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Comunicazione Filosofica n. 8 - febbraio 2001

 

Stefano Bucciarelli

Identità e alterità: percorso tematico nella filosofia del '900

 

Allo stato attuale è come se ci fosse uno scarto tra il soggetto e l’oggetto […] Il senso di questo scarto è la necessità, per l'uomo occidentale, di rifondare la propria soggettività lasciandola interagire con le soggettività altre dalla sua che, ridotte a oggetto di dominio o di indagine erudita, erano restate senza parola, senza nessuna possibilità di aprire, dentro le maglie del grandioso monologo che si chiamava civiltà, uno strappo che interrompesse la sicurezza, ispirasse la perplessità e finalmente rendesse possibile il dialogo.

(Ernesto Balducci, La terra del tramonto)

 

Presentazione

Questo percorso tematico scaturisce dalla esperienza condotta in una terza classe del Liceo classico «G. Carducci» di Viareggio, una sperimentale “Brocca” ad indirizzo classico, giunta all’Esame di Stato nel 2000. L’ “area di progetto” era appunto intitolata ad “identità ed alterità”.

La proposta era stata anche presentata, all’inizio dell’anno ad un corso di aggiornamento per docenti, i cui atti sono stati ora pubblicati a cura degli organizzatori (Casa editrice Le Monnier - ITIS “G.Galilei” Viareggio, Conoscere il Novecento. Storia - economia - cultura, Firenze, dicembre 2000). Svolgendo in quella sede uno spaccato della proposta, in forma di laboratorio didattico, si propose di assumere come testo di riferimento R. Bodei, La filosofia del Novecento (Donzelli editore, Roma 1997). Il testo presenta una serie di “quadri concettuali”, nessuno, per altro, esplicitamente intitolato ad “identità ed alterità”; ma, attraverso di essi, questo tema ci è sembrato correre come un filo continuo. Ciò spiega i frequenti rimandi a quest’opera.

La proposta può essere gestita a livello didattico come modulo autonomo, ed in questo senso è organizzata la nostra presentazione. Non si possono però escludere modalità diverse di realizzazione. Proprio nel nostro caso, appunto, il percorso si è dislocato lungo tutta l’attività didattica dell’anno, accompagnando il lavoro della classe con “tappe” che si sono variamente inserite, anche prospettando aperture multidisciplinari, entro una programmazione che, in accordo con i programmi Brocca, prevedeva per la filosofia quattro autori (Marx, Nietzsche, Bergson, Heidegger) e tre nuclei (Positivismo e Neopositivismo, Filosofia e Scienze Umane, Sartre e l’Esistenzialismo).

Ecco allora l’articolazione (una possibile) degli specifici segmenti di lavoro:

- nella fase iniziale, il nucleo concettuale del lavoro funziona come stimolo e proposta ad una rivisitazione del programma svolto negli anni precedenti (Motivazione e Quadro di riferimento);

- il primo segmento (Identità aperta) sviluppa il discorso iniziato con lo studio di Nietzsche e Bergson, riconnettendovi aspetti delle proposte tra Otto e Novecento investigate anche nell’insegnamento di storia;

- La scoperta dell’altro è il motivo di fondo del modulo sulle “scienze umane” (qui, la psicanalisi e l’antropologia culturale);

- Lo sguardo dell’altro affida ai moduli su Heidegger e sull’ Esistenzialismo una serie di stimoli per l’indagine e proposte di lettura;

- La negazione dell’altro si sviluppa soprattutto in rapporto con la valutazione dei totalitarismi e dunque propone stimoli da approfondire in relazione allo svolgimento del programma di storia;

- l’ultimo segmento (L’identità molteplice) svolge una riflessione sulla attualità della questione, e si propone come base per una discussione conclusiva e per approfondimenti individuali.

 

Motivazione

Il fattore motivante fondamentale è senz’altro il riferimento all’attualità del problema.

La “globalizzazione” in atto nel mondo uscito dalla guerra fredda ci pone di fronte ad un nuovo universalismo che implica, certamente, livelli di comunicazione e circolazione mai raggiunti in precedenza, ma anche, contemporaneamente, poderose spinte all’omologazione culturale (così evidenti, per esempio, nella diffusione dei consumi). È pur vero però che, in questa realtà, anche le differenze emergono con particolare forza: per le stesse dinamiche demografiche, per la rinnovata attenzione culturale ai diritti dell’alterità, anche per il preoccupante sviluppo di particolarismi e di fondamentalismi.

