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Comunicazione Filosofica n. 9 - dicembre 2001

 

Contributo al dibattito su "Filosofia dell'insegnamento della filosofia"

Congresso brasiliano dei Professori di Filosofia, Piracicaba, S.P., novembre 2000. Versione scritta, 24 Gennaio 2001

Mauricio Langon
Ex-Ispettore Nazionale di Filosofia
Presidente della Associazione Filosofica dell'Uruguay

 

0.

Il primo giorno di questo congresso, Stéphane Douaillier, commentando il Fedone, ci parlava di come, alla morte del maestro, si plachi il sentimento di meraviglia che pone in movimento l'anima del discepolo e lo spinge a filosofare.

Mi interessa qui il Socrate vivo, che non insegnava filosofia se non quando, filosofando, faceva filosofare. Mi interessa in maestro vivo che attraverso il suo insegnamento filosofico (dia-filosofia, trans-filosofia), educa. E educare è, fondamentalmente, spingere a filosofare. Questo movimento nella vita del dialogo, nella vita della classe, nella vita di una comunità, è un movimento congiunto, è pathos.

Una "filosofia dell'insegnamento della filosofia" non può evitare di riflettere a partire dal cruciale detto kantiano: "Non si può imparare la filosofia se non si impara a filosofare"; che inverte subito l'impostazione del nostro tema:

non si tratta di una questione di insegnamento ma di una questione di apprendimento;

non si tratta di memorizzare un oggetto conosciuto, ma di acquisire le capacità necessarie per realizzare un certo tipo particolare o specifico di azione. (E questo oggi, e contro Kant, non è applicabile solo né in modo privilegiato alla "filosofia": si deve generalizzare, per esempio, all'apprendere a pensare matematicamente e storicamente - apprendere a matematizzare e a storicizzare -; posto che si tratta di educar(si) attraverso ciascun tema, disciplina, materia scolastica o segmento curricolare).

Da Kant (anche se forse ancora non lo abbiamo studiato in tutte le sue implicazioni) il problema è posto a partire dal soggetto che apprende, dalla realizzazione e dallo sviluppo delle sue attitudini attive; e non a partire dall'oggetto insegnato da chi lo conosce, né dalla capacità di questo insegnamento di fare apprendere questo oggetto. Nella relazione "conoscenza-maestro-allievo" il maestro deve assolvere al compito di rendere accessibile agli allievi una conoscenza data, per assumere la responsabilità sociale di orientarli e aiutarli - in quella comunità che è la classe - nel processo in cui, attraverso lo stabilirsi di determinate relazioni con un certo tipo di sapere o di conoscenze, essi vanno costruendo e vanno sviluppando la loro soggettività autonoma, emancipata, liberata, critica, creativa, solidale…

Non si tratta, nell'educazione, di apprendere ciò che già si sa (cioè apprendere filosofia, matematica o storia), ma di apprendere (riuscire) ad essere uomini (cioè a realizzare le attività proprie degli uomini di una certa cultura; piantare, cacciare, danzare, cantare; in una lista più occidentale o estesa: parlare, leggere, scrivere, discutere, pensare, interagire, desiderare, sentire, godere, soffrire, utilizzare strumenti, e così via: conoscenza, sentimento, volontà, azione,…) attraverso le attività educative (trasmissione di conoscenze, valori, sensibilità, atteggiamenti, attitudini, posizioni, movimenti, e così via).

Non si tratta di insegnare filosofia (né matematica, informatica, e così via) ma aiutare a sviluppare un determinato tipo di azioni, sensibilità, valori, desideri…

Non trattandosi dell'insegnamento della filosofia, ma di apprendere a filosofare, la questione didattica cambia di senso: non va dal contenuto (per esempio, certi sistemi filosofici o la loro storia) ai modi in cui presentarli agli allievi, ma si tratta di risvegliare un atteggiamento filosofico, di fare filosofia, attraverso i contenuti, attraverso le metodologie e tecniche impiegate, ed anche attraverso lo sviluppo di atteggiamenti e procedimenti propri della filosofia e degli sforzi per filosofare in aula.

 

1.

