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Comunicazione Filosofica n. 12 giugno 2003
Sergio A. Dagradi
Formazione e/o
filosofia?
Alcune considerazioni attorno al concetto di formazione in relazione al ruolo
professionale del docente di filosofia
Non lavoriamo che a riempire la memoria, e lasciamo
vuote l’intelligenza e la coscienza. Proprio come gli uccelli
vanno talvolta a cercare il grano e lo portano nel becco
senza gustarlo, per farlo beccare ai loro piccoli, così i nostri
pedanti vanno saccheggiando la scienza nei libri, e non
la tengono che a fior di labbra, tanto per rovesciarla
e gettarla al vento.
Michel de Montaigne
1. Il tentativo avviato alcuni anni or sono, sotto gli auspici dell’allora ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer, di approdare ad un riassetto strutturale del sistema scolastico italiano – il primo organico dopo la riforma fascista di Giovanni Gentile - ha posto come centrale, accanto alle difficoltà implicite nella definizione delle nuove funzioni e delle nuove proprietà della cosiddetta scuola dell’autonomia, anche la questione della formazione dei docenti. La formazione dei docenti, come ricordato anche da Giuseppe Cambiale nella sua introduzione ad uno dei Quaderni di Iter sull’argomento[1], rappresenta il nodo di qualsiasi cambiamento strutturale si voglia dare alla scuola italiana. Essa è inoltre da considerarsi come elemento qualificante per lo sviluppo e l’attestazione di una rinnovata professionalità della figura docente. Anche di quella di filosofia, quindi, come bene ha sottolineato recentemente Enrico Berti[2]. Anzi, potremmo ben dire che, per la specificità di alcune tematiche e i tratti di alcuni aspetti legati al concetto di formazione, quali li andremo a delineare nel corso della nostra trattazione (il rapporto tra sapere e società, ad esempio, o il rapporto tra la formazione del docente ed il modello formativo che egli a sua volta propone, o ancora la dimensione critica che dovrebbe caratterizzare ogni autentico sapere), il docente di filosofia sia più di altri chiamato in causa appunto per la tradizionale affinità della sua disciplina con queste stesse tematiche. Credo pertanto utile riflettere attorno ad alcune questioni relative al concetto di formazione, avendo come punto di riferimento privilegiato proprio la definizione della figura professionale del docente di filosofia della nuova scuola superiore.
Le considerazioni che seguono – nella loro frammentarietà ed episodicità, dovute anche alla dispersione semantica del concetto di formazione – vogliono essere un modesto contributo in questa direzione.
2. Il termine formazione si istituisce etimologicamente attorno al concetto morfogenetico del formare, del dare forma. E’ solamente da questo significato originario che è possibile il suo utilizzo in modo estensivo, anche in campo pedagogico e didattico, ossia negli usi di «educazione, addestramento, maturazione o sviluppo».
2.1. Nel dare forma la forma emerge come una funzione d’ordine rispetto a qualcosa, come una funzione strutturante rispetto a una situazione precedente. Il dare forma, implicitamente, intende un processo orientato nel tempo e nel quale la tappa seguente comporta una diminuzione dell’entropia, del disordine del momento precedente: questo aumento di ordine è letto evidentemente in senso positivo. L’accrescere la capacità organizzativa di un sistema è sempre stato culturalmente interpretato – anche sulla base della diminuzione del livello di stress psicofisico che, in termini di sopravvivenza e di controllo della realtà, l’ordine produce nel singolo individuo – come un’implementazione delle potenzialità, dell’efficienza (nel modo di operare) e dell’efficacia (rispetto alla soluzione di un contesto problematico) nel comportamento del singolo appunto in relazione al sistema dato.
La forma – come insegnava già Aristotele (Fis., II, 1, 193 b 28; Met., IV, 1015 a 11) – è sì il realizzarsi delle possibilità, ma potremmo anche affermare che tali possibilità divengono reali, in altre parole conosciute e coscienti, solamente nel momento della loro realizzazione, solamente nel momento della loro attuazione, ossia della loro messa appunto in forma. Questo fatto può essere inteso anche alla luce della teoria dell’informazione di Shannon e Wiener. La quantità di informazione trasmessa dipende dalle possibilità del sistema comunicativo e dalle loro probabilità di attuarsi: si ha informazione quando si determina un processo di eliminazione di alcune di queste possibilità – che debbono essere considerate come di disturbo alla trasmissione dell’informazione stessa – al fine di evidenziare la possibilità che si vuole far accadere nel sistema di comunicazione stesso. Detto altrimenti l’informazione è una diminuzione della confusione, o entropia negativa (neghentropia), che realizza – ossia mette in atto, dà forma a – una delle possibilità del sistema[3].
2.1.1. Sulla base delle profonde trasformazioni che hanno investito le società occidentali nell’ultimo quarto del secolo scorso, emerge inoltre come attualmente questo valore sia ancor più accresciuto: la capacità di dare nuove forme, ossia di innovare e trasformare appare come decisivo in ogni attività umana organizzata. In altre parole, ci si deve confrontare con quella centralità della risorsa umana e di quello che viene definito capitale intellettuale, che risulta essere una peculiarità della cosiddetta net society[4]. Come conseguentemente notato da Domenico Lipari, nella società attuale l’obiettivo che ogni processo di formazione dovrebbe porsi è quello di promuovere «[…] oltre alle conoscenze e alle abilità operative, […] la capacità strategica degli attori ad orientarsi nei contesti produttivi avendo come punto di riferimento la dimensione del cambiamento[5]». Viene a prendere corpo – come protocollo a questa impostazione – l’idea che anche e soprattutto la scuola divenga un servizio formativo di questo tipo: un luogo di scambio di merci immateriali fra un fruitore che trae vantaggi specifici da queste merci, e un erogatore che ricava guadagni[6]. La formazione, detto nuovamente, si configurerebbe come momento integrato e qualificante del processo di produzione delle merci nell’economia della net society[7].
