consistenza disciplinare. Occorre quindi che anche in ambito educativo e scolastico essa sia considerata come un insieme unitario, con cui dialogare e con cui interagire, ma non da annullare.
Nelle vicende complesse che ha attraversato la filosofia nella scuola italiana si è assistito ad un interessante andirivieni di posizioni che di volta in volta tendevano a rafforzare la disciplina od a ridurre la sua consistenza alla logica delle attività formative. Sarebbe un interessante lavoro di storico raffinato quello di valutare la collocazione delle varie parti della filosofia come parti sistematiche nei manuali e nei programmi dell’età cosiddetta del positivismo, fino al 1923; sarebbe poi interessante dare conto di tutte le prese di posizione polemiche o costruttive relativamente alla collocazione della filosofia nel panorama delle discipline scolastiche, che si manifestarono da noi sempre in quel periodo e anche dopo, onde comprendere le oscillazioni della considerazione della filosofia, vuoi come disciplina, vuoi come attività formativa, vuoi come elemento esornativo, vuoi come elementi di discrimine nella stessa organizzazione scolastica. Dai tempi della contestazione alla mentalità del positivismo, che aveva istituzionalizzato una prassi di insegnamento filosofico legata a posizioni del tutto astratte e dogmatiche, ai tempi della applicazione della riforma ispirata da Giovanni Gentile, con la sua particolare interpretazione dalla centralità dei testi filosofici, e poi ai tempi della discussione, negli anni Cinquanta e Sessanta, intorno al sapere storico ed alla teoresi come paradigmi della stessa “visibilità” della filosofia in Italia, si è assistito ad un interessante dibattito sul diritto della filosofia a guidare la formazione delle giovani generazioni, ed in quale veste, se legata alle discipline umanistiche oppure vicina maggiormente alle discipline scientifiche, se fedele al ritmo storico o preoccupata più delle problematiche.
La consistenza della disciplina, però, non è mai stata posta in dubbio in questi dibattiti. Nelle discussioni della seconda metà dello scorso secolo, invece, l’influenza delle correnti pedagogiche tendenti a privilegiare del tutto la logica dell’attività formativa, cioè il punto di vista del discente, ha inglobato le problematiche filosofiche nella prospettiva didattica. Forse la prevalenza delle cosiddette “scienze umane” nell’orizzonte delle discipline legate alla mente ed all’essere sociale dell’uomo ha spinto nel vago e nell’indeterminato l’indagine filosofica, considerata scarsamente individuabile per “statuto epistemologico”. Il fatto di aver considerato, anche da parte di taluni filosofi nostrani, la filosofia come uno sterile ripiegamento sulle proprie scarse e vaghe problematiche, poste tra l’altro in crisi proprio dall’avanzamento delle scienze umane, ha provocato un atteggiamento, sotto il profilo didattico, di riduzione conseguente. La filosofia, non avendo né conclusività né metodicità, può essere collocata nell’area delle discipline formative non in vista di una propria consistenza, ma in vista di aver sempre accompagnato, o bene o male, con ruoli spesso incerti ma comunque attraenti, le vicissitudini umane.
La conclusione è che oggi si sta perdendo di vista l’aspetto disciplinare della filosofia, a tutto vantaggio dell’aspetto formativo “puro”. Prospettiva che deve preoccupare, in quanto rischia di vanificare lo specifico del sapere filosofico nel suo costituire elemento di rivendicazione del’orizzonte della verità e dell’attribuzione di senso. La didattizzazione ha come suo limite l’impossibilità di inglobare interamente la disciplina, anzi il pericolo di farlo, in quanto vi è il rischio della dispersione problematica. La pedagogia non può eliminare, nel suo attribuirsi la gestione della problematica formativa, lo specifico della filosofia come insieme di attività di ricerca che si alimentano di certo dalla capacità di trasmettersi e di accrescersi nella stessa consapevolezza delle diverse generazioni, ma che pure mantengono viva una tensione che è propria di un procedimento il quale si alimenta dalle conquiste e dalle ristrutturazioni.
