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Comunicazione Filosofica n. 12 giugno 2003
Armando Girotti
Per una pars construens della didattica della filosofia
Se il «Bollettino» della sfi va considerato, come da più parti si ambisce, una finestra aperta sul dibattito filosofico dell’oggi, ben vi s’inquadra l’articolo, comparso nel numero 176, a firma del Presidente nazionale Luciano Malusa «uno sguardo sulle tendenze attuali riguardo alla didattica della filosofia»; vi spiccano considerazioni stimolanti che invitano ad una nuova e seria disamina sulla concezione della didattica della filosofia mentre questa scivola, sembra inesorabilmente, verso la didattizzazione. In effetti, a ben guardare, molte sono le spinte che vanno verso questo crinale, soprattutto se si considerano gli interventi di chi ha di mira più l’attuazione pratica dell’insegnamento della filosofia che la ricerca metodologica nei suoi risvolti teorici. Molte delle denuncie palesate in quell’articolo mi trovano d’accordo e mi sembrerebbe finalmente giunto il momento di gettare uno sguardo anche su sfaccettature diverse, perché la didattica è come un diamante dalle molteplici facce, nessuna delle quali la raffigura completamente. Perciò, dando per assodate alcune critiche ivi espresse, porrei la questione se la didattica debba essere assimilata ad un sapere eminentemente tecnico-pratico, oppure non debba essere invece (o anche) considerata come realizzazione di un sapere fondato teoreticamente; in secondo luogo mi piacerebbe stimare ‘se’ e ‘come’ tale sapere possa essere riferito alla formazione dello studente, non solo dal punto di vista umano o psichico, ma anche, visto che si parla di didattica della filosofia, filosofico.
Chi è senza macchia scagli la prima pietra
Credo che la scuola si trasformerebbe in vuota applicazione di procedimenti se, prendendo a prestito i metodi dai vari campi del sapere, non si ponesse contemporaneamente il problema dell’insegnamento disciplinare anche da un punto di vista teoretico, oltre che didattico. È vero che i metodi proposti dagli studi pedagogici indicano delle vie per una maturazione della personalità del soggetto in apprendimento, ma è altrettanto corretto affermare che, ponendo in primo piano scopi e metodi estranei alla formazione prettamente disciplinare, questi studi non offrono soluzioni inerenti, ad esempio, la riflessione filosofica dello studente; sta solo all’opera attiva dei docenti che adottano tali metodi riuscire ad incanalarli verso una finalità che abiti all’interno della propria disciplina. In effetti, poste come finalità interne al filosofare le due categorie concernenti la verità e il bene, sta all’opera dell’insegnante farle emergere, anche se, peraltro, di necessità esse non vengono negate dall’applicazione dei metodi ‘psicodidattici’ (mi si perdoni l’amalgama terminologico, che intenderebbe indicare lo strumento didattizzante la disciplina filosofica) in quanto, se da una parte questi ultimi richiamano il docente all’attuazione di un fine interno all’educazione, dall’altra non negano alcun fine proprio della disciplina. Si può concordare col fatto che tutte le materie da questi metodi sono viste con valore strumentale, ma occorre prestar attenzione a che queste ultime non si trasformino in dispositivi idonei al solo raggiungimento di quell’unico scopo che sarebbe loro estraneo. Da questa premessa mi sembra trapelare la possibilità di una coesistenza, all’interno di un qualsiasi insegnamento, sia di finalità disciplinari sia di finalità di ordine educativo-psicologico; se ciò non fosse, meglio sarebbe, allora, unificare le classi di concorso in un calderone nel quale ogni differenza andasse appiattita.