2.1.2. Alcuni elementi di problematizzazione a questo quadro ce li può fornire l’ultimo studio di Pekka Himanen[8]. A partire dalla riforma protestante – rileva Himanen sulla scorta di Max Weber - il guadagno ha rappresentato, accanto al lavoro in sé, come dovere, una finalità dell’attività umana. Anzi, il conflitto sotterraneo nell’etica protestante era rappresentato dalla domanda su quale delle due finalità – il lavoro o il guadagno da esso derivato – dovesse essere valutato come prioritario. La risposta nell’ambito del protestantesimo ha teso privilegiare la prima, ma, con la crescente autonomizzazione del capitalismo da ogni etica e da ogni spirito, il denaro è diventato la motivazione più forte; per Himanen addirittura quella centrale ed unica nella cosiddetta new economy. La valorizzazione del denaro nel modo capitalistico di produzione è inoltre stato posto in relazione con il tempo. Franklin, in un passo ripreso anche da Weber, sosteneva essere il tempo denaro:«Time is money». Dietro questa espressione si cela il concetto che la realizzazione del guadagno è legata a una ottimizzazione e razionalizzazione dell’utilizzo del tempo. Questa idea si è tradotta in una crescente compressione di esso, ovvero in una accelerazione dei ritmi di produzione e, conseguentemente, in una parallela accelerazione dei ritmi di realizzazione del plusvalore, ossia dei ritmi di vita e di consumo delle merci. Come aveva evidenziato già André Gorz[9], l’accelerazione della produzione fu legata al tentativo di uscire dalla fine della crescita fordista: si trattava di produrre nuovi bisogni, nuovi consumi legati al superfluo e all’effimero, all’immateriale. Nella prospettiva di Himanen questo si è esplicitato in una competizione tra aziende nel promettere di rendere disponibile ai consumatori i beni futuri più velocemente degli avversari. I tempi di circolazione delle merci – e della realizzazione di plusvalenze – sono oramai prossimi, sulla rete, a una velocità pari a quella della luce. Sono questi i tempi reali del mercato della new economy (che determina anche i tempi della old economy e della vita sociale nella summenzionata net society). Rispetto a questi ritmi – nota sempre Himanen – si rivela una sempre crescente difficoltà della riflessione ad essere consapevole di ciò che accade e quindi anche a governare i processi in atto.
Riprendendo pertanto la precedente sollecitazione di Domenico Lipari, la domanda che sorge alla luce delle osservazioni di Himanen è, quindi, che tipo di formazione efficace potrebbe essere garantita dal sistema scolastico rispetto a un mercato del lavoro che si muove a una velocità eccessiva per qualsiasi analisi dei suoi bisogni, anche e soprattutto in termini di qualifica professionale, di competenze e capacità specifiche dei soggetti che vi operano?
A questo viene a sovrapporsi un’altra contraddizione che si ingenera quando si chiede alla scuola di essere più pratica e proprio in connessione al mercato del lavoro, contraddizione che – tuttavia – credo ci possa anche indicare un sentiero da intraprendere per ripensare il significato della formazione nelle nostre scuole (e forse soprattutto per chi insegna filosofia). Questo mercato, proprio perché figlio di quelle dinamiche accelerate suddette, deve confrontarsi con l’esigenza che prende il nome di flessibilità e che il mercato stesso sembra proporre come caratteristica imprescindibile ad ogni soggetto che voglia essere socialmente incluso nel processo lavorativo e produttivo. Ora, proprio il voler assumere la scuola come luogo di una formazione intesa come aggiornamento professionale (meno teoria, più pratica), ovvero di formazione sul cambiamento (adeguo le mie qualifiche a un insieme di richieste, colmando le carenze professionali in vista delle nuove esigenze che il mercato appunto mi richiede), cozza contro questa idea di flessibilità che richiede a mio avviso – e se si vuole anche paradossalmente - un soggetto dotato non tanto di competenze specifiche (il saper fare qualcosa), ma della capacità di autoformarsi costantemente, di elaborare nuove competenze, dotato cioè di un bagaglio – per sua natura più teorico che pratico – che consiste nell’essere capace di rispondere in modo creativo (creatività intesa qui come capacità di elaborare risposte adeguate a situazioni nuove e risposte nuove a situazioni consolidate) alle sfide professionali. Ciò che la scuola dovrebbe proporre – e attorno alla quale elaborare quindi la professionalità del docente, perché si riversi nelle situazioni formative e relazionali del proprio lavoro – è quindi un modello di formazione come cambiamento. Formazione come cambiamento significa fare propria la sfida culturale di pensare l’esperienza formativa secondo una intrinseca funzione trasformativa, che è quella che la scuola stessa dovrebbe trasmettere ai propri utenti per ottimizzare la loro collocazione sociale, anche e soprattutto in modo critico rispetto ad un mercato del lavoro che – appunto – richiede ai soggetti stessi sempre maggiore flessibilità (e, peraltro, una certa modellizzazione confindustriale della flessibilità)[10].
Ecco, io credo che da questo punto debba partire ogni tentativo di valutare in termini di efficacia rispetto al mercato il processo formativo messo in atto dall’istituzione scuola. La scuola – in quanto istituzione – ha tempi diversi, inevitabilmente più lenti rispetto al mercato[11]. La scuola – come tutte le istituzioni della nostra società - viene in altre parole a vivere anche una propria crisi rispetto alla impossibilità di tener dietro ai tempi imposti dal mercato attuale; e a doversi ripensare proprio rispetto a questa nuova situazione, o trovando un proprio spazio sociale diverso dal precedente e relativamente autonomo rispetto al mero soddisfacimento delle istanze produttive, o votandosi all’autosoppressione a favore di altre forme di formazione-per-il-mercato (ammesso, ripeto, che siano pensabili sulla base delle contraddizioni evidenziate)[12].