Ritengo che per meglio comprendere il senso genuino della trasmissione filosofica, cioè il vero configurarsi didattico come sforzo comunicativo reale, come vero crearsi di comunanza di pensiero e di ricerca, occorra pensare che in fondo tutta la storia della filosofia è storia di scuole filosofiche. Se si intende veramente questa condizione, che la storia del pensiero documenta, non si può non affermare con un certo paradosso che l’intera vicenda della filosofia è vicenda della trasmissione della verità da parte di chi l’ha conquistata a chi la sta cercando, e si configura come una “storia didattica”. Paradossalmente, allora, si formulano sistemi filosofici, si fanno asserzioni perché vengano comprese e professate, portando avanti una visione del mondo e della vita tale da sussistere e venir sempre fruita. La filosofia richiede che vi siano coloro che l’apprendano e che la sentano con la stessa intensità del loro maestro. La filosofia vive nella mente di coloro che ritengono di doverla continuamente tradurre in termini utili a divenire nutrimento spirituale, costanza della professione intellettuale.
Lungi quindi dal disprezzare la didattica si dovrebbe considerare che la storia della filosofia sia una sequenza di vicende legate tutte al rapporto interpersonale maestro-allievo, in cui il maestro prepara il suo allievo alla fruizione completa di quella verità che egli ha acquisito con molti anni di studio e di meditazione, e che continua incessantemente a descrivere, difendendola dagli attacchi dei contrari, degli scettici, degli indifferenti. Cosa altro è una scuola filosofica antica, se non un’organizzazione didattica raffinata, particolare certo, ma orientata alla trasmissione della verità nel modo più alto ed esaustivo? Cosa altro è l’Università medievale, nelle scuole delle arti o di teologia, se non una struttura per iniziare l’allievo alla conoscenza dei grandi pensatori e delle loro fondamentali opere, dei grandi testi teologici e religiosi, secondo un metodo e secondo una serie di convincimenti dialettici? Cosa poi sono le scuole filosofiche nell’Ottocento, soprattutto quelle manifestatesi in Germania, con le discussioni, le difese e gli attacchi, con la preparazione di grandi opere di storia della filosofia, che intendono mostrare come si arriva alla grande filosofia e come tutte le vicende della storia cospirino alla sua preparazione?
Tre esempi, tre scuole, tre modalità didattiche diverse di preparare all’assimilazione della vera sistematica filosofica, onde rendere possibile la prosecuzione degli insegnamenti di un maestro, onde rendere possibile il perpetuarsi di una tradizione. In altre parole si sono illustrati gli esempi di tre modalità didattiche. E dunque la didattica della filosofia è la condizione prima per la sua sopravvivenza. Trovato dunque l’accordo tra visione della didattica perenne e l’attuale didattizzazione? Avrei i miei dubbi. In realtà il modo di intendere la filosofia come naturale didattica si discosta dal modo attuale di considerare la filosofia “sub specie didacticae”. Nella situazione del presente non è in questione la trasmissione all’allievo della vera dottrina, dello spirito di un sistema, di una visione del mondo e della vita. Si tratta di considerare la filosofia con le sue partizioni, con le diverse dottrine che la storia propone, con i problemi che ha sempre dibattuto, come se fosse ingrediente di un’azione educativa complessa in cui entrano elementi diversi, dalle discipline letterarie, alle discipline scientifiche, all’educazione morale e civile. Inoltre si tratta di mediare le dottrine con le condizioni dell’alunno e con le condizioni della società che porta avanti certi progetti scolastici. Il valore formativo della filosofia è visto nella dimensione di un’educazione della criticità, del gusto, della sensibilità; non è visto nell’ambito della verità o del bene in se stessi considerati.
4.
Consideriamo pertanto che due sono le didattiche con cui la filosofia può avere a che fare: una didattica come perennità di rapporto trasmissivo di verità, che coinvolge costantemente un maestro ed un allievo che amano la verità e che amano coinvolgersi a vicenda nella sua ricerca; ed una didattica come abito a mediare i risultati della ricerca filosofica, o la filosofia così come è socialmente considerata, con gli scopi dell’educazione scolastica o civile. Una didattica quest’ultima come utilizzo della filosofia, come sua integrazione in un contesto formativo. Non vale dire che la formazione mira alla verità ed al bene e quindi che in tale formazione la filosofia è presente in modo massiccio, addirittura prioritario. Il rapporto educativo non coinvolge nel caso della didattica in senso debole la filosofia come destino dell’uomo, come massima espressione della ricerca e del possesso della verità. Il rapporto educativo comporta nei nostri giorni il fatto di subordinare la filosofia alle finalità della società, della cittadinanza, dell’iniziativa tesa a formare individui capaci di “far carriera”, di saper lavorare, di saper guidare gli alteri, al limite.
