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Comunicazione Filosofica n. 12 giugno 2003

 

L'INGANNO PERCETTIVO NELLA POETICA DELLA CONFUSIONE DI BRIAN DE PALMA[1]

di C. Boracchi

 

"La forma è il contenuto. La forma è sempre il contenuto"

(B. De Palma)

 

De Palma è uno dei pochi registi cui film sono 'inenarrabili', sia perché non è dato di rivelare gli esiti della suspance - quella la si vive! - sia perché egli stesso esige che si rispetti l'identificazione che da sempre va operando fra forma e contenuto: sta proprio in questa cifra stilistica l'elemento che lo proietta in una serie di riflessioni di intrigante valenza filosofica[2]. Molto controverso, De Palma ha sempre voluto caratterizzarsi in forza di una specifica scelta formale e linguistica che consiste nel non soffermarsi mai sulla narrazione come cuore del suo messaggio: quando anche ha percorso vie con tangenze socio-psicologiche[3], pure il suo cinema si è caratterizzato per la totale assenza di realismo[4]. Il significato del suo cinema sta dunque nella sua scrittura, nella scelta che opera in fase di montaggio, nella cura delle inquadrature, dei tagli di luce, delle dinamiche e dei percorsi: in questo senso, siamo anche autorizzati a rinvenire nel suo 'fare cinema' un certo autocompiacimento citazionista ed autoreferenziale che rende ancor più stimolante la visione.

Non è certo un ghost director, un regista che sa cancellare la propri presenza, poiché egli ama eleborare in modo riconoscibile un vasta gamma di materiale semantico: premesso che è comunque impossibile uscire del tutto dai codici del 'noto', del pre-stabilito, rispetto i quali - come per il Man heideggeriano - è dato soltanto di ricomporre in modo personale i segmenti,  De Palma sa essere 'regista' nel senso che si pone come ordinatore di senso, non mero demiurgo ma enunciatore di senso in una rappresentazione sempre vicina a quella della letteratura fantastica.

Hitchock, Godard e Trouffaut, la suspance e l'amore impossibile, sono alcuni dei riconosciuti  ingredienti di un cinema che, come quello depalmiano, contiene ben altro: esso infatti assurge non solo a semplice metacinema - ormai questo aspetto accomuna fin troppi registi - bensì a dispositivo, organo di realtà, capace di ricreare l'esperienza percettiva e fenomenica. In questo senso, il cinema è 'messa in scena della realtà', sua metafora nel senso anche 'barocco' del termine[5]: in tale senso la cinematografia di De Palma rientra nell'accezione di postmodernità  e di manierismo filosofico e filmico che comporta l'adesione a dei dispositivi specifici, a partire dalla crisi dei soggetti e dall'angoscia dell'influenza[6], dall'evidente eccesso citazionista anche sincretico[7], sino alla dialettica illusione-smentita[8] che implica il gioco metabletico dell'interpellare lo spettatore costringendolo alla decostruzione e alla ricostruzione del meccanismo narrativo. In quest'ultimo 'gioco', poi,  qualche volta lo sguardo viene ingannato a vantaggio di una sospensione dell'incredulità e dell'automatismo dell'atto percettivo. Nel contempo, De Palma appartiene anche a un'altra forma di manierismo, definito da A. Bergala come occasione non di mera riflessione sui grandi maestri bensì di creazione di dispositivi di emozione [9] che rientrano nei meccanismi dell'immaginario collettivo e che costituiscono le pre-comprensione dell'esperienza percettiva, da essi implementata e definita.

Il film è dunque simulazione e messa in scena della simulazione, è evento 'simbolico' per eccellenza, trasgressione continua del limite che rilancia continuamente il desiderio e l'angoscia[10] creando dei 'pieni' più che non esprimendo la fascinazione del 'vuoto'[11].