3. La domanda successiva, apparentemente strana, ma che forse apparirà tale solamente perché pone una questione - che crediamo fondamentale per la formazione - in un modo radicale, estremo e forse anche provocatorio, è se possa esistere – rispetto al vissuto umano di ognuno (essendo il nostro concetto di formazione indagato essenzialmente avendo come punto di riferimento il suo orizzonte pedagogico, nel senso più lato che è possibile dare a quest’ultimo termine) – un punto zero (come lo chiamava, peraltro riferendosi ad un altro orizzonte di discorso, Roland Barthes) nel processo di formazione, nel processo del dare forma. E’ possibile, in altri termini, pensare all’essere umano come a qualcosa che, in un immaginario e indefinibile punto iniziale, è stato «senza forma». La domanda non è – come sostenuto - priva di significato; ovvero, non è pura questione di erudizione, né vuoto vagheggiare di una mente oziosa, come si sarebbe detto qualche tempo fa: porsi questo problema, significa porsi (o riproporsi) il problema del bagaglio di conoscenze/competenze del quale ogni individuo sarebbe più o meno dotato fin dalla nascita, che viene ad accrescersi nel corso del suo processo di maturazione e sul quale si innesterebbe ogni successivo training di formazione dell’individuo. In modo diverso: porsi questo problema significa porre la questione della definizione dell’orizzonte originale di intervento di ogni processo formativo che si intraprende – o che si voglia intraprendere – su ogni singolo. Come del resto evidenziato da Mario Giacomo Dutto: «La concezione dell’insegnante come professionista riflessivo è oggi una acquisizione fondamentale perché coglie, proprio nella capacità di leggere la propria azione e di rendersi consapevole dei processi, la chiave di volta di una professione[13]». L’aspetto di consapevolezza del proprio operare, detto altrimenti, mette proprio in questione la capacità di interrogarsi su quale sia il punto di innesto dell’intervento formativo[14], e di conseguenza se - in termini evidentemente provocatori, perché così non è mai - esista un punto zero di esso. Detto nuovamente: la provocazione è rivolta a quegli insegnanti che, ignorando (o fingendo per comodità di ignorare) il curricolo dei/delle loro discenti, la loro provenienza, le loro pregresse esperienze scolastiche e più in generale culturali, nonché il contesto economico, storico e sociale all’interno del quale l’azione educativa viene intrapresa, fingono la possibilità che la mediazione didattica sia univoca e data a priori, a prescindere – appunto – da tutte queste considerazioni, come se il soggetto che si ha di fronte fosse una sorta di tabula rasa.
3.1. Come ci ricorda Winnicott, il processo di nascita, crescita, maturazione di un individuo accade sempre e costantemente entro una relazione: occorrono nel tempo mutamenti per quanto riguarda il tipo di relazione, la sua strutturazione, la sua più o meno consapevole complessità, ma mai verrà meno il fenomeno di relazione in quanto tale ed entro il quale – appunto – viene a definirsi la crescita della persona umana.
All’interno del contesto relazionale – e quindi sociale – l’individuo nasce, cresce e diventa soggetto, ossia acquisisce la propria identità, che come tale si delinea da-sempre nel suddetto contesto e come il prodotto di successive operazioni di attribuzione semantiche, entro le quali l’individuo stesso è irretito tanto come oggetto passivo quanto, a poco a poco, come soggetto autonomo. E’ nello schema relazionale di raffronto sé-altro da sé che accade questa attribuzione, in particolare attraverso la funzione strutturale svolta dai diversi linguaggi che attraversano ogni interazione (e la rendono anche possibile). Detto altrimenti: l’identità, come immagine riflessiva nella quale il soggetto giunge a riconoscersi come sé, accade in un processo ancor precedente anche la nostra nascita e che esprime la socialità della propria strutturazione nella dimensione dei multiformi linguaggi entro i quali tale processo è giocato. Sono, ad esempio, il linguaggio del corpo (quelle che, per esempio, Marcel Mauss ha chiamato le tecniche del corpo), dei gesti (alcune delle quali individuate da Carl Gustav Jung o da Michel Foucault come tecnologie del self), degli abiti, della voce (si pensi agli studi di Lacan) etc. che ci parlano, ci raccontano, ci formano: ci offrono l’orizzonte sociale – ossia culturale – di emergenza e di accadimento del nostro stesso essere. Ognuno nella sua peculiare ed unica successione di esperienze relazionali.
3.2. Nessun punto zero, pertanto: l’uomo in quanto essere culturale – ovvero sociale – è già sempre formato, si presenta sempre, fin dalla nascita come portatore di una forma, di una certa forma, propria della cultura generale del luogo e del tempo, ma anche delle scelte dei genitori, dell’ambiente parentale, economico-sociale, di classe. Formato dall’opulenza o dalle privazioni. Formato da valori (qualunque essi siano) o dall’assenza di essi, da norme e regole sociali più o meno esplicite e più o meno accettate e che gli prescrivono determinate aspettative di ruolo all’interno dei differenti gruppi sociali con i quali si trova ad interagire, sulla base di quelli che vengono anche definiti cultural patterns. Su tutti questi elementi ogni serio intervento di formazione non può prescindere dal riflettere.
3.2.1. L’azione formativa deve quindi originariamente essere pensata entro questo orizzonte dato e deve quindi essere consapevole del contesto culturale e portatore di valori specifici entro il quale si va ad inserire e con il quale deve raffrontarsi – sia nel senso di un accrescimento dell’integrazione dell’individuo in tale contesto (misurabile quasi in termini di efficienza), sia nel senso di un aumento delle istanze critiche ed autonome del singolo rispetto al contesto. Inoltre – e sulla scorta anche di alcune riflessioni maturate in precedenza - appare evidente come la formazione debba intendersi come un processo continuo e mai concluso. La formazione come cambiamento si esplicita in un incessante valutazione degli interventi, delle loro conseguenze, nell’elaborazione di nuove strategie, in un percorso mai finito, con risultati mai dati definitivamente e per sempre. La partecipazione sociale - e quindi anche critica – in una società in rapida e continua mutazione richiede un soggetto sempre aperto, sempre fluente. La fissità della specie segna darwinianamente la rotta della sua estinzione.