Non si dica che quest’ultima accezione di didattica in realtà è l’erede della didattica integrale dell’atto di comunione di ricerche e di consensi. La profonda diversità sta nel fatto che la trasmissione della filosofia da una generazione ad un’altra avveniva nella convinzione di un passaggio della verità da uno spirito ad un altro, della composizione di una comunità di persone di eguale convinzione e agire, che pensava di condividere veramente la certezza, la bontà, un mondo di verità. Nel mondo attuale della comunicazione si studia la filosofia perché fornisce notizie magari utili, perché apre la mente, perché abitua a ragionamenti sulle tendenze etiche e sulle metodologie di ricerca. Si ritiene la filosofia utile nella misura in cui sono utili la matematica e le lettere, le lingue e l’educazione fisica. Il vero rapporto filosofico non cresce allora più tra gli uomini? Non è così, e vi sono modi ancor oggi validi di trasmettere la verità e di condurre un dialogo sinceramente filosofico, che culmini con consensi e con coinvolgimenti profondi. Però il paradigma del rapporto didattico non è percepito dalle generazioni attuali in questo modo, ed anzi sovente l’eccesso di discepolato filosofico è visto con sospetto o con compatimento, mentre l’impegno del filosofo nel pensare puro viene sostituito dall’attività mediatica del filosofo (veri maestri di filosofia oggi sono considerati quelli che hanno una spazio sui giornali come opinionisti).
Le scuole filosofiche nel senso antico o medievale non esistono più; esistono solo rari e sporadici casi di discepolati integralmente filosofici. Non esistono però più forme di discepolato esclusivo, neppure nelle Università, dove si parla impropriamente di scuole filosofiche. Nei casi che si verificano oggi riguardo alla “fruizione” della filosofia la didattica indica un rapporto parziale tra la filosofia ed un alunno grazie ad alcune sollecitazioni di professori che non intervengono con la loro personalità che in casi rarissimi, tendendo anzi a sparire come maestri di filosofia. Mi pare a questo punto di sentire proteste e contestazioni da parte di tanti docenti della scuola secondaria che possono sentirsi a disagio nel ruolo che io ho constatato. Sono proteste legittime, perché credo di aver esasperato una situazione che esiste, coinvolgendo tutti i docenti, anche quelli bravi e preparati e soprattutto quelli che sempre hanno inteso la loro presenza in scuola come formativa anche a livello di avviamento degli alunni alle consapevolezze speculative e veritative. Tuttavia debbo dire che nella auto-valutazione comune a tanti professori il loro insegnar filosofia si riduce al guidare gli alunni a gustare alcuni testi filosofici ed a comprendere l’importanza di certe problematiche. Difficilmente si va oltre questi obiettivi. L’obiettivo di “confilosofare”, che indica generosamente De Pasquale in diversi suoi interventi di didattica della filosofia, non mi sembra quasi mai sfiorato, se per “confilosofare” si intende il coinvolgimento dell’alunno nel processo di ricerca filosofica, in un processo entro il quale si apprendono argomenti, si delineano percorsi veritativi, si valutano soluzioni.
Il senso del magistero filosofico autentico, come guida al filosofare ed all’acquisizione delle consapevolezze veritative sta sparendo per una scelta di noncuranza, o per l’abbandono dei parametri un tempo vigenti per istituire la discepolanza filosofica? A questa importante domanda credo convenga rispondere che si è praticamente perduto il senso della scuola filosofica, perché la ricerca filosofica ha mutato i suoi metodi e le sue dimensioni. In un contesto di dispersione e di parcellizzazione della ricerca filosofica, e di pratica scomparsa del senso della “setta filosofica”, intesa nel senso del “seguire” un maestro entro una organizzazione di scuola, è evidente che la filosofia sussiste nella cultura come una disciplina il cui incremento e la cui trasmissione è delegata ad una miriade di momenti non coordinati tra di loro.