De Palma è in tal senso consapevole della 'pulsione scopica' che domina la nostra cultura: la legge dell'occhio è testo e sottotesto del suo cinema. Da qui la scelta di De Palma di non  negare mai la visione, estendendola, moltiplicandola, mostrando allo spettatore - talora ignaro di ciò - quello che viene occultato i personaggi. Questo comporta che lo spazio convenzionale della rappresentazione venga infranto in forza dell'interpellanza diretta del pubblico: la macchina del cinema dichiara il proprio funzionamento attraverso la complessità esibita di un repertorio linguistico al limite del manierismo. Lo sguardo è il catalizzatore del plot narrativo:  l'intera drammaturgia delle storie dipende da esso, a ribadire il legame fra il fantastico e i temi dello sguardo teorizzati da Todorov, temi che il regista articola poi in una infinita catena di significati che si avvale di tutto ciò che in qualche modo prolunga o si rapportano alla visione. Così facendo, De Palma compie una riflessione sul rapporto immagine/segno, testo e pre-testo, film e materia[12]

 'Senso' aggiuntivo, dunque, il cinema di De Palma non si riduce però a linguaggio: esso diventa tecnica di decodificazione del reale: la realtà, sembra dirci, è inconoscibile - o 'fatale', necessitata nella casualità apparente degli eventi, determinata nella sua indeterminabilità[13] -  e quindi solo il cinema - quanti 'fotografi', vojeurs[14], telescopi e cannocchiali nei suoi film! - riesce a riscattarne la percezione umana grazie ad un suo rimontaggio.è così da sempre, e non è un caso che questo regista, fisico fallito, documentarista pioneristico in azzardi tecnici, sia passato, negli anni, dalla citazione all'autocitazione, ponendosi appunto come 'autore' inconfondibile. La citazione è in De Palma una sorta di 'furto' che è funzionale al rafforzamento dell'impressione del già-visto del suo cinema: il 'remake' sembra essere una costante di tale prassi che, nel contempo, sfocia nella riconoscibilità dell'autore oltre che nella decodificabilità dei segni.[15]

 

In Femme fatale[16], il suo ultimo noir - ma di generi se ne intrecciano molti… - è ancor più facile riconoscere i segni distintivi della sua poetica registica, campo ideale di ricerca per una sinergia con la tematica filosofica moderna del rapporto verità-illusione sensoriale e teoria della visione, come pure di una rilettura del Cogito cartesiano alla luce di una nuova 'prima veritas':

Guardo, dunque esisto.

 Lo sguardo si pone di De Palma come risorsa narrativa e marca di auroriflessione grazie all'uso della soggettiva: se però di norma la soggettiva è  coincidenza dei punti di vista dell'autore, del personaggio e dello spettatore, al contrario De Palma la pone come soglia o frattura - io/cose, desiderio e possesso, passato e presente, ma soprattutto, per l'itinerario che c interessa qui, res e sua rappresentazione[17]. Di quest'ultimo aspetto è esempio evidente Mission Impossible,  dove è evidente che guardare significa sporgersi oltre i margini, giocare all'eccedenza , vivere un'esperienza liminare e trasgressivo/seduttiva che rende tangibile il 'non-visto', che non è tuttavia 'invisibile'. L'occhio diviene costitutivo del mondo (del film). Di fatto, dunque, sono sempre tre gli occhi che si intrecciano nel suo cinema, pur essendo intrusivo e invadente proprio il 'terzo' occhio - l'autore [18]- che propone visione dall'interno e sull'interno: qui ancora affiora il vojeursmo del regista, che giunge a 'bucare' l'occhio per trarne fuori un'immagine rivelatrice[19]. L'esito è una estrema fluidità e relativizzazione dei punti di vista: in un certo senso, lo sguardo dello spettatore deve assumere una potenza ubiqua, rendendosi conto ben presto che non è più possibile una unidirezionalità del vedere[20]: infatti, l'immagine/collage/mosaico che viene componendosi nel corso del film e che rappresenta la visione di un paesaggio dal balcone del protagonista e che solo alla fine viene mostrata nella sua completezza anche allo spettatore enuncia la pluralità del vedere, sottoposto alle infinite variabili - climatiche, di luce, di tempi e presenze umane - che lo determinano..

Dall'altra parte, il regista si fa presente con la wandering camera, con una soggettività che Metz ha definito "oggettività orientata"[21], poiché egli sceglie provvisorie pseudo-soggettive per svelare la sua presenza e ,ammiccando allo spettatore[22], per dirsi 'altro' rispetto al punto di visione dei personaggi. Ancora, le inquadrature personalizzate sono molto frequenti: il personaggio viene marcato nelle immagini ma non assumendo il suo asse percettivo, dando anche in questo caso l'effetto del 'terzo' in gioco, molto evidente soprattutto nei dialoghi in campo/controcampo. I grandi carrelli in pianosequenza - esemplare quello dell'incipit del film, girato peraltro a Cannes durante il Festival del 2001, con tutte le interferenze legate all'evento' reale dentro il quale si costruisce quello fittizio della narrazione diegetica - vanno nella medesima direzione, ancor evidenziando un sempre possibile punto di vista, un sempre aperto segnale di decodificazione degli eventi e di connessione degli stessi.