Una didattica del filosofare non deve essere concepita come un tipo di didattica, ma come un modo specifico di filosofare.

Si tratta di filosofare educando, di filosofare facendo filosofare, di fare filosofia aiutando a filosofare, di filosofare in gruppo. Si tratta di educare alla filosofia filosofando con i bambini, con i giovani, con gli adulti, con i vecchi, con i filosofi "professionisti", con gli studenti di "filosofia", coi "non-filosofi"… E filosofare con le persone, ma anche con i gruppi; in aula e fuori; nelle circostanze formali dell'educazione e in quelle informali; comprese le circostanze che si presume non siano educative o filosofiche, ma che in realtà sono sempre educative e filosofiche (non dovremmo forse pensare come educativa e filosofica la sconsolata conversazione di un condannato a morte, al momento dell'esecuzione, e il suo ricordare un debito non pagato?)

Fare filosofia è sempre una attività con altri. Anche (e talvolta paradigmaticamente) nella meditazione solitaria è presente l'altro. E dunque filosofare è una azione relazionale, transitiva: attraverso di essa si costituiscono, di riformulano, si trasformano le relazioni.

Per questo è sempre una attività in un ambito determinato. In un gruppo umano specifico, con i propri modi peculiari di relazionar(si).

Quindi filosofare è una attività che si realizza in una determinata cultura, popolo, epoca; è resa possibile e regolata dai modi propri di relazionar(si) di questa cultura, popolo, epoca; essa va oltre i luoghi comuni (e anche se li trasforma, lo fa a partire da essi).

Ma filosofare è una attività concreta che si fa sempre in ambiti piuttosto precisi e determinati: in un'aula, in un "café filosofico", in una comunità di ricerca, in una scuola di educazione popolare, in un gruppo di amici, passeggiando sulla riva di un fiume, in una assemblea, in famiglia… Forse è possibile educare filosofando in televisione, senza dubbio è possibile farlo a distanza. Non mi sembra che vi siano limiti agli spazi possibili per filosofare. Ciascuno spazio genera un proprio stile, delimitato, intrasferibile altrove. Ed anche piuttosto irripetibile, instabile, cangiante.

Educare filosofando (o filosofare educando) è possibile dunque in un popolo (tradizione, cultura, epoca, e così via) ma con la mediazione dei diversi spazi relazionali concreti. In essi si esprime il filosofare proprio di ciascun popolo (con le sue differenze "interiori") e a partire da questo si vanno aprendo (o chiudendo) spazi di relazione con altre culture, spazi di dia-logo inter-culturali. Per esempio, abbiamo ascoltato qui parole provenienti da una tradizione e abbiamo ascoltato parole provenienti da altre. E persino all'interno di una cultura che ci è più o meno comune, abbiamo potuto notare delle differenze.

Tuttavia, mi sembra che l'attività filosofica del maestro consista nel generare, o nel dare potere all'altro: il che vuol dire anche renderlo responsabile. In questo consiste la fecondità, l'attività di "produrre" la capacità di pensare, di dire e di attuare, che implica la realizzazione di pensieri, parole, azioni differenti da quelle del maestro, che sfuggono ai suoi desideri e al suo "controllo". […] Desiderare che un altro pensi, dica e faccia ciò che desidera, non è un desiderio da poco.

 

2.

Per questo mi interessava riflettere con il maestro vivo. Può essere molto desiderabile quella forma debole di eternità che è la continuità della vita del maestro nella vita del discepolo, come quella del padre nel figlio. Questa forma, però, da un lato implica una certa dose di desiderio di dominazione sull'altro, d'altro lato presuppone che il maestro sia morto. Come se si potesse fare progredire l'allievo in filosofia solo se il maestro fosse morto, come se si potesse avere un solo maestro adesso e nella continuità del tempo, come se il maestro fosse necessariamente più grande dell'allievo, come se il maestro non fosse, a sua volta, discepolo del suo discepolo, come se si credesse impossibile la convivenza nel momento stesso in cui si sta convivendo, come se fosse impossibile la discussione filosofica, come se fosse impossibile l'eguaglianza tra gli uomini, come se fosse impossibile ogni comunità di apprendimento e di ricerca, come se ogni incontro o ogni conversazione fosse un simulacro della vita, come se si potesse avere vita e azione solo con la morte dell'altro, come se in questa azione post mortem gli allievi dipendessero dal maestro:

