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Comunicazione Filosofica n. 12 giugno 2003
Giocare con i numeri:
l'aritmogeometria di Peter Greeneway[1]
di C. Boracchi
Non di rado ho fatto ricorso a strutture matematiche, a numeri e conteggi
che si sono aggiunti alle storie dei miei film e le hanno accompagnate.
Essendo l'autore, controllando la trama, posso scegliere di scandire la successione degli eventi
in base a un qualsiasi infinito numero di possibilità.
E' uno stato di cose assai precario, e dà l'idea di quanto sia volatile l'invenzione di fiction".
(P. Greenaway, Catalogo per la Biennale dio Venezia,
Allestimento per Palazzo Fortuny,1998)
Eccessi, raffinatezze, ricchezza scenografica, inenarrabili sgradevolezze e materialissimi dubbi esistenziali sullo sfondo di una incessante ricerca di una 'scrittura' delle immagini che attinge alle costanti ossessioni per l'archiviazione tassonomica e per il gioco: queste le cifre dominanti del cinema di Peter Greenaway, autore intellettuale nel senso forte proposto da Ejzenstein, ovvero antierudito per elezione guidato da una curiosità inesausta per ogni tipo di fonte artistica. Frutto del metissaggio culturale di fine millennio, Greeneway è, anche per i percorsi intrapresi fra letteratura e teatro, pittura e cinema, l'emblema di un cinema del tutto anarrativo[2] e proteso ad accumulare materiali in un dedalo di livelli e di significati racchiusi l'uno nell'altro, in un crescendo di simbolismi che hanno uno sfondo comune ed evidente nel sistema numerico decimale[3].
Il regista inglese, infatti, sin dagli esordi del 1978 - un corto in 16 mm dal titolo 1-100[4] - ha evidenziato la sua passione maniacale per la numerazione in sequenza alla quale corrisponde una concezione temporale e narrativa lineare: una premessa, questa, che senza giungere subito alla convinzione della magia dei numeri[5], alla quale il regista sembra essere però pervenuto successivamente[6], pone Greenaway nella scia dell'aritmogeometria pitagorica[7], rivissuta, però, con una sensibilità malata e decadente degna di un autore di fine millennio. Per questo motivo, anche se si rende necessaria una accurata selezione delle sequenze dei suoi film, spesso molto complessi e comunque di grande impatto emotivo e visivo, pure la sua filmografia è efficace per proporre la sensibilità pitagorica trasposta in una cultura e in un'età che ne ripropone alcuni elementi sotto forme nuove e con esiti per certi versi lontani da quelli originari.
Come affermava Sesto Empirico di Pitagora:
"I più sapienti filosofi della natura attribuiscono ai numeri una così grande potenza, da ritenerli principi ed elementi di tutte quante le cose"[8]
così anche Greenaway lega la propria ricerca incessante sul numero alla sua stessa scrittura filmica, e quest'ultima alla declinazione dei temi a lui cari: il corpo, nel suo degradarsi, l'acqua, luogo più del morire che del nascere, il tempo, come spazio e segno della destrutturazione e della corruzione, il rapporto vita-corpo-arte in una continua interferenza fra pittura, architettura e narrazione letteraria.
Un paradigmatico esempio è l'incipit del film Drawning by numbers (1988): sotto il cielo stellato, una strana bambina, mentre salta alla corda, recita i nomi di cento stelle, mentre, nel medesimo paese, tre donne con lo stesso nome, Cissie Colpitts, che sono rispettivamente nonna, madre e nipote, uccidono uno dopo l'altro i loro mariti, tutti nello stesso modo: annegandoli[9]. La bambina che conta le stelle sullo sfondo di una volta neoclassica è oggetto del desiderio di Smut, ragazzino che ne condivide la passione per i numeri e che compie, numerandoli e spesso classificandoli con macabri rituali di ricostruzione, la morte di animali e persone. Molto simile a questo è l'intervento operato da Greenaway in occasione della mostra a Palazzo Fortuny:
"La facciata principale di palazzo Fortuny ha esattamente cinquanta aperture. Certo, alcune sono cieche. Non tutte sono porte o finestre…quel numero ha parò un elegante significato…"[10];
e ancora:
"Posso decidere di avere sette personaggi, sei dei quelli saranno uccisi nei primi cinque minuti del film; posso avere settanta personaggi e spiaccicarli sotto un masso precipitato; …farli sedere sulla luna o incanutirli.[11]".