Certamente il contrasto tra il contesto formativo, posto dai fini dell’educazione, e l’attuazione dei fini propri della disciplina filosofica esiste, anzi si presenterebbe in tutta la sua inopportunità proprio nel momento in cui le scelte didattiche del docente trascurassero gli scopi disciplinari. In effetti, se ogni disciplina è utile alla realizzazione di un progetto educativo, importante è che la filosofia nel suo insegnamento non perda di vista quel valore che rende filosofico il sapere e che, nel formare la persona umana, impieghi strade appropriate, calzanti, capaci di connotarne la sua stessa esistenza. Il difetto di didattizzazione lo imputo, quindi, al docente che nella sua quotidianità perdesse di vista il valore formativo della disciplina filosofica, più che a questioni a lui esterne; ma, nello stesso tempo, ascriverei delle negligenze anche a chi non gli ha fornito, avendo abbandonato la ricerca, un metodo che, nell’insegnamento della filosofia, fosse effettivamente filosofico. Spesso, anche negli anni andati, le discussioni non hanno inciso in modo determinante né su tale delineazione, né sulla possibile ricaduta in ambito di scuola secondaria, essendosi per lo più attardate ad enucleare finalità o contenuti, mettendo in secondo ordine l’indagine orientata verso la realizzazione di una maturazione filosofica del soggetto in apprendimento. Quindi se da una parte il docente di filosofia, che avesse assunto un metodo per così dire didattizzante, e quindi non filosofico, ha errato completamente nel non mettere in primo piano la formazione filosofica dello studente, dall’altra chi aveva il dovere di tener desta la ricerca a livello teoretico ha perso l’occasione di incidere nella didattica della filosofia; per cui, se l’indebolimento della filosofia nell’epoca post-moderna è talmente forte da aver ridotto l’insegnamento della filosofia a semplice atteggiamento che chiarisce le situazioni, occorre por mano anche sul versante della teoresi con opportune e mirate ricerche in campo metodologico.
Sulle cause del ritardo
Concordo pienamente sul fatto che la scuola sta scivolando dalla logica disciplinare alla logica di apprendimento, e leggo con rammarico che la tendenza alla didattizzazione si è manifestata in parecchi casi come una “riduzione” della disciplina a tutto vantaggio di una serie di indicazioni di metodo e di constatazioni epistemologiche e psicologiche sulle condizioni del discepolo. Ho anch’io timore che venga meno la compenetrazione tra logica disciplinare e indicazioni psicologiche e metodologiche sull’alunno, e che si manifesti la tendenza a privilegiare l’alunno nella dinamica del suo sviluppo, assolutizzando le procedure, e questo si vede soprattutto nelle tendenze recentissime riguardo ai programmi scolastici. Prendo atto che alcune tendenze rivolte alla didattizzazione serpeggiano in qualche pratica scolastica, ma proprio per questo credo che un’associazione, che abbia come meta la diffusione dei problemi inerenti la formazione filosofica, debba impegnare le sue forze sia per riportare sulla via del dibattito teorico quei docenti che si sono perduti, in quanto hanno accettato sconsideratamente ciò che filosofico non è, sia per motivare i vari studiosi a non fermarsi alla semplice precettistica. Occorre però che dirimiamo immediatamente un nodo circa la produzione di prescrizioni; spesso, nell’offrire un indirizzo circa l’insegnamento dei filosofi o dei problemi filosofici, ci si rivolge anche ad un uditorio desideroso di conoscere le procedure didattiche, per cui il discorso, quando entrasse nella delucidazione delle stesse, pur senza l’intenzione di ridurre il tutto ad una consegna di precetti versati sul piano della tecnica didattica, può dirigersi verso prassi leggibili come serialità precettistica; può anche accadere, ma forse non è sempre così chiaro il versante su cui si scivola.
Però, al di là del problema se esista nella mente degli studiosi l’intenzione di consegnare o meno dei precetti tecnici, vorrei porre alla riflessione una questione: se sia migliore la ricaduta dei metodi “psicodidattici” o di quelli che storicamente si sono contrapposti nel propendere per la storia della filosofia o per i problemi che l’hanno attraversata. Di fronte a questa alternativa non saprei quale dei due sia più estraneo alla ‘formazione filosofica’ degli studenti. Sento già balzare sulla sedia alcuni dei miei lettori; però, un attimo di pazienza! Non voglio negare meriti al dibattito che ci ha preceduto, ma, se si vuol costruire una ‘casa comune’, che intenda rendere filosofico l’insegnamento della filosofia, è necessario momentaneamente sgomberare la mente da qualsiasi preconcetto, fondato sulla convinzione della veridicità della propria posizione, e riconsiderare su nuove basi la ricerca intorno ad un possibile “metodo per un insegnamento ‘filosofico’ della filosofia”.