"Critone: “In che modo desideri che noi ti seppelliamo? ”
Socrate: “Come volete, se riuscirete a prendermi e io non scapperò. ”
E sorridendo dolcemente mentre guardava verso di noi disse: “Non riesco, amici miei, a convincere Critone che sono io il Socrate che parla con voi e che pone in ordine ciascuno dei suoi argomenti; lui s'immagina che sia quello che vedrà morto tra poco e mi domanda come deve seppellirmi”
" (Platone, Fedone 115c).

In ciascuna classe, in ciascuna comunità, c'è qualcuno di noi; c'è il maestro vivo, il filosofo vivo, che vuole porre in movimento i suoi allievi, ma senza che questo implichi né il dominarli né il morire.

Ciascuna lezione di filosofia cerca di provocare una scossa nei ragazzi, "aprire loro la mente", spezzare le loro certezze e provocare i loro dubbi, rompere le loro verginità, far perdere loro irreparabilmente l'innocenza e il candore. Ciascuna lezione di filosofia esercita violenza per produrre nell'altro un movimento. Un movimento verso … l'imprevedibile. Implica passione (nel senso della volontà e nel senso dell'amore) filosofica che, poiché cerca la saggezza, la mette in discussione, la incalza costantemente, le resiste, la obbliga a cambiare.

Ciascuna lezione di filosofia è una forma di convivenza tra maestro e allievi. Poiché è vita, è movimento; è un pathos comune, un reciproco movimento. Il pathos è la vita della lezione di filosofia; senza pathos non c'è vita in aula.

Credo allora che sia concepibile che si possa destare gli allievi nell'ultimo inocntro, quando il maestro fa il movimento definitivo: passare alla inamovibilità ("Teneva gli occhi fissi", Fedone 188) o andare verso la "felicità dei beati" (Fedone 115d). La scena, d'altra parte, è sempre commovente. Credo anche possibile - è nella esperienza di tutti noi - commuovere al primo incontro, quando il professore comincia il movimento filosofico capace di meravigliare i partecipanti. Posso poi concepire il rinnovarsi di questo momento in determinate circostanze speciali […] o quando accadono avvenimenti esterni che scuotono preannunciando una fine (un incidente che mette in pericolo di vita un compagno del gruppo, la morte inattesa del bambino di una allieva, il suicidio di un giovane). Il pathos può tuttavia nascere in questi incontri ben riusciti […] ma non sappiamo spiegare bene il perché: alcune volte nasce da una attenta pianificazione, altre da una felice improvvisazione, altre dall'intervento imprevisto di un partecipante.

Ma la vera sfida per tutti noi professori di filosofia è creare il pathos nella routine. Perché la meraviglia è un'emozione immobile anche se immobilizzatrice, una turbolenza interiore che crea attesa, una inazione, un ozio carico di tensione. Quando si muta in movimento, in azione, quando comincia ad essere piano, progetto, proposta, quando comincia ad acquistare continuità, quotidianità, routine, sembra sparire il momento filosofico e nascere una nuova saggezza, che può essere fatta di crescita, progresso, acquisizioni sicure, constatabili e perfino misurabili; può essere fatta di risultati e di pienezza; ma vi sarà abitudine, assuefazione, routine, invecchiamento, sclerosi.

Di fronte a questa già vecchia saggezza ricompare l'atteggiamento filosofico del ri-muovere. Il problema mi pare che non sia quello di meravigliare continuamente, ma di educare alla meraviglia. Non è che tutte le lezioni siano "come la prima" o come "la meglio riuscita", ma riuscire a introdurre nella routine della lezione dei cambiamenti di ritmo e, soprattutto, generare negli allievi un atteggiamento di attenzione, di problematizzazione, di cambio di prospettiva; uno sguardo insoddisfatto, indagatore, perspicace. Il corso deve essere vivo perché si riesca a risvegliare e a rinn9ovare nei giovani un atteggiamento filosofico.