Enumerare la morte e scandire il tempo della fine: questa costante della filmografia di Greenaway si interseca con il tema dell'acqua.
"La maggioranza dei registi utilizza temi ricorrenti, che poi spesso divengono quasi identificativi dei loro film (...) Rappresentare l'acqua, riflettere sull'acqua è per me uno di questi temi. Ecco perché l'acqua è onnipresente…[12]"
In Giochi nell'acqua, che il regista stesso definisce un noir che comprende toni di una commedia, annegare è un rito, una cerimonia,
"una scusa per fare un po' di ironia e di necrofilia"[13],
dice Greenaway, che già nel 1975 aveva prodotto Waters, proprio sul tema dell'annegamento, ma forse più ancora del corpo devastato dalla morte per annegamento, seguito da un film-documentario sui cadaveri girato nel 1987 in occasione della celebrazione del Bicentenario della Rivoluzione Francese.
"Cadaveri annegati, ripescati dalla Senna negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione: quando dall'una e dall'altra sponda del fiume si faceva tanta ricerca storica… La parte dei cadaveri veniva recitata dagli attori vivi che si fingevano morti…Cicatrici, lividi, calvizie…i cedimenti cutanei provocati dal parto: tutti riscontri fisici di ogni danno corporeo"[14]
Oltre che con la tematica del corpo, l'acqua si ricollega alla concezione del tempo/narrazione di questa fase della produzione di Greenaway: infatti, lo scorrimento dell'acqua rappresenta il modello di composizione del testo filmico coerente con il fluire lineare del tempo diegetico, strutturato sulla successione di istanti numerati cronologicamente in un ordine rigorosamente legato al modello T1+T2+T3+Tn: una sequenzialità che nega la sovrapposizione e sposa la concezione del tempo[15] come successione di unità[16].
Altro elemento pitagoriconella filmografia di Greenaway è l'identità postulata dal regista fra numero/proporzione, architettura e corpo, posto che tale identità comprende anche il fare cinema, espressione di una solenne architettura della scrittura per immagini, come afferma lo stesso regista:
"L'inizio di un film è come un portone d'ingresso o un'entrata formale."[17]
Tale identificazione è particolarmente dimostrata nel film Il ventre dell'architetto (The Belly of an architect[18], 1987), nel quale il corpo del protagonista vive una perfetta simbiosi con la realtà architettonica di una città e di un autore del quale condivide il disfacimento - il cancro nel suo ventre - e la dissipatezza - il cibo, altro riferimento al pitagorismo che riaffiora anche nel film Il cuoco, il ladro, sua moglie, l'amante[19] - .
Il cibo è legato al corpo, che diviene ciò che si ingerisce[20], come ci viene riferito da Giamblico che enuncia la concezione pitagorica del desiderio e dei moti corporei:
"I desideri degli uomini sono straordinariamente varii e questo è dimostrato dalla varietà delle cose di sui essi si cibano"[21]
ma il corpo è oggetto a sua volta anche di una corrispondenza scultorea in altre sequenza della filmografia di Greenaway: infatti, esso è sottoponibile a mutamento quantitativo - cresce, diminuisce, si deforma - ma soprattutto può essere spezzettato in proporzioni/porzioni diverse sino a divenire scultura/opera d'arte vivente. E' quanto avviene alla protagonista di A Zed & Two Noughts (1986)[22], ma è anche un tema presente in Pillow book [23](1996), il testo filmico forse più innovativo del regista inglese.
Se per Il cuoco, il ladro, la moglie e l'amante Peter Greenaway partì dall'idea che «l'uomo è ciò che mangia», per "I racconti del cuscino" vale la considerazione che «l'uomo è ciò che scrive», anche quando le parole sono «scritte» sul corpo, a formare una seconda pelle da leggere, misteriosa e allusiva. Il corpo di cui ora si tratta è quello che esprime l'altezza del carattere tipografico: corpo 7, corpo 11, corpo 144 e così via, sino al corpo dei caratteri che "scrivono" lo schermo di I racconti del cuscino. Pure, il film è addirittura orientato al piacere del corpo carnale, dei corpi che vengono purtuttavia solo intravisti, evocati in vuote effigi, quelle appunto della scrittura che li avvolge, fogli bianchi sui quali scrivere/fare cinema con immagini - i pittogrammi - [24]. Greenaway scrive facendo cinema, dunque, ma in questa occasione scardina ancora una volta la narrazione proponendo un modello di tempo diegetico nuovo e conferendo al livello imagologico una nuova ricchezza grazie alla sovrapposizione di più livelli video nella medesima inquadratura. Ne deriva un nuovo concetto di durata: ogni immagine, nella pluripartizione del quadro e quindi dello schermo cinematografico secondo una rigorosa geometria, raffigura la stessa durata temporale di una sequenza ma in successivi istanti temporali: abbandonato il modello T1+T2+T3+Tn, il regista propone quello di una simultaneità che accelera il tempo dell'azione mantenendolo intelligibile allo spettatore anche se non sotto il suo controllo[25].