Uno dei punti da porre in discussione è se siano i contenuti a determinare, tout court, un metodo che possa essere definito filosofico o se non si debba anche aprire un secondo fronte di analisi perché, se lo scopo dell’insegnamento di questa sbalorditiva disciplina, che incanta ancora dopo millenni da che è nata, si riducesse ad una trasmissione di sapere, allora non mi troverei d’accordo con tale tipo di insegnamento; se invece tendesse a porre i contenuti in termini problematici e problematizzanti, allora credo che tutti ci troveremmo d’accordo su questa che appare come una ovvietà, quasi banale sottolineatura; però mi sembra che da quel dibattito consegnatoci dalla storia non segua di necessità un metodo che renda filosofico l’insegnamento della filosofia.
Il filosofico, a mio giudizio, non sta solo nella estrapolazione di categorie che esaltano la tensione finalistica, dalla quale non sono escluse verità e bene, ma anche (e mi verrebbe da dire soprattutto) nel mezzo che si usa per ottenerla; è il metodo che deve diventare filosofico non tanto nella sua accezione di sistema, trattato, scienza, fissato da Aristotele o dal Platone della Repubblica, quanto nel senso di procedimento, di criterio operativo, di investigazione, quello stesso metodo espresso da Platone a più riprese nel Sofista, nel Fedro e nel Teeteto. Verità e bene sono senza dubbio delle mete prettamente filosofiche che coinvolgono la formazione umana dello studente, ma credo vada posto lo sguardo anche su come queste vadano inserite in un contesto che sia in grado di rendere filosofico l’insegnamento. Se oggi il problema del metodo è vissuto più sulla scia dell’interpretazione datane da Plutarco o da Aristeneto come via tortuosa, artificio, quasi frode che raggira lo scopo stesso della filosofia, ebbene, occorre por mano ad una riconferma della necessità di un ritorno alla teoresi per fondare un metodo disciplinare che non si appiattisca sulla metodica, cioè sul momento applicativo utilizzando metodologie non pertinenti, ma che ridiscuta in termini nuovi ciò che significa insegnare filosoficamente la filosofia oggi. Occorre spostare il dibattito sulla ricerca metodologica e lì scovare una via che sia filosofica, anche perché non si rende filosofico un metodo solo mutuando contenuti filosofici; la filosofia potrebbe cadere, nelle mani di un docente poco attento, in quella polimathìa platonica[1], in quella conoscenza di molte cose, vissuta come erudizione e nulla più. La didattica, se vuol essere filosofica, deve riconsiderare i contenuti in tanto in quanto rimotivano il domandare. Quest’ultimo è uno dei nuclei fondanti che rendono filosofico un insegnamento della filosofia; ed è su questo e sulla ricerca dei nuclei che occorre spostare l’attenzione per predisporre un futuro metodo. È da qui che deve passare la linea di convergenza tra le due anime della sfi; è da qui che può nascere una rilettura, e del modo di essere dell’associazione nella sua vicenda pratica, e del suo modo di porsi in forme teoretiche più confacenti con le aspirazioni di un insegnamento filosofico.
Ma se ancora non siamo riusciti a convogliare le forze nell’esegesi dei nuclei fondanti, forse un mea culpa va fatto anche per quanto si continua a non fare. Mi spiego: la Didattica della filosofia, per quanto attiene i concorsi a cattedra, da alcuni anni è entrata a far parte del raggruppamento nobile di Filosofia teoretica, ma è altrettanto assodato che il numero di cattedre di didattica della filosofia esistenti oggi in Italia si conta sulle dita di una mano. Tale disciplina, inserita in un raggruppamento pedagogico, un tempo era considerata nella sua veste generale di didattica, e quindi separata dall’intento specifico della formazione filosofica; oggi, però, con il nuovo inquadramento essa ha acquisito una sembianza più nobile; dico sembianza in quanto proprio questa collocazione, che le ha dato una patina di eccellenza, mi sembra abbia segnato anche il suo affossamento. Di fronte alle altre discipline quali Ermeneutica filosofica, Filosofia teoretica, Gnoseologia, Propedeutica filosofica, la Didattica della filosofia è rimasta, nello specifico, ancora un’ancella e, proprio perché comporterebbe una riduzione