Non è un caso, quindi, che in De Palma spesso il guardante diventi il guardato:

"… ma anche mi guardano, dunque ho un senso".[23]

 Questo allarga il significato del cinema di De Palma alla attribuzione di identità che investe tanto i personaggi dei suoi film  - spesso portatori di sindromi e problematiche psicologiche che debbono decidere di affrontare e risolvere per 'porsi' in termini identitari -  quanto gli spettatori, nel loro esser tali o in rapporto ai personaggi 'guardati'. Corpo, seduzione e inganno visivo entrano in campo come espressioni di una medesima poetica del desiderio: spesso, se non addirittura 'sempre' - in De palma  il corpo è negato[24] e lo sguardo - reale o immaginario - diviene l'unica occasione di possesso, facendo sì che la soggettiva implichi la nostalgia del corpo[25]. Non fa eccezione Femme fatale: la dialettica di attrazione/rifiuto fra la protagonista femminile e quello maschile sembra risolversi in un atto esplicito di erotismo prima e di sessualità, che solo poi, nell'evoluzione del plot, viene svelato - o fatto intuire - essere dentro una sorta di 'sogno profetico' o di 'allucinazione' della donna, che 'vede' la propria vita 'parallela' prima che si realizzi - ma secondo altre possibilità - e attiva una circolarità esplicita fra incipit e chiusa.[26]

Questo dettaglio riporta ad un altro emblema del cinema di De Palma: la tematica del doppio, a sua volta connesso al problema identitario come pure a quello dell'inganno percettivo.

Qui ricondotto alla Vertigo hitchockiana[27], come pure al rimando nell'incipit a La fiamma del peccato - di cui la protagonista di impossessa nelle sue espressioni verbali - il tema del doppio  avvicina il regista a Hoffman, Lacan e Freud, ma, ancor più, fa sì che De Palma recuperi la visione di Rank secondo la quale

 

 "il doppio si contrappone sempre all'io, la situazione precipita in rapporto con la donna,  ha una svolta con l'uccisone del persecutore "

 

ma dice anche che il cinema stesso è 'doppio' del reale, il quale

 

"è ciò che è ricostruibile solo attraverso la sua riproduzione"

 

, come egli stesso ha molte volte dichiarato.

La realtà può essere quella di un sogno o di un delirio, di un destino autoavverantesi o che segue le tracce misteriose di un fato, poco importa. Ancora una volta, dunque, quello che conta è la percezione che ne abbiamo e la ricostruzione che ne si può fare.

Il reale si costruisce pertanto anche attraverso l'estetica della sottrazione  - in fase di montaggio -  e della sparizione: cose e persone possono cessare di apparire - gioielli, oggetti, corpi  - ricomparire  in una reversibilità che parla ancora di 'cinema': la realtà è rilavorabile - cosa fa il fotografo di Femme fatale, se non ri-elaborare la 'visione' che gli si para di fronte e che costituisce un emblematico fotogramma finale? - assumendo un altro punto di vista - o di azione - spostando gli assi percettivi, appunto, per poi tirare le somme degli eventi. L'accadimento è sempre multiforme e frutto di una sinergia dei contributi anche 'prospettici' che offrono il contesto entro il quale operare l'approfondimento, il flashback e rilevare le ellissi apparentemente inesistenti nel fluire armonico del vedere. In tale direzione viene utilizzato il tipico dispositivo depalmiano dello split-screen: nella sequenza della chiesa, De Palma allinea in verticale due spaccati dell'ambiente, nel quale contemporaneamente agiscono e interagiscono alcuni personaggi, creando un senso di nausea e di vertigine che lo spettatore percepisce e che corrisponde allo spaesamento della protagonista, che sta per divenire 'doppio' di un'altra donna alla quale dapprima sottrarrà  simbolicamente la vita per poi da lei stessa riaverla.

La divisione dello schermo/visione in due verticalmente offre al regista una possibilità narrativa preziosa: introduce infatti simultaneamente due centri di interesse  che valgono o per creare  contiguità spaziali, temporali - spesso inquadrando contemporaneamente porzioni diverse del medesimo spazio, vedi appunto la sequenza del funerale -  oppure per creare diacronie e dicotomie che, oltre a portare lo spettatore alla frammentazione inquietante della comprensione del plot, ingenerano le 'doppie' visione del reale.