 

3.

Si tratta di aiutare a sviluppare determinati tipi di azione che abbiano a che vedere con il filosofare, il che implica il pensare in un senso molto ampio che passa attraverso l'educazione alla sensibilità, ai desideri, alle valutazioni…

Tra le attività proprie del filosofare che "devono" realizzarsi nelle classi di filosofia vi sono al meno le seguenti.

Attività di sensibilizzazione

Non si tratta di giochi didattici per motivare studenti annoiati. "Sensibilizzare" significa far sentire. Ha a che vedere con quello che i Greci chiamavano pathos, che potremmo tradurre con passione nel doppio senso di patire e di appassionarsi; di soffrire e di entusiasmarsi. Questo suppone una dinamica che incrocia due aspetti.

a) Com-passione, cioè passione in comune. Imparare a lasciarsi colpire da un altro. Vivere la passione di un altro; convivere appassionatamente. Sentire, soffrire, godere, desiderare, nutrire speranze, amore, con altri. La commozione che è alle origini dell'atteggiamento filosofico si fonda sulla compassione (ricordiamoci nuovamente del Fedro); in modo che la compassione risulta una condizione necessaria al filosofare.

La com-passione è strettamente legata all'idea di solidarietà: sentirsi, sapersi "uno solo" con gli altri; avvertire il legame delle nostre vite e dei nostri destini non solo con tuta l'umanità, ma anche in un ampio senso "ecologico". Lascia però anche spazio ai vincoli particolari con altre persone, con la comunità dell'aula e con le altre comunità. Sentire le passioni degli allievi; far sentire loro le proprie passioni. Soprattutto farli appassionare alla filosofia. Per esempio, ho visto il prof. Rolando Ojeda appassionarsi e far appassionare i propri discepoli discutendo con Epicuro. Ho visto altri condividere la passione con Popper, o Marx o Sant'Anselmo. Ho visto altri avvilirsi e annoiarsi con Freud o con Aristotele, con Wittgenstein o con Epicuro.

Sotto questo aspetto dobbiamo sottolineare l'importanza della compassione latinoamericana, come commozione specifica da cui nasce quel particolare stupore che dà origine al nostro filosofare. La scopriamo in un altro corpus che non è quello della tradizione "occidentale"; la scopriamo nella fame, nelle culture "in via di estinzione", in tutti i desaparecidos della nostra storia, nella esclusione che non dà futuro, che ci pone davanti ad una specifica compassione. La passione comune latinoamericana è capace di aprirci ai sentieri della filosofia. Ponendoci nella specificità della tradizione occidentale che è nota come "filosofia" non ci allontaniamo dai nostri affetti, problemi, sofferenze? non ci allontaniamo dal nostro corpo? Lo stupore (intellettuale, ma basato sulla compassione) latinoamericano, non significa scoprire un altro corpus diverso da quello della storia della filosofia? Non c'è quel che chiamiamo "morte della filosofia" agli albori del filosofare latinoamericano? Non dobbiamo riconoscerlo come un altro soggetto? E in una situazione come quella brasiliana, in cui vi sono difficoltà ad ottenere uno spazio formale per l'"insegnamento della filosofia", il filosofare non dovrebbe rinascere in modo diverso? Se esigiamo una filosofia "per tutti"; se questo implica un corpo comune dei popoli latinoamericani; se si tratta di realizzare la democrazia come potere del popolo; allora, esigere la filosofia per tutti è responsabilità del popolo (non solo della istituzione "scuola"), aprire spazi per filosofare, non come "obbligo", ma come liberazione.

 

b) Dia-pathos

Vi sono distinte sensibilità. Da un lato è necessario riconoscerle per non chiedere a tutti di avere gli stessi gusti; d'altro lato, è necessario risvegliare o sviluppare o rivitalizzare in ciascuno una delle diverse sensibilità. O almeno la capacità di riconoscerle e valorizzarle.