"Cinque punti di vista dai quali vedere lo stesso film…sempre che non vi siano interruzioni, il tempo non è più sotto il controllo dello spettatore…Forse che lo spettatore può infrangere io ciclo temporale del film?[26]"
Questo comporta un grande studio sulla composizione dei quadri[27], delle inquadrature, che non solo Greenaway coltiva da sempre[28], ma che lo vede impegnato in una riflessione che ancora una volta lo riporta al numero e ai suoi rapporti. In particolare, il regista ha avuto modo di comparare la struttura e la cornice delle inquadrature a livello pittorico, cinematografico e televisivo come segue:
"…Al momento il televisore standard, diffuso in tutto il mondo, ha una forma prestabilita: una scatola, un cubo. La variazione percentuale rispetto al modello (cui si assegna il valore 1) giunge a 1,33. Quanto al cinema, sono state considerazioni di ordine finanziario e tecnologico a stabilire la forma e la struttura dei fotogrammi di una pellicola. Quanto al fotografo, per quanto possa rifilare la sua immagine in camera oscura, il giornale la rifilerà di nuovo: riceverà una nuova cornice. Anche per il regista teatrale c'è una struttura prestabilita…lavorando su tre dimensioni però ha la, possibilità di superare le sue limitazioni - quelle del'arco di proscenio - e con la luce può espandere il rettangolo…"[29]
Ma quello che a Greenaway interessa di più è il legame cinema/pittura. Egli infatti afferma che benché il pittore non sia soggetto a costrizioni, pure sono invalse nei secoli delle convenzioni che, ad esempio, vedono i dipinti europei fra Sei e l'Ottocento accomunati da dimensioni comuni con uno scarto massimo di 1,66, dato che corrisponde con quelli relativi allo schermo cinematografico, ma anche alle finestre di qualsiasi forma architettonica.
Se in Eight women half (2000) il regista inglese sembra non avere conseguito la felicità espressiva della altre pellicole, non sarà però difficile cogliere la determinatezza con la quale ritorna sulle tematiche elette, che se non lo fanno autore amato dal grande pubblico, lo vedono però teoreta delle immagini in movimento, autore e coscienza inquieta della contemporaneità.
[1] Peter Greenaway è uno dei più originali ed importanti registi del nostro tempo. Ha studiato pittura ed ha conseguito nel 1964 il NDD (National Diploma in Design) presso la Walthamstow School of Art. Ha iniziato a lavorare come montatore per l’Istituto Centrale di Informazione nel 1965. L'anno successivo ha realizzato i suoi primi cortometraggi, proseguendo a dipingere ed a scrivere romanzi e libri illustrati. Nel 1980 Greenaway gira un documentario per la televisione britannica "Act of God", nel quale intervista alcuni sopravvissuti ad incidenti che raccontano la propria esperienza. In questa produzione si possono già notare tutti gli elementi tipici della futura cinematografia di Greenaway: l’uso di angoli insoliti per la ripresa, il tipico humour nero, il gusto quasi pittorico per le scenografie ed i costumi, la passione-ossessione per i numeri. La musica è di Michael Nyman, con il quale realizzerà le colonne sonore di tutti i suoi film futuri. Il primo lungometraggio è del 1982 "I misteri del giardino di Compton House", con il quale ha ottenuto ampi riconoscimenti di critica.