delle altre cattedre, essa è destinata a non essere privilegiata dalle commissioni neppure in un prossimo futuro che, a mio avviso, per quanto attiene la considerazione di detta disciplina in ambito accademico, non mi sembra roseo. Da ciò sono indotto a pensare che anche le future generazioni, per quanto attiene la metodologia, dovranno formarsi in proprio; su questo fronte, invece, il futuro mi sembra positivo perché sono sempre più numerosi i volonterosi che, pur consapevoli di non aver una carriera aperta dinanzi, continuano a ricercare, ad esaminare, a dibattere temi prettamente metodologici riguardanti la disciplina filosofica; e lo fanno da molti anni, tanto da esser riusciti ad imprimere alla manualistica quella svolta che l’ha portata ad essere più attenta non solo alla parola del filosofo, ma anche agli strumenti didattici conformi al ‘fare filosofia’. Uno dei punti dolenti, però, è che se non si aprono le porte della ricerca, in maniera che essa da ‘forma privata’ effettuata sul campo non diventi teoresi dibattuta, allora la didattica della filosofia rischierà di scivolare nella didattizzazione precettistica. In vista di una scuola del terzo millennio non bastano docenti isolati che, in un’attività post-lavorativa, intesa quasi come hobby, si assumano un carico di lavoro aggiuntivo a quello di insegnamento; occorre che lo si svolga per statuto, come avviene per la ricerca accademica, e non più al di fuori dell’ambito istituzionale. Guardandoci attorno ci si accorge che la didattica della filosofia sta diventando, anche grazie alle nuove riviste disciplinari, un oggetto di ricerca concretamente svolta non più solo dai pedagogisti, ma anche dai docenti di filosofia che alla vecchia didattica generale hanno fatto oltrepassare i ristretti limiti, traghettandola verso metodologie disciplinari più aderenti alla stessa filosoficità del sapere. La didattica forte, da contrapporre alla didattica debole, oltre a rilevare le categorie cui sottomettere un insegnamento della filosofia, sta anche nel trovare il bandolo della matassa che mi sembra smarrito, cioè nel delineare un metodo di insegnamento della filosofia che sia decisamente filosofico.
Per una metodologia rivolta alla fondazione di un insegnamento di tipo filosofico
Cartesio, da buon metodologo, ci ha insegnato che se si vuole giungere ad una conclusione vera, occorre prestar attenzione al metodo, occorre ‘sporcarsi le mani’, entrarci con l’intenzione di analizzare non solo ciò che va cancellato, ma soprattutto ciò che va ricostruito; perciò, nella discussione metodologica occorre combinare due parti, quella che pone l’attenzione sui difetti di una certa didattica ed una seconda che prospetta i punti di appoggio in grado di ovviare a quelle manchevolezze. La lezione di Bacone stesso può darci un’indicazione metodologica per lavorare assieme: partire dalla pars destruens per indirizzarci verso quella construens, la quale ultima non può rimanere a puro livello di aspirazione, ma deve calarsi nell’illustrazione di ciò cui occorre tendere. È questa pars che i docenti medi vorrebbero trovare nelle osservazioni dell’accademia quando si dibatte di didattica; vorrebbero delle indicazioni chiare non solo in ordine alle finalità della filosofia (sulle quali molto possono dirci), ma soprattutto su ‘come’ queste possano essere raggiunte attraverso un insegnamento della filosofia che fosse filosofico; è su questo fronte che va focalizzato il discorso metodologico nella sua parte costruttiva. È ben vero che conoscendo gli errori ci si indirizza, avendone le capacità, verso una via più corretta che può portare anche alla concretizzazione di un metodo, ma allora, ‘sporchiamoci le mani’ assieme; facciamo salire di un tono la ricerca didattica, diamole uno spazio adeguato, indirizziamo le forze nuove e dibattiamo con quelle esistenti, cerchiamo obiettivi di lavoro comuni. Se l’accordo va trovato prendiamo atto che gli obiettivi didattici abbisognano di una discussione circa le modalità di attuazione; è questa attenzione metodologica che va posta per una pars construens. Poniamo pure l’accento sulle sequenze di problemi e di soluzioni, o sulle diverse dottrine stratificate e spesso contrapposte, perché ciò