Nell'aula di filosofia si dovrebbe approfondire, sviluppare o fare scoprire le capacità di ciascun "senso": vista, udito, gusto, olfatto, tatto. Lavoriamo con elementi intangibili e invisibili; tuttavia la vista è il referente fondamentale della teoria. Per questo è necessaria una revisione: "vedere" tutto dall'altra parte, "vedere" il rovescio della trama, porsi da un altro "punto di vista", studiare i limiti del visibile (cosa che include la limitazione del "vedere" l'invisibile con i criteri della visibilità). Imparare ad ascoltare, a sentire gli altri, ad ascoltare se stessi, a valutare i suoni, la musica, i rumori, i silenzi. L'ascolto è particolarmente collettivo ed è legato alla parola, al ritmo, all'armonia, e suppone una forma specifica di apertura. Sentire e differenziare i sapori e gli aromi, valutarli e relativizzarli, mescolarli e dosarli, presuppone lo sviluppo delle capacità di sottigliezza e perspicacia fondamentali per pensare. Al "tatto" si lega la maggior passione e la maggior delicatezza. Nell'aula di filosofia si deve "sentire" il corpo: il suo star bene o il suo star male, la sua posizione, il suo movimento, la sua energia. Insomma: si tratta di studiare le molteplici vie e dimensioni in cui si entra in relazione con se stessi, con i dettagli più vicini, con l'universo, con ciascuno degli altri. Questo permetterà anche di riposizionarsi, di creare movimento.

 

 

Attività di valorizzazione
Con-ethos e dia-ethos

Mi sembra importante (e non esattamente facile) favorire lo sviluppo della coscienza dell'ethos in comune, sulla base di quanto abbiamo già detto. In qualche modo l'appartenenza al mondo latinoamericano o a ampie comunità linguistiche o culturali sta dietro questo. Però l'attuale frammentazione culturale e dell'ethos ("crisi dei valori", e così via) che attraversa le nostre società, l'ostentazione di un certo ethos globale diffuso massicciamente attraverso i media e già fatto proprio dai nostri giovani, la differenza generazionale e di posizione sociale tra professori e allievi e la diversità di giudizi precostituiti che ciascuno porta in aula, obbligano a partire da una grande diversità. In modo tale che l'ethos minimo in comune necessario perché l'aula possa funzionare come comunità è più una costruzione che un dato. La difficoltà è data dal fatto che va costruita la condizione del funzionamento minimo. E quindi il lavoro in aula deve essere concepito sulla base delle risorse.

L'ordine della mia esposizione ha il solo scopo di sottolineare differenti aspetti: nella pratica gli elementi distinti interagiscono e si mischiano; non mi azzardo a dire "dialetticamente", ma sono comunque in interrelazione.

Il lavoro a partire da differenti valorizzazioni è fondamentale, così come il potersi "elevare" a poco a poco dall'apprezzamento alla stima, alla valutazione, alla decisione e all'azione.

 

Attività di riflessione

Le attività fondamentali sono quelle che hanno a che vedere con il "logos in comune" e con l'avanzamento attraverso diversi logos (dia-logos)

Si tratta di riprendere riflessivamente gli elementi indicati prima. Incluse, per esempio, la ri-flessione (critica e autocritica); individuale e di gruppo; su fatti e azioni propri e altrui; su "teorie", e su concrete pratiche; sulla propria attività di lavoro, sulle proprie potenzialità e i propri limiti.

In questo campo, le attività più classiche dell'insegnamento della filosofia riprendono la loro importanza e si rinnovano. La lettura filosofica di testi non filosofici (che devono comprendere "lettura di immagini" e perfino "lettura di tutto" - nel senso in cui Eraclio Zepeda attribuisce a don Valentin Espinoza l'abilità di legger tutto, meno i libri -) e dei testi filosofici, permettendo la riflessione su pathos, ethos e logos nel passato, nelle diverse realtà, nell'immaginario. La discussione filosofica, con con tutto quello che implica di conoscente teoriche e attitudini e abilità pratiche riferite all'argomentazione, che è forse l'attività più caratteristica della lezione di filosofia. La produzione filosofica (non solo scritta, né riferita esclusivamente a un modo determinato di scrittura) tanto individuale quanto di gruppo.

[Traduzione di M. Trombino]