Concepire la propria identità sempre più implica far fronte a questa complessità e a queste contraddizioni, mentre ci si presenta “il compito ciclopico, ma irrinunciabile, di provare a intrecciare pazientemente nella «corda» dell’umanità (che risulta tanto più robusta, quante più storie parziali riesce a connettere tra loro) tutte le varie differenze, senza proporsi di ignorarle o di azzerarle” (Bodei 1997, p.175).

 

Quadro di riferimento

Si ritiene opportuno, all’inizio dell’ultimo anno di corso, spingere gli allievi a riconsiderare il percorso di storia della filosofia compiuto dalle origini fino alle soglie del XX secolo alla luce del nostro problema: ciò ci pone di fronte ad ipotesi alternative

La prima è quella certezza universalistica che si è venuta strutturando con la stessa cultura occidentale, che pone la ricerca del concetto (appunto, dell'universale), come l'obiettivo e la realizzazione dell'ideale conoscitivo e che fa nella comprensione della essenza dell'uomo il nucleo di ogni ricerca sulla virtù, da Socrate in poi. Oggi è facile sottolineare che la contraddizione propria di ogni universalismo consiste proprio nel concludere la ricerca circa l'essenza umana su un uomo ideale, formato da un insieme di valori e caratteristiche troppo simili a chi le descrive. Il pregiudizio etnocentrico nasce dunque con la stessa cultura occidentale, nella quale un’identità molto forte, un senso di appartenenza esclusivo ed orgoglioso, si contrappone storicamente a chi, fin nell'antichità è visto come straniero, diverso, “barbaro”, aristotelicamente schiavo per natura.

In età moderna, questa ricerca, volta ad individuare un concetto di natura umana tale da proiettare su tutti gli uomini (tutti coloro che possano dirsi tali) caratteri supposti come universali, non è va disgiunta da una sottolineatura della centralità dell'individuo.

Il cogito di Cartesio assume proprio l'assoluta antecedenza del soggetto individuale rispetto ad ogni altra affermazione. L'esperienza della diversità e della variabilità umana lo fa concludere che tutti i costumi, tutte le culture appaiono insufficienti per conoscere la profondità umana. La scoperta di questa è affidata invece a noi stessi, alla certezza del cogito. È la ragione umana che ci dà la sicurezza per distinguere il vero dal falso e la razionalità dalle superstizioni culturali: quel bon sens che è la cosa meglio ripartita nel mondo, patrimonio universale di tutti gli uomini.

Su questa traiettoria, è facile ritrovare le affermazioni del giusnaturalismo sull'eguaglianza naturale degli uomini, dell'illuminismo sul comune ideale di ragione, fino alle conseguenze rivoluzionarie che, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino, giungono ai nostri giorni.

Si può riflettere a posteriori sugli aspetti ambivalenti di questo universalismo, a volte dottrina rivoluzionaria, a volte schermo di istanze imperialistiche, a volte entrambe le cose insieme; il postulato dell'unità della specie umana è una sua conquista, ma esso non può rappresentare un alibi per appiattire il patrimonio rappresentato dalla varietà delle culture umane, pena la ricaduta in quella sorta di peccato originale che è l'etnocentrismo.

È da questi problemi che si generano le ragioni del relativismo, la seconda polarità continuamente presente nella cultura occidentale, spesso come contraltare critico alle certezze proclamate con maggior perentorietà.

È la stessa civiltà greca che, al culmine delle orgogliose conquiste del suo pensiero, ci offre con i Sofisti il primo esempio di “relativismo culturale”, come riconoscimento della disparità dei valori che presiedono alle diverse civiltà, alle diverse culture umane. Questa tematica del riconoscimento della differenza, riemerge prepotentemente in età moderna, allorché l'Europa “scopre” il mondo. Cose e uomini mai visti entrano nella esperienza e nella coscienza dell'Occidente, per effetto così della rivoluzione scientifica, come dei grandi viaggi. La riflessione sui “selvaggi” alimenta fino a tutto il '700 una discussione sull'uomo, sul suo vivere sociale, sul suo rapporto con la natura. La constatazione dell'esistenza di popoli differenti, le riflessioni innescate dal confronto, l'esperienza della diversità coinvolgerà la riflessione di tutti i grandi filosofi, come dimostrano le figure del “virtuoso persiano” di Montesquieu, del “tollerante cinese” di Voltaire o del “buon selvaggio” à la Rousseau.