Questo presuppone che la formazione continua divenga una componente stabile anche dello sviluppo professionale del docente, e una formazione che si sviluppi in stretta connessione con la riflessione sulla sua personale e pregressa esperienza, nel raffronto con il contesto sociale nel quale va a innestarsi la propria azione didattica, tentando di individuare lo specifico dei discenti e delle discenti che ha di fronte – con la loro storia, le loro domande e i loro valori ad esempio - e che funga, tutto questo, da stimolo al suo miglioramento. Come sostiene Mariella Spinosi:
Per essere efficace la formazione dovrà innanzitutto uscire dalla logica formale e, per questo, situarsi nella vita lavorativa quotidiana, ma in una forma che procuri stimoli intellettuali. Le migliori esperienze ci dicono che se i docenti si impegnano in un’analisi prolungata dell’insegnamento, mediante training collettivi, con attività permanenti e significative, è possibile raggiungere risultati positivi e visibili, anche relativamente agli esiti formativi degli studenti. Una buona formazione per adulti funziona se le proposte si connettono strettamente con le esperienze lavorative, se c’è un rapporto diretto tra ricerca e controllo degli esiti, se l’adulto si sente attore della propria formazione, quindi se l’attività presenta un alto grado di autogestione[15].
Detto altrimenti: la qualità e il modello di formazione degli studenti e delle studentesse dipende dalla qualità e dal modello di formazione del/la docente[16]. Bene infatti sottolinea Mario De Pasquale quando evidenzia che:
L’insegnante dovrà imparare a scegliere, gestire, regolare, rettificare l’attività didattica, sulla base delle sue conoscenze e della realtà che ha di fronte, tenendo conto del feedback che proviene dalla verifica dei suoi progetti, delle sue azioni, imparando dall’esperienza, a valutare, a innovare. Il docente sempre più si configura come architetto della prassi educativa, che insegna risolvendo i suoi problemi attraverso la ricerca, lo studio, la riflessione, l’innovazione e la sperimentazione in condizioni reali, producendo cambiamenti da verificare o falsificare, ed eventualmente da generalizzare[17].
Non solo, ma questo mutamento, come notato da Marisa Nichelini e Silvana Schiavi, implica anche «[…] una revisione dei contenuti e dei metodi della didattica scolastica, che veda i saperi disciplinari non come statici e definitivi, ma come qualcosa in progressiva e continua evoluzione, senza separare il prodotto dal processo. […]. In questa prospettiva le discipline si configurano come ‘mappe’ concettuali, per comprendere, e organizzare, per orientarsi nell’interpretare l’esperienza. I saperi si attivano in modo funzionale ai bisogni e trovano capacità operativa nei diversi contesti[18]».
3.2.2. Alcuni elementi del dibattito pedagogico contemporaneo credo siano da considerare per intendere il problema che questa opzione in campo formativo pone.
Il primo è la ripresa del concetto di minorità. La minorità è un concetto esistenziale cardine per ogni processo formativo: non è un qualcosa che ad un certo punto ci si lascia definitivamente alle spalle, quanto un problema, una condizione problematica. E’ l’incapacità a guardare con altri occhi; è l’impossibilità ad orientarsi in modo alternativo, creativo nel reale. All’interno di quella cornice di regole definite socialmente e che danno significato al contesto, che forniscono anche sicurezza agli attori di quel contesto, si pone il problema della libertà, dell’autonomia del singolo e della sua realizzazione.
E’ un problema forte. E’ un problema ineludibile. Ancor più per il/la docente di filosofia. E’ un problema che propriamente appartiene – dalla paideia greca all’esemplare testo kantiano Che cos’è l’Illuminismo? – alla stessa tradizione del pensiero filosofico. E’ il problema filosofico con cui ogni pedagogia ed ogni didattica deve confrontarsi. Come ancora ce lo ricordava Foucault, proprio riprendendo e commentando il testo di Kant[19]: il problema della costituzione del sé, ovvero dell’autodeterminazione individuale, non può eludere l’esercizio di una ragione che è – per definizione dello stesso Kant – ragione pubblica, e quindi pratica nel senso greco della praxis. Non c’è pertanto percorso di formazione se non nell’esercizio di una ragione civile, se non quindi attraverso quell’esercizio che fa del cittadino un soggetto critico all’interno del suo contesto sociale ed economico. Fare i conti con il problema della minorità, come ancora lo riprendeva Alfonso M. Iacono in un recente numero della rivista «Animazione sociale»[20], significa fare i conti con questa prospettiva: di un soggetto che si forma solamente se si pone in relazione con la comunità nella quale vive in modo libero. E porsi in atteggiamento libero, nella prospettiva di Foucault, significa porsi in un atteggiamento di problematizzazione della realtà: investirla con uno sguardo interrogante che chiede conto del perché delle cose e del perché sono in quel modo e non in un altro. Atteggiamento, infine, che storicamente si definisce – sempre secondo l’interpretazione di Foucault – come atteggiamento di resistenza contro specifiche relazioni di potere, e quindi di lotta di liberazione del soggetto contro di esse.
3.2.3. Affrontato da un altro punto di vista potremmo analizzare il problema della minorità – sempre nell’ambito della formazione della persona umana - a partire da quella centralità dei bisogni della cosiddetta ‘utenza’ sui quali il dibattito psicopedagogico contemporaneo ha in modo crescente posto l’attenzione nell’elaborare appunto ogni progetto formativo.