[2] Greenaway ha sempre sostenuto che il cinema non è affatto una finestra aperta sul mondo. È invece uno spazio vuoto - nel senso di "a disposizione" -, «su cui dispiegare idee». Come avviene per la scrittura e la pagina bianca, il cinema è creazione simbolica di senso mediante segni dispiegati sul bianco dello schermo. Il cinema, ama dire, «io cerco di strapazzarlo più che posso, per farlo uscire da quello che è», per farne qualcosa che sta al di là del cinema, un metacinema senza rapporti con la realtà, la visione d'un occhio inorganico. Ma gli capita pure di sostenere che la sua opera è un'accettazione della corporeità, anche di quella bassa e scatologica.
[3] "Tutte le cose che si conoscono hanno numero: senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché" (Stobeo, Ecogle, I, 21, 7b=DK 44 B 4 in I presocratici, vol I, p.466.
[4] Le insegne stradali, i numeri civici delle abitazioni, la numerazioni dei pali della luce di cinque grandi città europee (Berlino, Parigi, Roma, Firenze e Bruxelles) ordinati in base alla sequenza.
[5] Si fa qui riferimento alla sequenza finale di Baby of Macon (1993). Siamo nel 1650 e la cattedrale di Macon è testimone di un irreversibile decadimento. Una donna avanti negli anni partorisce un bambino. Le donne incapaci di procreare allora vogliono poterlo taccare. La figlia diciottenne dell'"anziana" finge di essere la vera madre e di essere anche vergine. Distrugge la propria famiglia. La Chiesa a sua volta sfrutta il bambino vendendo tutte le sue secrezioni. Allora la ragazza uccide il bimbo soffocandolo. Per legge una vergine non può essere condannata a morte. Il vescovo dunque acconsente che venga stuprata dai soldati per 12 volte per 7 per 14 (il 12, il 7, il 14 ovvero il 7 per 2, con una chiara simbologia dissacrata dal contesto nel quale è utilizzata).
[6] Si pensi alla vicinanza di Greeneway al rosacrocianesimo e al pensiero di Giordano Bruno, quest'ultimo connesso agli straordinari lavori di Frances A. Yates e sfociati in una concezione della memoria simile a quello del Teatro della memoria di Giulio Camillo, ovvero di una memoria architettonicamente sviluppata come un teatro circolare - si pensi al Globe Theatre di Shakespeare, autore non a caso favorito da Greenaway quanto Dante - che molto ricorda i sistemi di archiviazione della memoria che oggi possiamo produrre nei cdrom con le nuove tecnologie informatiche e multimediali. Proprio a queste forme di arte tecnologica del resto il regista si sta avvicinando negli ultimi anni.
[7] "Pitagora diceva che princìpi sono i numeri e le simmetrie che sono inessi, che chiama anche armonie, e che elementi, ch'egli chiamava geometrici, sono le cose composte da entrambi" (Aezio,I,. 3, 8 = DK 58 B 15, op. cit. p.518
[8] Sesto Empirico, Contro i matematici, II, 250-62
[9] Così si sviluppa la trama: la nonna, di aspetto ancora piacente, ma tradita sfacciatamente dal coniuge ubriacone con una ragazza giovane, lo annega nella vasca da bagno. Poi confessa il suo crimine al medico legale Madgett, amico di famiglia, e profondamente affascinato sia da lei che dalle altre due Cissie. L'uomo accetta di far passare quella morte per accidentale, sperando in un compenso "amoroso" a breve scadenza. Segue poi la seconda Cissie che, trascurata dal marito, il quale si dedica solo al lavoro, lo annega in mare. Anche lei si rivolge quindi a Madgett, il quale protesta, ma acconsente infine a redigere un certificato compiacente. Intanto Smut, figlio adolescente del medico, consigliato dalla ragazzina che conta le stelle, della quale è invaghito, pratica su se stesso la circoncisione. Mentre in paese ormai tutti sono indignati per queste incredibili morti e relativi certificati, anche la terza Cissie Colpitts, giovanissima, incinta e sposata da pochi giorni, ma già delusa dal marito Bellamy, lo fa affogare in piscina, dove lui stava cercando di imparare il nuoto. Anche stavolta il medico legale accetta di compilare il falso certificato, però, adesso chiede chiaramente il suo compenso alle tre donne, che sono riuscite fino a quel momento ad accontentarlo con vaghe promesse. Ma esse, non volendo subire il ricatto, decidono di approfittare della cerimonia notturna, in cui disperderanno nel fiume le ceneri dei tre mariti uccisi, per annegare anche Madgett, che non sa nuotare, e che, come ipnotizzato, le asseconda. Intanto, essendo morta in un incidente la bambina amata, Smut si impicca ad un albero, usando la corda con cui lei saltava.