significa indicare uno strumento ed un contenuto utili a ‘far filosofia’, ma teniamo tutti contemporaneamente desta l’attenzione perché queste indicazioni, se metodologicamente mal interpretate, non si tramutino in un boomerang, facendo scivolare lo stolto insegnante verso la pura erudizione. Il nocciolo della questione consiste sia nell’indicare finalità, o strumenti, o contenuti sia, questione più complessa, nell’applicazione pratica di quei ragguagli teorici che la ricerca metodologica sarà stata in grado di consegnare al docente affinché la sua prassi didattica si tramuti in insegnamento filosofico. Lavoriamo assieme per esprimere in forme pratiche quell’amore che ci lega ad una disciplina che ci ha donato e ci dona ancora quell’emozione che dentro al cuore desta il fuoco di platonica memoria. Accetto quindi l’invito di trattare degli specifici problemi filosofici, nella loro traducibilità per la mentalità dei giovani, e spero che anche chi può insegnarci qualcosa di più specifico, indirizzandoci sulla via che porta a non sconfinare nel didattichese, si unisca in un gruppo tale da far sì che teoria e prassi non rimangano ricerche distinte, ma unità inscindibile verso il filosofico della filosofia. Cimentandoci tutti assieme, uniti nella trattazione dei problemi metodologici specifici, visti nella loro traducibilità per la mentalità dei giovani, riusciremo a trovare quel metodo perché, entrando nella stanza, incideremo nel dibattito con proposte volte al positivo. Non intendo con ciò che si debba giungere a modalità didattiche standardizzate: l’omologazione e l’ideologizzazione denotano un livellamento culturale dal quale rifuggo; però occorre passare dalla sfera del sapere ‘denunciato’, dalla pars destruens, a quella del sapere ‘agito’, alla pars construens.
Per una pars construens
Vogliamo produrre ricerca didattica? Ebbene, guardiamo innanzitutto ai nuclei fondanti della filosofia, al filosofico della filosofia, cioè a ciò che rende filosofico non solo questa disciplina, ma anche il suo insegnamento, vissuto spesso in forma ameboicamente così labile da considerare che all’interno dei suoi confini ci possa stare tutto e il contrario di tutto. Chiariamoci sui nuclei fondanti e poi rileviamoli uno per uno, ponendo sullo sfondo lo studente e la sua formazione filosofica; credo che da questa analisi possano emergere riferimenti metodologici tali da far mutare in ‘filosofico’ ogni insegnamento della filosofia, spesso rimasto a livello di pura esposizione. Questa ricerca, compiuta assieme, al di là delle cordiali antipatie che non mi nascono per nulla di fronte a chi si mette in gioco nel denunciare il suo punto di vista, porterà solo beneficio e all’accademia e alla scuola secondaria; se dovessimo provare antipatia per chi non è perfettamente in linea con il nostro pensiero, credo che il mondo sarebbe governato da questa dea che divide invece di unire. Fatti emergere, dunque, questi ‘nuclei fondanti’ propri della disciplina filosofica, potremmo in seconda battuta sondare i ‘contenuti essenziali’ irrinunciabili; in questo modo indicheremmo, a noi e ai neolaureati che ancora non insegnano, che la disciplina filosofica non è un ‘deposito di conoscenze’, ma un insieme di trame codificatrici ed organizzatrici del reale, un insieme di risposte nate da modelli di razionalità particolari. I contenuti di per sé non qualificano in alcun modo la conoscenza; senza la sintassi essi sono muti, senza schemi mentali rischiano di non essere neppure dei dati. Dunque, in una possibile analisi metodologica metterei a fuoco proprio quelle ‘competenze’ organizzatrici che stanno dietro ai contenuti, accanto anche a quei modelli di razionalità che hanno condotto i filosofi passati a consegnarci le loro risposte. Non sono tanto le risposte, quanto le procedure messe in gioco dai filosofi nel darci la propria risposta a doverci interessare come docenti che vogliono far emergere il filosofico che sta all’interno delle risposte. Se si vuol cercare una didattica filosofica, occorre tener conto della natura della disciplina, andarci dentro per cogliere quei nuclei che la qualificano, specificandola, che la contraddistinguono e, insieme, la differenziano dalle altre discipline.