Ma già appena dopo la conquista dell'America, nello scontro tra due grandi tradizioni del pensiero occidentale, quella gerarchica, di origine aristotelica, rappresentata dall'umanista spagnolo Juan Ginès de Sepùlveda e quella egualitaria, di origine cristiana del domenicano Bartolomé de Las Casas, una terza posizione fu formulata, nell'ambito di un’istanza scettico-relativista, da Michel de Montaigne: non è lecito adottare un punto di vista cristiano ed europeo nel giudizio su popoli diversi; è insensato definire barbaro ciò che non corrisponde ai nostri costumi.

Ogni pretesa universalistica sembra abbandonata, tutti i giudizi appaiono relativi. Su questa impostazione e sul celebrato atteggiamento di “tolleranza” che ne consegue, si può tuttavia essere parimenti critici che nei confronti di un atteggiamento universalistico. Si può infatti osservare la connessione tra un atteggiamento di tolleranza e uno di sopportazione: tollerare dunque, come tollere (cui è etimologicamente connesso), ossia togliere, annullandone la rilevanza, quella differenza che ha creato il problema; divenire cioè in-differenti, se non cinici o nichilisti (se ogni valore è buono in sé, tutto va bene, o nulla va bene). Il relativismo culturale portato alle sue forme estreme si rovescia nell'incomunicabilità.

Nasce quindi l'esigenza di prospettare una cultura del dialogo, cercando anche in questa terza istanza di rinvenire in grandi esperienze di pensiero gli stimoli giusti.

È noto che l'esigenza dialogica si trova alle origini della stessa filosofia; per buona parte del pensiero antico, il discorso filosofico si esprime in modo privilegiato nel dialogo, dato che questo discorso non è prodotto dal filosofo per se stesso, ma scaturisce da un incontro, da una conversazione, da una discussione tra persone associate dal comune interesse per la ricerca. L'impostazione “maieutica” di Socrate, la diffidenza di Platone verso i discorsi scritti, ne sono la testimonianza.

L'esigenza del dialogo accompagna la ricerca filosofica in età moderna, epoca in cui si riconnette, come si è visto, all'idea di tolleranza, che non necessariamente si identifica con la mera sopportazione dell'altrui punto di vista, potendo ben altrimenti valere come riconoscimento della sua pari legittimità e buona volontà di intenderlo nelle sue ragioni. Tra i numerosi esempi di questa disposizione (dalla novella delle “tre anella” ripresa da Boccaccio all'elogio della pazzia come positiva diversità in Erasmo), soffermiamoci sulla filosofia di Spinoza (oltre che sulla sua peculiare esperienza di “diverso”: rampollo di una famiglia di ebrei fuggiti dall'Inquisizione iberica, ebreo nella calvinista terra di Olanda, fu scomunicato dalla sua stessa Sinagoga): l’amor intellectualis gli fa intuire Dio dovunque e lo porta a capire che esso “inabita” in ogni persona; ognuno è parte, nella sua diversità, anche in quella apparentemente più spregevole, di un ordine universale.

Certamente queste certezze metafisiche non sono più condivise dalla cultura contemporanea. La riscoperta che qui si compie dell'esperienza del “diverso” (e qui sta l'elemento di rottura con tutta la precedente tradizione di pensiero) si svolge invece proprio a partire da una crisi verticale delle proprie certezze tradizionali: l'“io”, la coscienza, Dio, la posizione dell'uomo nel mondo.

Crollato il cartesiano presupposto ontologico della autosufficienza della coscienza, l'idea, propria delle filosofie “monologiche”, che l'“altro” possa essere inteso a partire da un “io”, magari come sua proiezione all'esterno, come un altro io, si rovescerà: solo in rapporto ad un tu, la persona si potrà scoprire come un io.

Ma intanto, il segno prevalente nel passaggio tra ‘800 e ‘900 è quello della crisi dei tradizionali presupposti identitari, della crisi dell’Occidente, della crisi dei modelli della razionalità classica. Su questo nodo (su cui non ci diffondiamo, essendo ormai divenuto senso comune nella didattica corrente dell’ultimo anno di corso superiore) terminano le premesse del nostro itinerario.