Partendo dall’acquisizione che esistono stili cognitivi diversi e differenziati, in relazione alle intelligenze multiple che caratterizzano l’essere umano (Gardner e Fodor[21]), la ricerca pedagogica contemporanea ha cercato di superare ogni forma di generalizzazione nel processo di formazione, per valorizzare al massimo la diversità, anche e soprattutto verso obiettivi non più identici per tutti i soggetti coinvolti nei processi formativi, bensì equipollenti. Inoltre si è posta attenzione al tentativo di attuare ogni percorso formativo attraverso metodi anch’essi differenziati e rispecchianti le potenzialità di partenza del singolo, e mettendo il soggetto di fronte ad adeguate situazioni problematiche da affrontare e risolvere, nelle quali l’errore conseguentemente viene ad essere vissuto come fisiologico alla scoperta. E’ quindi, da questo punto di vista, una prospettiva fortemente orientata verso l’autorealizzazione del singolo ed il potenziamento delle sue capacità ed abilità, in un’ottica anche di crescente indipendenza e libertà di scelta del singolo stesso rispetto a percorsi standardizzati e preconfezionati, quello che viene ad essere sollecitato dalla riflessione contemporanea sul processo formativo. Detto in altri termini: l’uscita dallo stato di minorità.
4. Abbiamo costantemente evocato – a partire anzitutto da una precedente citazione di Dutto – il concetto di professionalità. E’ bene, credo, cercare di darne una definizione, anche per intendere il dibattito attuale che attorno alla nuova professionalità del docente si è venuto sviluppando. Diciamo allora con il De Mauro che professione è una «attività lavorativa, intellettuale o manuale, svolta in modo abituale o continuativo per trarre un guadagno»; nel caso di un attività di tipo intellettuale essa «si esercita dopo aver conseguito la laurea o una particolare abilitazione, spec. in modo indipendente e nel rispetto di una precisa etica professionale». Ancora il De Mauro definisce il professionista colui che «svolge la propria occupazione con cura, competenza e serietà[22]».
Alcuni elementi emergono già da questa preventiva definizione da vocabolario: fare del docente un professionista significa pensare ad un figura che non solo svolge il proprio compito con serietà (nell’atteggiamento) e competenza (rispetto ai contenuti) – come credo, salvo puntuali smentite empiriche, tutti i docenti hanno sempre fatto – ma anche con competenza ed indipendenza, ovvero coniugando i due predicati all’unisono. Nella scuola dell’autonomia questi due predicati si coniugano inscindibilmente assieme: non esiste competenza senza la capacità di leggere il proprio territorio, di cogliere le specificità dei propri utenti (come vengono attualmente chiamati, con logica mercantilistica, i fruitori del nostro ‘servizio’), di rapportare allo specifico l’impostazione didattica del proprio intervento formativo (secondo quei concetti che abbiamo tratteggiato nelle pagine precedenti). Si è professionisti se si mostra questo tipo di autonomia, reale e concreta, rispetto a programmi astratti e, proprio per questo, hegelianamente vuoti. E nella susseguente capacità anche di tradurre in indicatori di competenze i percorsi che si intende strutturare, affinché – sull’esempio dei modelli di certificazione – possa essere svolta un’efficace azione di valutazione e, soprattutto, di autovalutazione relativamente alle capacità del docente stesso di porre in essere il proprio specifico intervento formativo. Come puntualmente sintetizzato da Domenico Lipari: «La funzione della valutazione diventa essenzialmente quella di controllo dell’azione formativa attraverso la raccolta di informazioni e la loro analisi tendente ad evidenziarne gli effetti», ma anche processo orientato «[…] al fine di permettere la problematizzazione continua dell’impostazione stessa dell’azione formativa[23]».
Vi è professionalità, diremo allora, laddove la formazione si traduce in competenze procedurali, ossia nella capacità di costruire percorsi formativi curricolari[24] e integrati e nell’altrettanto fondamentale capacità di rispondere con questi alle esigenze formative espresse (o inespresse) dalla società e dalla comunità locale nella loro complessità[25].
4.1. Non c’è formazione, da quest’ultimo punto di vista, se non in presenza di obiettivi definiti, metodi per il loro conseguimento e la verifica del loro ottenimento, nonché progetti che connettano i metodi agli obiettivi.
Gli obiettivi rimandano al rapporto che la formazione sempre ha con l’introduzione di un’innovazione in un quadro pregresso: l’obiettivo esprime la volontà di determinare, con il proprio intervento nel soggetto al quale si rivolge l’azione formativa, delle nuove e diverse (rispetto alle precedenti) facoltà di organizzare – sulla base dell’esperienza accumulata – delle capacità riflessive in connessione agli stimoli esterni e alle motivazioni interne. Formare quindi come implementazione delle conoscenze, delle competenze, delle abilità operative e delle capacità di orientarsi attivamente ed efficacemente – ossia criticamente, metariflessivamente - in un contesto dato.
I metodi di questo intervento devono considerare i tempi di attuazione del processo formativo, a partire da una situazione data (e conosciuta), le fasi e i compiti attraverso cui tale obiettivo deve essere perseguito, nonché l’aspetto motivazionale dell’azione formativa stessa. Il metodo, inoltre, non è mai in sé neutrale: il come si raggiunge un obiettivo si presenta già come in sé formativo di un certo rapporto operativo e cognitivo rispetto all’ambiente e strutturante un proprio modello di relazione rispetto ai contenuti in fase di acquisizione e di quelli successivi. Il metodo della formazione deve inoltre prevedere momenti di verifica del raggiungimento degli scopi prefissati, valutando il feedback delle proprie azioni e le eventuali iniziative di rinforzo rispetto ad esse.