A mio giudizio, più che alla semantica della disciplina, che dovrebbe interessarci in una seconda fase, occorrerebbe guardare alla sua sintassi. Le ‘questioni di verità e di senso’ sono inscrivibili nei semantemi filosofici e non nella sua struttura; i nuclei fondanti, invece, in quanto ossature sostanziali, permetterebbero alla disciplina di consegnare nelle mani del docente una didattica di tipo filosofico. Una volta messa in luce la struttura epistemologica della disciplina, quei nodi propriamente filosofici che hanno valore strutturante e generativo di conoscenze, quei criteri che fungono metodologicamente, con funzione gerarchizzante, nei confronti dei contenuti, potremo senza dubbio parlare di didattica pertinente, adatta a condurre alla filosofia i nostri insegnanti, prima, e i nostri studenti, poi. Che questo viaggio lo si compia poi attraverso i filosofi o attraverso i problemi è decisamente di secondaria importanza nei confronti di un metodo filosofico; è al di là di quella diatriba, che ha investito, per troppo tempo ormai, due scuole di pensiero contrapposte, che va ricercato il punto nodale di un metodo che voglia presentarsi come filosofico.
Polarizzare l’attenzione sui contenuti, come è stato principalmente operato dai sostenitori del metodo storico e dai fautori del metodo per problemi, o suscitare l’interesse per il soggetto dell’educazione, come hanno inteso fare gli assertori dei metodi psico-didattici, può indurci a deviare dallo scopo della ricerca e non farci rinvenire un metodo acconcio per la disciplina in questione. Su questo punto do merito alla sfi che, con la sua Commissione Didattica Nazionale, nello stilare le Proposte per un curricolo di filosofia nel quadro della riforma dei cicli, ha già avviato la discussione; ma occorre ora sedersi allo stesso tavolo, anche metaforico, teoreti e pratici, per incominciare un itinerario nuovo che ci porti, assieme, a trovare quei nuclei uno per uno, andando alle fondamenta stesse del filosofare, al valore della ricerca, all’intenzionalità che lega filosofo e studente, all’alterità con cui va sentito l’altro da noi, alla problematizzazione argomentata, alla circolarità tra soggetto presente e storia. Forse qui troveremo il nodo che unisce tutte le forze di un’associazione, nella ricerca di un metodo didattico acconcio perché la filosofia nel suo insegnamento diventi un filosofare, o meglio un con-filosofare e così, magari, ritornando a quell’insegnamento zetetico di kantiana memoria, non insegnare più una filosofia o diverse filosofie, ma ‘a filosofare’, escludendo quindi quegli scivolamenti nel didattichese.
Il futuro dell’università passa anche attraverso la scuola superiore; una scuola che formi al piacere del filosofico presente nella realtà instraderà forze nuove verso gli studi filosofici; e non credo dunque vada sottovalutata la collaborazione di chi nella scuola è partito dalla pratica per giungere alla teoresi, come non credo debba sentirsi esentato in questo viaggio il polo accademico. Un’ultima sottolineatura mi sento di fare circa la differenza che comunque esiterà sempre tra le due anime appassionate di filosofia; se nell’accademia possono anche esistere maestri di filosofia, non credo che la stessa cosa valga per chi opera nel pratico quotidiano di una scuola superiore; mi sembrerebbe eccessivo che un mio collega si sentisse tale. Se fossi richiesto da un futuro docente circa questo problema, io gli indicherei una via che lo indirizzasse verso un insegnamento filosofico consistente ad esempio in attività volte a a) far amare la ricerca filosofica, b) porre il dubbio sull’acquisizione raggiunta della verità, c) aprire alla domanda filosofica, d) far conoscere le vie che altri hanno percorso nel darsi una risposta in merito ad un problema che li ha toccati come uomini, e) analizzare attraverso i loro scritti le soluzioni, f) valutandone le argomentazioni, g) riconsiderare se stessi all’interno di un eterno domandare, il quale presuppone un eterno rispondersi. Anche su questi punti credo vada posta l’attenzione didattica, e se è questa l’accezione con cui ci si debba sentire maestri di filosofia, allora mi sta bene, anche perché di filosofia, se qualcuno di noi ne ha una, non la può di certo considerare come verità da comunicare; è sulla ‘ricerca della verità’ che occorre impostare il lavoro alle superiori, sul suo momentaneo conseguimento da parte di uno studente e sulla sua successiva messa in mora, no di certo sulla sua trasmissione; e nel far penetrare nell’animo degli studenti quel sacro fuoco di platonica memoria, stimolarlo affinché arda anche quando noi non saremo più al loro fianco; ma per far ciò occorre procedere con un metodo rigoroso nella progettazione, nella programmazione, nell’attuazione, nella verifica dei risultati.
[1] Platone, Leggi, 811-819.