A questa situazione-limite che favorisce la didattizzazione della filosofia va aggiunta un’altra situazione, cioè la sostituzione del paradigma classicamente filosofico, inteso nel senso della filosofia come indagine diretta alla verità, con un paradigma che potremo definire “debole”, o “post-moderno”, inteso nel senso della filosofia come semplice chiarimento di concetti, semplice integrazione di indagini che provengono da discipline scientifiche e da attività umane. In questa seconda situazione evidentemente la didattizzazione si inserisce con motivazioni precise: la filosofia va insegnata come un “atteggiamento”, come un modo di chiarire le situazioni, un modo come altri. Non posso evidentemente stigmatizzare questo modo di intendere la filosofia nelle scuole, perché in fondo esso è stato ingenerato dalle stesse tendenze oggi maggioritarie delle filosofie. Ma debbo lamentare che le affermazioni sulla “debolezza” del sapere filosofico siano state interpretate anch’esse in senso debole, indebolendo così ogni forma di spere filosofico su cui si possa e si voglia contare. La didattizzazione potrebbe essere anche l’esito più eclatante dell’indebolimento della filosofia in epoca post-moderna.
5.
Mi rendo conto di essere stato troppo secco e assoluto nelle argomentazioni con cui ho delineato la tendenza non sempre accettabile della didattizzazione contemporanea. Credo che la mia esagerazione abbia inteso delimitare un terreno su cui, nella realtà scolastica, sia ancora possibile applicare un modo di far filosofia che rispetti ed esalti la natura ancora teoretica e veritativa di essa. Infatti resto convinto che sia stata una mossa sbagliata quella di aver privilegiato la logica di tipo pedagogico nel momento in cui ci si interrogava sul modo migliore di rendere utile la filosofia per le giovani generazioni. La logica dell’apprendimento ha un valore inferiore, secondo il mio punto di vista, rispetto alla logica del rapporto educativo come crescita della consapevolezza della verità della ricerca filosofica. Disciplina e logica formativa debbono compenetrarsi e non separarsi.
La vera difficoltà di realizzare sempre e in qualunque situazione un vero rapporto educativo che veda la filosofia come elemento centrale nella ricerca comune della verità e nello stabilimento di un senso relativamente alla realtà del mondo in cui l’alunno vive sta nella carenza di convincimenti negli insegnanti. La maggioranza dei professori della scuola secondaria non ritiene di avere un’autorevolezza ed una preparazione tali da far assumere loro un ruolo di educatori al vero. Una simile espressione, anzi, viene rifuggita come retorica. In realtà la responsabilità dell’insegnare e dell’educare insieme richiederebbe anche per la filosofia una presa di posizione che riconducesse l’insegnamento filosofico alle sue antiche dimensioni sapienziali, e non solo tecniche. Non si richiede al professore di filosofia di assumere la responsabilità quasi di uno scolarca o di un magister medievale: si chiede invece a lui di tentare di ripristinare un rapporto solido di ricerca con gli alunni, e di considerare la filosofia come un’occasione irripetibile per l’alunno per fare un’esperienza di accrescimento nella qualità del sapere e nella consapevolezza delle problematiche più alte della condizione umana.
Intenderei allora, in via conclusiva, alzare la mia voce per incoraggiare gli insegnanti che si ritengono ancora educatori al filosofare e che pensano possibile nella loro classe di indurre i ragazzi a partecipare al cammino della filosofia con il loro modesto ma sincero impegno a capire ed a discutere lo sviluppo incessante del sapere filosofico. L’insegnante di filosofia non è il migliore od il leader degli insegnanti di una classe, perché la filosofia, pur avendo un ruolo rilevante nell’orizzonte del sapere e della ricerca, non è al centro dell’organizzazione delle attività. L’insegnante di filosofia può essere un curioso docente che ha avvertito quali possibilità può avere il suo magistero filosofico nei confronti delle intelligenze e delle sensibilità dei suoi ragazzi e che si sforza di farli partecipare al destino universale della ricerca sul vero e sul bene. Nel cercare di realizzare questo scopo egli non deve pensare in termini di grandezza o di epocalità: deve fare solo il suo dovere di essere rigoroso e sincero, preparato ed accorto, prudente e convincente, “esperto” nell’esegesi dei testi dei filosofi, guida alla loro comprensione. Ma soprattutto, a mio modesto avviso, il professore di filosofia che intende sottrarsi ai paradossi ed agli inconvenienti della didattizzazione, deve essere “amico della verità”, credendo in ciò che insegna e spiega dei grandi testi e delle grandi testimonianze speculative, e convincendo in questo anche l’alunno.