Spaesamento  e bilocazione, dunque, che recuperano ancora una volta la tecnica della suspance di Hitchock, ma che il regista utilizza con ironia, nel momento in cui vi inserisce un nuovo elemento: il deja vu[28]. Su questo il regista insistentemente lavora  disseminando di indizi e segnali tutte le inquadrature - suore ed educande, sempre le stesse, che attraversano la via, cartelloni pubblicitari, che scandiscono il passaggio degli anni, oggetti ricorrenti…etc -  talora esagerando persino - addirittura i manifesti con la scritta deja vu, come non bastasse -  perché lo spettatore si 'collochi' nella realtà, ne assuma la chiave di lettura ricollocandolo sempre in 'altro'. L'esito, allora, è sempre e solo quello per  cui:

Je est un Autre

 


[1] Le valutazioni che seguono, infatti, sono il risultato di un percorso che si è sperimentato didatticamente nell'ambito della costruzione del curriculum triennale per l'istruzione liceale incentrato sul rapporto cinema-filosofia. Tale progetto, avviato con la validazione dell'IRRE Lombardia, ha visto l'attivazione di un modulo sul tema dell'inganno percettivo, che muovendosi dal dubbio cartesiano ha attraversato sul piano gnoseologico la riflessione moderna sino gli esiti humeani.

[2] Brian De Palma è figlio di un medico chirurgo; fin da giovane si interessa di cinema e teatro e per questa passione rinuncia alla carriera di fisico. Lavora come documentarista e realizza lungometraggi ricchi di sperimentazioni tecniche. Ispirandosi al mago del brivido Alfred Hitchcock, il regista si è inserito prepotentemente nella cinematografia contemporanea, costruendosi sapientemente uno stile personale e originale. Il suo primo thriller è Delitto à la Mod, il suo primo importante riconoscimento lo ottiene con la pellicola Ciao America, Orso d’argento al festival di Berlino. Il grande successo arriva con Il fantasma del palcoscenico. Nei suoi film, dove affronta con maestria svariati temi, dirige i migliori attori che offre Holliywood. Firma nel 1987 una delle sue opere capolavoro, Gli Intoccabili, nel quale fra gli altri recitano Kevin Costner, Andy Garcia, Robert De Niro e Sean Connery, premio Oscar per l’interpretazione. Secondo la rivista "Variety", nessuno meglio di Brian De Palma è capace di provocare il massimo di tensione e di suspense. Nel corso della sua carriera ha anche diretto un video musicale di Bruce Springsteen: Dancing in the Dark.

[3] Si pensi al caso di Carlito's way, storia di un portoricano che tenta un'inutile fuga dal passato oscuro e delinquenziale che inesrobilmente gli grava addosso senza via d'uscita.

[4] De Palma stesso ha dichiarato che "Il cinema è essenzialmente arte grafica, immagini in movimento. Il linguaggio è la mia preoccupazione principale. Cerco, prima di tutto, soggetti che mi diano grandi possibilità sul piano visivo."

[5] Tale definizione è canonizzata  da P. Mauriés in  Cahiers de Cinéma, 1985,  n° 370 , p.15

[6] Ovvero, il cinema non parla più della realtà ma di altri film, di maestri che hanno già detto tutto e sulle cui opere si può lavorare con una autonomi di ricostruzione.

[7] Il cinema come variazione sul tema di proprie o altrui opere assume valenza estetica e poetica in se stesso, dichiarando il predominio dello stile.

[8] A. Pezzotta, Dalla citazione all'autocitazione, in AA.VV., Brian De Palma, Paravia Scriptorium, Torino, 1999, p.17.

[9] Cahiers de Cinéma, 1985,  n° 370 , p.14

[10] R.  Nepoti, De Palma, Il Castoro, La Nuova Italia,  Firenze 1982, p.64

[11] Si veda tale proposito la riflessione di Lacan sulla cavità orrorifica del vuoto e della sua fascinazione (il manque, appunto)

[12] "De Palma fa pensare agli iperrealisti, ai nuovi surrealisti dell'immagine foto-ottica, per questo filtrare la messa in codice in deflagrazioni autonomamente personali" Si veda G. Turroni, in Macchine parlanti, Flimcritica n° 291, pp.29.