Il progetto è allora il momento di consapevolezza di tutti questi aspetti, della loro puntualizzazione, della loro esplicitazione e delle previsioni circa le possibili variabili che potrebbero intervenire nel corso della sua attuazione, secondo una logica complessa, multilaterale, che si faccia in altri termini carico delle differenti dimensioni di cui si compone l’azione formativa (dimensione culturale, metodologica, organizzativa, operativa, relazionale) e dell’articolazione contestuale nella quale accade (società, territorio, scuola, classe). Maggiormente è strutturato un progetto, più palese è quale carattere formativo, e di che tipo, ha una determinata azione che si intraprende. Nessuna azione è, infatti, senza conseguenze: ognuna veicola informazione che – come ci insegna la scuola di Palo Alto - produce un ritorno, degli effetti sull’altro, per cui il grado di intenzionalità con il quale si opera dipende dalla preventiva consapevolezza di tutti quegli elementi che concorrono a definire le caratteristiche della nostra azione, aspetto essenziale in ogni processo formativo. Meno è riscontrabile questa consapevolezza, in altre parole meno ci si pone il problema delle conseguenze che il nostro agire gioca sull’altro (e le si puntualizza in indicatori), maggiore è l’indeterminazione del carattere formativo del nostro agire, maggiore è il rischio di lasciare indeterminato il campo degli effetti delle nostre azioni (aspetto nefasto in un’ottica formativa)[26].
4. 2. Non da ultimo, infine, come recita la definizione fornita dal De Mauro, la figura professionale è anche una figura che guadagna del proprio lavoro: si dovrebbe aprire qui una lunga disamina sulla retribuzione dei docenti in Italia – ma forse più in generale sui livelli di retribuzione del lavoro dipendente rispetto ad altri paesi della comunità europea. Anche per sottolineare come non è il basso livello di retribuzione a garantire competitività a un prodotto e a un comparto produttivo: il costo del lavoro è stato frequentemente usato nel nostro paese come alibi per la mancanza di managerialità della classe dirigente, per la sua mancanza nel pensare l’innovazione e nel realizzarla, sostenendola – nei costi – non per la via più breve e comoda, ossia i tagli alle spese di retribuzione (o, in aggiunta, lo smantellamento dei diritti acquisiti, vedi articolo 18). Altri paesi – ma anche diffuse realtà della penisola - mostrano che si possono fare prodotti di qualità e stare sul mercato con altre strategie. Detto altrimenti: se il docente deve essere un professionista e se la scuola deve fornire prodotti di qualità (espressione che peraltro aborro) è giusto che si ponga il problema dei costi e degli investimenti in un’ottica diversa da quella del risparmio, dei tagli, della mancanza degli investimenti stessi etc. E che i medesimi docenti – assieme agli altri lavoratori della scuola – se ne facciano promotori.
5. Cosa si è dunque voluto fare con questo contributo? Si è cercato di ragionare attorno ad aspetti del processo formativo che riteniamo fondamentali e sui quali ogni docente, ma soprattutto – per le specificità che crediamo siano opportunamente emerse lungo la trattazione – il docente/la docente di filosofia, dovrebbe soffermarsi a riflettere. Sono spunti di riflessione che, anche nella loro dispersione e nella ripetitività di alcuni assunti che sono ormai parte integrante del patrimonio teorico-pratico di ogni docente, stanno forse a significare quale momento di travaglio, oltre che di mutamento, l’istituzione scolastica sta vivendo in questa fase storica.
[1] G. GAMBALE, Formazione degli insegnanti: conditio sine qua non del rinnovamento della scuola in Italia, in Quaderno di Iter – La formazione dei docenti/1, supplemento al n. 9 di «Iter. Scuola cultura società», settembre-dicembre 2000, pp. 7-8. Sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana sempre stimolanti i risultati delle ricerche condotte dallo IARD, l’ultima delle quali (del 1998) è discussa in A. CAVALLI (ed.), Gli insegnanti nella scuola che cambia, Il Mulino, Bologna 2000. Per precedenti punti di vista sulla identità professionale del docente di filosofia si rimanda a F. PAPI, Sull’identità culturale dell’insegnante di filosofia nelle scuole medie superiori, «Paradigmi», 9 (1991), n. 21, maggio-agosto, pp. 384-399 e M. TROMBINO, L’identità professionale dell’insegnante di filosofia, «Bollettino SFI», 1995, n. 156, pp. 49-66. Sulla dimensione politica dell’autonomia scolastica interessantissime osservazioni in D. MISSAGLIA, Contro l’autonomia un nuovo centralismo, «Gli argomenti umani», 3 (2002), n. 9, settembre, pp. 78-81.
[2] E. BERTI, Prefazione a M. DE PASQUALE (ed.), Filosofia per tutti. La filosofia per la scuola e la società del 2000, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 9-16. Per quanto concerne la recente normativa in materia di formazione – e l’importanza ad essa attribuita come elemento strutturale tanto della professionalità docente quanto dell’autonomia scolastica - rinviamo alla Direttiva ministeriale 226 del 16 maggio 1998, alla Direttiva ministeriale 210 del 3 settembre 1999, al Decreto ministeriale 177 del 10 luglio 2000 ed alla Direttiva ministeriale 202 del 16 agosto 2000.
[3] «Se l’aumento di entropia è una misura dell’aumento del disordine di un sistema, un aumento dell’ordine corrisponde a una diminuzione di entropia, o, come talvolta si preferisce dire, a un aumento di entropia negativa (o neghentropia). Il grado d’ordine di un sistema si può quindi definire anche in un altro linguaggio: quello dell’informazione. In esso l’ordine di un sistema è uguale alla quantità di informazione necessario a descriverlo» (J. MONOD, Il Caso e la Necessità, (1970) , tr. it. Mondatori, Milano 19913, p. 188).