La mia speranza sarebbe allora quella che lo stile dell’insegnante fedele a se stesso ed alla verità contagiasse molti professori. L’ambizione sarebbe quindi che, attraverso l’attività della SFI, nel suo bollettino, nei suoi siti, nelle sue sezioni, circolassero testi e si manifestassero posizioni in grado di comunicare alcune di queste convinzioni e si potessero organizzare alcune delle procedure che trasformino il docente da puro “tecnico” e “didatta” in appassionato operatore della formazione autentica nella verità. Non so se la mia sia un’aspirazione troppo alta; in ogni caso vale la pena di provare e di contrastare un prassi pan-didattizzante che non conduce di certo all’incremento del sapere filosofico, ma lo vanifica o lo assimila ad altro. La sopravvivenza della SFI, minacciata da tante spinte centrifughe, legate alle logiche di un associazionismo esasperato, potrebbe essere proprio quella di far riferimento al modo autentico di sopravvivere del sapere filosofico, legato al genuino instaurarsi di un rapporto, che solo può dirsi “didattico”, perché volto alla formazione dell’alunno nella corrente della produzione di dottrine e soluzioni tali da esaltare la vocazione umana alla verità ed al bene.
[1] Il presente testo riprende le parole di saluto e di augurio che sono state pronunciate da me, nella veste di Presidente della Società filosofica italiana, nel corso dell’inaugurazione dell’attività della rinnovata sezione catanese nell’Anno Accademico 2001-02 (alla presenza della massime autorità accademiche). Ai ringraziamenti che sono espressi doverosamente nel testo aggiungo in generale quello ai docenti di filosofia delle scuole catanesi ed agli studiosi di filosofia delle Facoltà della città etnea, uniti nello sforzo di valorizzare il ruolo formativo della filosofia. Le parole che ho pronunciato, e le considerazioni che ho fatto, hanno un preciso riferimento anche all’impegno di vivere la filosofia come professione e come impegno di libertà in modo autentico che ho visto in parecchie persone nell’ambito catanese. Vorrei in particolare ringraziare il Presidente della Sezione catanese, prof. Sergio Pezzino e la Segretaria di essa, prof. Sara Longo, che nel giro di pochi mesi hanno ripristinato le gloriose tradizioni della Sezione, ponendo Catania tra le sedi SFI più attive e ricche di iniziative.
[2] Cfr. La trasmissione della filosofia nella forma storica, a cura di L. Malusa, Angeli, Milano 1999, 2 voll. Come tutte le pubblicazioni di questo tipo vi è una parte che oggi come oggi appare già caduca, ed è la parte che riguarda la contingenza del momento di riflessione sui problemi della filosofia. Vi è però, a mio avviso, anche la parte che sembra destinata ad attrarre l’attenzione ancora per qualche anno, ed è quella delle relazioni in cui si sono affrontate, discusse e criticate le tendenze di fondo del sapere storico-filosofico.
[3] Un elenco dei maggiori contributi allo studio sulla didattica della filosofia si può trovare nel volume di E. Berti-Girotti, Filosofia, La Scuola, Brescia 2000. Non si dimentichi anche di consultare le bibliografie contenute nei “siti internet” della SFI.
[4] Il corso di aggiornamento per gli insegnanti immessi nei ruoli di recente ha visto la partecipazione anche a dibattiti per via informatica, con il collegamento al sito internet disposto appositamente per conto dell’INDIRE (associazione fiorentina che, per mandato del MIUR, ha curato la formazione via telematica degli insegnanti). Il risultato di tale corso di formazione, coordinato dal prof. Fulvio Cesare Manara (che qui ringrazio per la collaborazione e per il non facile impegno) mi sembra che sia stato abbastanza soddisfacente.