[13] Il tema del 'destino-nemesi', che offre un'ulteriore possibilità di lavoro nel raccordo cinema-filosofia, è ben presente nel linguaggio filmico di De Palma, soprattutto in Gli Intoccabili e in Carlito's way., come pure nel più recente Femme fatale . In Carlito's Way, in particolare, De Palma narra un'idea: quella del destino, tratteggiando un personaggio che sembra uscire dalla tragedia greca: eroe in fuga orizzontale dal fato che incombe, Carlito viene imprigionato dalla circolarità del tempo, le cui diastole sono al Hybris e la  Nemesi insite nelle sue scelte stesse ( il suo 'way', appunto). In questo caso, l'incipit e la chiusa coincidono perfettamente, la storia  stessa è narrata attraverso infiniti flashback che rimandano alla circolarità stringente, quella stessa del gioco dell'inganno, dei doppi che si inseguono per ricongiungersi.

[14] Il regista stesso lo è, lo spettatore lo diventa, per essere tale, ovvero spettatore: si veda E. Ghezzi, Divisioni.in paura e desiderio.cose (mai) viste, Bompiani , Milano 1995, p.407

[15] Una delle modalità citazioniste più frequenti consiste negli atteggiamenti linguistici ispirati a Godard, oltre che in  quella dell'appropriazione dei modelli a livello di citazione ironica, sottotesto famigliare, remake virtuale. Cfr.  R. Nepoti, op. cit., p.66

[16] "Un soggetto con risonanze metafisiche alla Kieslowski è declinato in chiave thriller da Brian De Palma, che non esita a banalizzarlo facendo di Femme fatale una compilation - ai limiti della parodia - di tutto il proprio cinema precedente; nonché di quello hitchcockiano, come sua abitudine. De Palma è bravo, bravissimo a muovere la macchina da presa; non lo scopriamo oggi; però è sorprendente vedere come la più complicata delle scene diventi fluida e naturale quando è girata da lui". (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 24 novembre 2002)

[17] Ibidem, S. Alovisio, L'cchio sensibile, p.61

[18]  Continuo, in De Palma, l'uso di soggettive senza soggetto - molto godardiano - a ribadire il ruolo dell'autore come demiurgo e Grand Regardeur.

[19] Cfr. Le due sorelle, dove appunto si trova una sequenza in cui Grace vive un'esperienza al limite del surrealismo di Bonuel - il taglio dell'occhio - .

[20] Questo è un aspetto del cinema di De Palma che può  favorire una riflessione sulla moltiplicazioni degli sguardi interpretativi offerti dalla cultura della post-modernità filosofica.

[21] C Metz, L'enunciazione impersonale o il luogo del film, E.S.I, Napoli, 1995, pp.150-153

[22] Esemplare in Femme fatale l'incipit, nel quale la protagonista seduce una modella che indossa un busto d'oro per trafugarlo, smontandolo pezzo per pezzo e passandolo - ma non tutto, e di questo pochi si accorgono - al complice esterno.

[23] Si cita in questo caso il titolo della rassegna di titoli depalmiani curata da U. Mosca in Brian De Palma, cit., p.104.

[24] Anche quando sembra posseduto, la m.d.p. svela l'inganno - si tratta di una controfigura, di un'allucinazione, di un sogno… - come nella chiusa - che scorre sui titoli di coda - di Omicidio a luci rosse.

[25] S. Aloisio, op. cit., p.66

[26] La fascinazione del film consiste anche nella struttura che non è semplicemente circolare, ma si inanella a spirale creando circolarità - fatali o fatiche - dentro la grande circonferenza narrativa.

[27] "De Palma ha una passione viva, documentata, erotica, per il cinema, per il fascino del vedere-sentire, per frammenti di Hitchcock e Truffaut, per il mezzobusto di Veronica Lake e per parole 'femme fatale' (ovvero dark lady, ma giocando con le rifrazioni francesi del noir e della critica che lo inventò) e tutto il resto. Questo è il film che parla di De Palma, autore originale e unico proprio in virtù della sua 'inautenticità'. La storia? Si vede, si sente e si gode". (Silvio Danese, 'La Nazione', 22 novembre 2002)

 

[28] Il deja vu si ascrive esso stesso alla dimensione dell'inganno percettivo, ma anche del citazionismo di cui si è detto sopra.