[10] Catalogo della Biennale di Venezia, cit., p.25
[11] Ibidem, p. 26
[12] Ibidem, p.13
[13] Ibidem, p.20
[14] Ibidem, p. 33
[15] Qui la riflessione sul 'tempo' porterebbe anche verso quella sul 'tempo musicale' - connessa nella filosofia pitagorica è ancora una volta al numero e alle grandezze fisiche - che in Greenaway è altrettanto importante, visti i legami di affinità elettiva con la produzione ritmico-geometrica di M. Nymann.
[16] Tale visione del tempo e della narrazione viene in seguito a dissolversi nella scelta per l'istantaneità convergente delle diverse temporalità.
[17] Ibidem, p. 11
[18] Il ventre dell'architetto: un architetto americano cinquantenne, Stourley Kracklite, più teorico che realizzatore, viene a Roma, accompagnato dalla giovane moglie Louisa per allestire la mostra celebrativa di Etienne-Louis Boullée, uno degli architetti utopisti dell'illuminismo francese del '700, verso il quale nutre un'enorme ammirazione. Tra le persone che lo aiuteranno nel lavoro c'è Casparian Speckler, un bel giovane, pure lui architetto, ma di scarso talento. Mentre i preparativi hanno inizio e l'entusiasmo di Kracklite è grande, questi incomincia a soffrire di forti dolori al ventre. Nel frattempo, Roma, così ricca di architetture splendide, lo ha affascinato profondamente: egli, come il suo maestro Boullée, predilige le forme sferiche, in particolare le cupole; nell'Urbe, quindi, ha di che esaltarsi. Fra l'altro, sembra che l'artista francese si fosse ispirato alla cupola del Pantheon per il monumento funebre a Isacco Newton. Ma l'architetto americano trova interessante anche il Vittoriano (tanto vituperato dai romani), anzi è proprio nel suo interno che la famosa mostra viene allestita, con i sorprendenti disegni in cui Boullée eccelleva, e i plastici delle poche opere che era riuscito a realizzare. Aggravatisi i sintomi del suo male, i medici, dopo molti esami, danno un responso terribile: cancro all'intestino, con pochi mesi di vita. Quando Louisa gli comunica di essere finalmente in attesa di un figlio, concepito evidentemente al loro arrivo in Italia, Kracklite prova una grande gioia, ma sempre turbato dalle sofferenze e dal lavoro assillante, non riesce a stare abbastanza vicino alla moglie. Egli è continuamente ossessionato dall'aspetto del suo grosso ventre (una vera piccola cupola) e dall'orribile "mostro" che contiene. Comincia a circondarsi in modo maniacale di un numero spropositato di fotocopie riproducenti ventri di statue famose, alle quali, col tempo, si aggiungeranno anche immagini di Louisa incinta. Poi, come egli temeva accadesse, Louisa diventa l'amante di Casparian, che l'ha corteggiata con insistenza, approfittando della trascuratezza del marito. Pian piano il giovane riesce ad estromettere Kracklite dalla direzione della mostra, con la scusa del grave stato di salute di lui e gli toglie la moglie, che va a vivere a casa sua poco prima del parto. Disperato, solo, torturato dagli spasimi continui, Kracklite non ha altro conforto che quello di sfogarsi delle sue pene nelle inutili lettere che scrive al suo Boullée (morto nel 1799). Il malato vive ormai fuori della realtà, si ubriaca e fa scenate in pubblico. Il giorno dell'apertura della mostra gli organizzatori vorrebbero che, per evitare scandali, la inaugurasse, ma, poiché non si presenta, è sua moglie che deve sostituirlo. Subito dopo aver fatto questo, Louisa cade in terra in preda alle doglie, e, rapidamente, in quello strano luogo, dà alla luce il figlio. Nel medesimo istante, dall'alto del Vittoriano, Kracklite si getta nel vuoto, uccidendosi.
[19] The Cook, the Thief, his Wife and her Lover (1989): il luogo della vicenda è un ristorante dove ci sono clienti molto diversi: un signorotto volgare e violento accompagnato dalla moglie indifesa e dai suoi scagnozzi ma anche un signore bene educato che legge al tavolo. Questi avrà una storia d'amore con la moglie del gangster ma ne subirà la vandetta con la morte. La chiusura del film vede la donna costringere l'assassino a cibarsi del corpo del suo amante: tra Salò o le 120 giornate di Sodoma e La grande abbuffata. Si veda inoltre la figura riportata e tratta dalla esposizione a Palazzo Fortuny di cui si è detto.