[4] Per Manuel Castells (cf. in part. il secondo capitolo del libro di M. CASTELLS, The Information Age: Economy,Society and Culture, vol. I: The Rise of the Network Society, Blackwell, Oxford 1996) la network society è la società basata sull’economia informazionale globale, in quanto strutturata attorno appunto all’organizzazione di network informazionali, di nodi interconnessi che sono alimentati dalle nuove tecnologie dell’informazione. Per definizione una società di questo tipo non ha un centro, ma secondo un modello rizomatico, soltanto nodi in relazione reciproca ed interagente, tendenti a riconfigurarsi continuamente e ad assumere un’importanza variabile in dipendenza della capacità di ciascuno di essi di contribuire al network con informazioni di valore. Sono gli scopi interni al network – e la capacità di soddisfarli nel modo più economico – che determinano l’evoluzione dello stesso network, nonché l’inclusione/esclusione dei soggetti sociali che vi partecipano (o appunto ne sono esclusi). La new economy, da questo punto di vista, rappresenterebbe l’espressione più evidente della network society.
[5] D. LIPARI, Note sulla qualità e la certificazione dei servizi formativi, in Quaderno di Iter – La formazione dei docenti/1, op. cit., p. 36.
[6] Prospettiva adombrata ad es. dalla stessa Direttiva ministeriale 226 del 16 maggio 1998 quando sottolinea il raccordo che deve sussistere tra orientamento scolastico e orientamento professionale, nonché il raccordo del sistema formativo con il sistema produttivo con riferimento anche agli obiettivi del protocollo d’intesa con la Confindustria (comma 1 dell’articolo 3).
[7] Per una prima panoramica dei problemi teorico-pratici relativi alla formazione, in particolare degli adulti, e sulla necessità di una costante e approfondita riflessione attorno ai suoi processi di innovazione ancora stimolante il volume di G. P. QUAGLINO, Fare formazione, Il Mulino, Bologna 1985.
[8] P. HIMANEN, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, (2001), tr. it. Feltrinelli, Milano 2001.
[9] A. GORZ, Misères du présent, richesse du possible, Galilée, Paris 1997.
[10] Per un quadro del rapporto problematico tra flessibilità e formazione, relativo alla situazione europea ed italiana in particolare, si cf. P. MATTIOLI, Il diritto al sapere. Nuovi lavori, flessibilità, garanzie, «Gli argomenti umani», 3 (2002), n. 4, aprile, pp. 57-74. Una esemplificazione di un diverso modo di interpretare e di elaborare socialmente il concetto di flessibilità, rappresentato dall’esperienza dei lavoratori della fabbrica Volvo di Uddevalla, è presentato nel summenzionato libro di A. GORZ, Misères du présent, richesse du possible. Sul mismatching operante nel funzionamento dello stesso capitalismo cognitivo: E. RULLANI, Il capitalismo cognitivo del déja vu?, in «Posse», a. 2, n. 2/3, pp. 74-81.
[11] Sulla «struttura ritardataria dell’insegnamento» rimando alla riflessione di J. DERRIDA, Dove incomincia e come finisce un corpo insegnante, in G. DALMASSO (ed.), Il corpo insegnante e la filosofia, Jaca Book, Milano1980, pp. 9-37.
[12] L’inadeguatezza dei saperi disciplinari e le sfide che essa rivela sono – come noto – il centro della provocatoria riflessione di E. MORIN, Una testa ben fatta, (1999), tr. it. Cortina Editore, Milano 2000. Valga come monito, sul destino che può investire l’istituzione scolastica sulla scorta di certe politiche di appiattimento sui bisogni del mercato, quanto lo stesso Morin viene a scrivere a p. 86 di questo libro: «[…] nella vita e nella storia, il sovra-adattamento alle condizioni date è stato non segno di vitalità, ma annuncio di senescenza e di morte, con relativo impoverimento della sostanza inventiva e creatrice».
[13] M. G. DUTTO, La professionalità nel sistema dell’autonomia, in Quaderno di Iter – La formazione dei docenti/1, op. cit., p. 13.
[14] La Direttiva ministeriale 226 del 16 maggio 1998, nel comma 2 dell’articolo 4 sottolinea la valorizzazione che deve essere attuata dell’autoformazione come strategia di miglioramento professionale. Una strategia legata alla riflessione sulle esperienze e a metodologie attive di formazione (ricerca azione), in una prospettiva di sviluppo professionale continuo. La Direttiva ministeriale 210 del 3 settembre 1999 qualifica addirittura la scuola, nell’articolo 3, quale laboratorio di sviluppo professionale; mentre l’articolo 1 della Direttiva ministeriale 202 del 16 agosto 2000 si sofferma sui criteri fondamentali del nuovo sistema di formazione continua del personale della scuola stessa.
[15] M. SPINOSI, Le funzioni obiettivo: prove tecniche per lo sviluppo professionale degli insegnanti, in Quaderno di Iter – La formazione dei docenti/1, op. cit., p. 63.
[16] La Direttiva ministeriale 226 del 16 maggio 1998 afferma esplicitamente come la formazione del docente sia da intendere come una strategia rilevante anche per l’accrescimento ed il miglioramento delle opportunità di apprendimento degli studenti e delle studentesse (comma 1 dell’articolo 8).
[17] M. DE PASQUALE, La didattica della filosofia, in M. DE PASQUALE (ed.), Filosofia per tutti. La filosofia per la scuola e la società del 2000, op. cit., p. 21.
[18] M. MICHELINI – S. SCHIAVI, Le prime esperienze di borse di ricerca per insegnanti, in Quaderno di Iter – La formazione dei docenti/1, op. cit., p. 107. Il P.O.F., sia detto per inciso, viene in un certo senso ad emergere come primo strumento al contempo di sedimentazione del quadro entro cui l’azione formativa «è gettata», ma anche di apertura, di direzionalità appunto per le future azioni formative. Crediamo non debba tuttavia essere inteso come copertura allo sforzo costante, periodico, quotidiano dello stesso insegnante per verificarne la corrispondenza con la realtà, per soppesarne criticamente l’efficacia euristica nell’inserire adeguatamente quella specifica istituzione scolastica nel vissuto collettivo di quel territorio e di quel tempo altrettanto specifici e mutevoli. Un P.O.F. che non viene cambiato, modificato, riletto e rivisto, che non sia inteso anche (e forse soprattutto) come una sorta di working in progress riteniamo sia un cattivo strumento al servizio della scuola dell’autonomia. Sul P.O.F. in generale si cfr. A. VALENTINO, Il Piano dell’offerta formativa, La Nuova Italia, Firenze 1998.