[20] "Perché ogni cibo è causa di una particolare disposizione, e di questo tutti si accorgono quando osservano gli effetti di quei cibi che causano immediatamente grandi mutamenti…non si accorgono invece degli effetti di quei cibi che non hanno altrettanta forza, e tuttavia ogni cibo è causa di una particolare disposizione". Giamblico, in Vita di Pitagora, p.546
[21] Ibidem, 204-8=DK 58 D 8 in op. cit. p.545.
[22] Lo zoo di Venere:: Un incidente d'auto, provocato da un cigno che si abbatte sul parabrezza di una Ford-Mercury, causa la morte di due giovani donne e il ferimento della terza, Alba, che si trovava alla guida e che si vede amputata una gamba dal chirurgo-pittore falsario Van Meegeren, il quale le amputerà in seguito anche la seconda, perché la donna risulti copia vivente dei suoi quadri stravaganti. L'incidente lascia vedovi due entomologi gemelli ex siamesi, che lavorano per uno zoo, filmando i tempi e le fasi di disfacimento di animali morti. I due mutano presto l'odio per la sopravvissuta Alba in una passione indefinibile, che frutterà una coppia di gemelli unimadre e bipadre, i quali dopo il "sereno" suicidio di Alba e in esecuzione delle sue disposizioni, verranno però affidati a un terzo uomo, Feliphe Arc-en-ciel, (sempre in bianco come un cigno e lui pare privo di gambe), mentre i due vedovi si suicideranno altrettanto "serenamente" di fronte a una telecamera predisposta a filmarne la decomposizione.
[23] Traendo ispirazione da un mitico libro giapponese composto esattamente mille anni fa dalla cortigiana morta in povertà Sei Shonagon, il regista britannico ha confezionato un film perverso e insinuante che condensa le ossessioni predilette: e cioè una sensualità dai tratti rituali, il gusto per i numeri e le geometrie, una suggestione pittorica intrecciata allo studio della calligrafia intesa come indagine emozionale, non di tipo freudiano. La parola si fa carne, per dirla con Greenaway. E certo non ci vuole molto a capire che i «pittogrammi» di derivazione orientale spalancano alla fantasia un mondo simbolico con il quale i nostri poveri caratteri occidentali non possono competere: per bellezza, mistero, grazia. Partendo da qui, Greenaway immagina che nella Kyoto degli anni Settanta cresca la bellissima Nagiko Kiohava. Istruita dal padre calligrafo alla lettura dei "Racconti del cuscino" di cui sopra ed essa stessa «tela vivente», la ragazza viene mandata in sposa a un marito insensibile, fugge a Hong Kong per sottrarsi all'orribile uomo e diventa una modella affermata.
[24] Essi cioè paiono vuoti nel senso di "a disposizione", come il cinema-spazio quando ancora nessuno v'abbia dispiegato alcunché, né idee né segni.
[25] Questo spiega l'intenzione dichiarata dal regista di pervenire ad una cinematografia nella quale il pensiero laterale si dispieghi circolarmente come in un cdrom. La concezione circolare del tempo è altro elemento caro ai Pitagorici.
[26] Catalogo per la Biennale, cit., p.34
[27] "Sulle immagini del proprio film, Greenaway dispiega altre immagini. Non solo vela e occulta lo schermo con segni di scrittura, ma anche su di esso apre altri schermi, sia che si tratti di specchi che stanno nella scena e nella cornice tradizionale dell'inquadratura, sia che si tratti d'altre scene, di cornici che si moltiplicano sullo schermo, ognuna con una sua propria inquadratura. Questo corrisponde al suo progetto d'un cinema che esca dal suo stesso spazio, che si sposti al di là di sé, che diventi metacinema. In tal senso, il corpo su cui scrive è il cinema, e i segni che usa sono, ancora, cinema, cioè una sua calligrafia." Roberto Escobar, "Il Sole XXIV ore" - giugno 1997
[28] Si pensi ai ritmi diagonali e alle cornici nelle cornici delle inquadrature di Il mistero dei gardini di Compton House, o anche alla suggestione tratta dalla pittura fiamminga per gli altri suoi film.
[29] Catalogo per la Biennale, cit., p.19