[19] Ci riferiamo evidentemente allo scritto di I. KANT, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, apparso nel n. 4 della «Berlinische Monatsschrift» nel 1784 (tr. it. in I. KANT, Che cos’è l’illuminismo?, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 19973, pp. 48-55), nonché al suo originalissimo commento in M. FOUCAULT, Il problema del presente. Una lezione su «Che cos’è l’Illuminismo» di Kant, (lezione del 5 gennaio 1983 al Collège de France), tr. it. in «Aut Aut», 205, 1985, pp. 11-19 (ora in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 253-261). Sui limiti dell’uso della ragione pubblica in Kant rimandiamo introduttivamente alle osservazioni di N. Merker alle pp. 39-42 della traduzione sopracitata, nonché a quelle, relative al pensiero di Kant, contenute nel nostro Ragioni dell’eros. Tre diverse scritture filosofiche in Diderot, Morelly, Kant, «Giornale di Metafisica», n.s., a. 24 (2002), n. 1-2, pp. 101-130.
[20] La minorità è dentro di noi. Riflessioni su alterità, autonomia e relazione, intervista ad Alfonso M. Iacono a cura di Paola Molinatto, «Animazione sociale», a. 31, n. 156 seconda serie, ottobre 2001, pp. 3-10.
[21] Ci riferiamo agli universalmente noti testi di H. GARDNER, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, (1983), tr. it. Feltrinelli, Milano 19882 e J. FODOR, The Modularity of Mind, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1983.
[22] T. DE MAURO, Il dizionario della lingua italiana, Paravia, Torino 2000, p. 1979, corsivi nostri.
[23] D. LIPARI, Valutazione e certificazione nei processi formativi, Quaderni di Formazione domani, Roma 1992, p. 21.
[24] Vale la pena richiamare l’ormai nota definizione di Frey di curricolo proprio per la sua esemplarità a riguardo di quanto fin qui esaminato: «Il curricolo è la descrizione sistematica dell’insegnamento progettato per un periodo di tempo delimitato, come sistema consistente comprendente vari settori, volto all’obiettivo della preparazione, realizzazione e valutazione ottimale del corso» (K. FREY, Teoria del curricolo, (1971), tr. it. Feltrinelli, Milano 1977, p. 74).
[25] A titolo esemplificativo, sulla professionalità docente rimandiamo ai contenuti del progetto multimediale Professionalità docente, in rete all’indirizzo internet: http://www.liceo-vallisneri.lu/profdoc.htm , nonché al volume di A. CENERINI – R. DRAGO (a cura di), Professionalità e codice deontologico degli insegnanti, Erickson, Trento 2000. In quest’ultimo testo, in particolare, le caratteristiche di una professione vengono articolate in quattro assunti fondamentali: «1. il sapere specialistico, ossia un corpo di conoscenze e competenze acquisite attraverso una specifica formazione di studi universitari e di tirocinio, poi consolidate e arricchite dall’esperienza professionale; 2. la rigorosa certificazione delle competenze; 3. l’autonomia professionale, riferita sia all’esercizio del proprio lavoro sia alla creazione di specifici organismi rappresentativi (ordini e associazioni); 4. l’adesione a un codice deontologico» (p. 21). Qualche perplessità suscita allo scrivente, nel punto 3, la costituzione di nuovi e specifici organismi rappresentativi anche per i docenti, pensando alla tendenza a tradursi in corporazioni conservatrici, e attente più alla difesa lobbystica degli interessi di parte che ad una visione più articolata e aperta della società e delle sue dinamiche, che caratterizzano molti degli ordini professionali già esistenti. Estremamente interessante, viceversa, la proposta dell’adozione, da parte degli insegnanti, di un codice deontologico che è elemento imprescindibile per affermare uno status di professionalità anzitutto attraverso un’etica del comportamento.
[26] Potremmo anche aggiungere – sulla scorta di Feyerabend e delle teorie elaborate dal costruttivismo – che l’aspetto fondamentale che deve caratterizzare la professionalità del docente odierno non è più la pretesa di ricercare ed individuare il metodo d’insegnamento, universale e necessario, in grado cioè di farsi autoreferenzialmente garante della riuscita formativa di un insegnamento (scaricando così implicitamente ed immediatamente l’insuccesso a carico esclusivamente del/la discente). Questa pretesa si è rivelata epistemologicamente infondata (in parte per i motivi che siamo venuti a riassumere precedentemente): non vi è un unico percorso, ossia un unico metodo, per pervenire alla verità ed al suo insegnamento, poiché non è più data verità al di fuori del contesto storico-sociale che l’ha prodotta e la veicola (su questo aspetto varrebbe la pena riprendersi in mano anche certe pagine esemplari di Foucault). L’obiettivo deve divenire quello di contestualizzare questo sapere relativo all’interno di un determinato quadro operativo e di cercare di puntualizzare - nella pratica concreta di quel setting definito – gli obiettivi da perseguire, nonché gli strumenti e le procedure con i quali attuarli e valutarli e che variano costantemente al mutare dei soggetti agenti e dell’habitat nel quale sono heideggerianamente gettati. Esemplificazioni di questo discorso possono essere ritrovate negli atti del convegno organizzato a Milano dall’O.P.P.I. il 30 settembre 2002, Costruire l’apprendimento. Costruire l’insegnamento, a cura di M. Vezzoli, A. Rovetta, A. Carletti, OPPI Edizioni, Milano 2002.