 

Il percorso

Esso consiste, come si è detto, in cinque tappe, lungo le quali riscontrare come i temi che abbiamo introdotto siano stati declinati in esperienze significative nello scorso secolo.

Per ognuna di esse, si propone una scelta di testi selezionati e tagliati con criterio didattico, la cui presentazione può essere considerata, ora parte integrante, ora approfondimento rispetto al programma di base.

 

1. L’identità aperta

In una crisi di valori conclamata a partire da F.W. Nietzsche, in un universo in perenne movimento, le tradizionali categorie appaiono inadeguate; sembrano condurre all’inerzia, alla passività, alla ripetizione. L’identità quindi non può più essere interpretata come un dato; essa va ricomposta, ristrutturata, ridisegnata di continuo, giocata “senza rete”.

Si danno a considerare in questa prospettiva: H. Bergson, il cui élan vital è spinta verso un’imprevedibile evoluzione, sortita creativa; G. Sorel, secondo il quale il mito non è “ancorato ad alcuna prova di realtà o di coerenza logica, ma solo alla coerenza fantastica, al rispetto dei desideri di riscatto, delle passioni, delle aspirazioni e delle lotte delle moltitudini nell’imminenza di radicali mutamenti” (Bodei 1997, p. 27); G. Gentile, con la sua interpretazione attivistica del marxismo che giunge all’atto come creatività infinita del pensiero pensante; A. Gramsci, che ne La rivoluzione contro il Capitale accoglie come insegnamento dell’esperienza leninista la non linearità del processo storico; E. Bloch, il cui marxismo è scienza della speranza che eredita tutti i tentativi di attribuire dignità all’uomo, di riscattare “quanto nell’uomo è sempre stato represso, mutilato, umiliato” (Bodei 1997, p. 77) (Testo A).

 

Possibili riferimenti interdisciplinari appaiono acquisibili percorrendo l’esperienza delle avanguardie artistico-letterarie; o esplorando la peregrinazione di Joice nella disgregazione della coscienza; ma anche retrocedendo all’esperienza “capovolta e malinconica” di Proust: “arroccarsi all’interno dell’ultima fortezza della coscienza individuale, dove si è accumulato quello che si è potuto salvare dalla reificazione, dove si celebra il corroborante rito di rammentarsi del proprio io” (Bodei 1997, p. 19).

 

2. La scoperta dell’altro

Centrale in questa crisi delle certezze della cultura occidentale è di nuovo l’irruzione di mondi “altri”. Nei loro confronti sono sempre più labili i classici “confini”: noi-loro, civili-selvaggi, uomo-natura, soggetto-oggetto, ragione-passione. Si scopre gradualmente che l’altro è specchio dell’io, anzi l’altro sta dentro lo stesso soggetto: “Io è un altro” (Rimbaud).

Diamo per scontato il contributo in questa direzione della psicoanalisi, l’opera del cui fondatore è normalmente oggetto di studio particolare. Con S. Freud, la diversità si manifesta addirittura dentro di noi: “all’interno dello spazio psichico abbiamo uno scontro e una intersezione di meccaniche pulsionali e di piani logici differenti…anche nell’uomo, per così dire, esistono piani non euclidei…spazi dell'Es strutturati secondo assiomi diversi da quelli dell’Io e del Super-io” (Bodei 1997, p.46).

Semmai pare il caso di sottolineare l’importanza, per il nostro discorso, di due, variamente connessi, percorsi di ricerca in psicologia. Il primo è la psicologia evolutiva di J. Piaget, nella quale la “diversità” dell’infanzia, anzi dei vari stadi di sviluppo dell’intelligenza infantile, si connota nella sua autonomia.

Il secondo è rappresentato dalle nuove direzioni intraprese dalla psichiatria, nell’incertezza dei confini tra normale e patologico: così in K. Jaspers, la cui attività di psichiatra precede quella di filosofo esistenzialista. Nella sua Psicopatologia generale (1913) assistiamo alla critica delle interpretazioni organiciste della malattia mentale (non c’è il “bacillo della follia”, né una base neurofisiologica), nonché alla critica di un modello di “spiegazione” oggettivante: oggetto della psicopatologia non è una malattia, ma un individuo la cui esperienza va “compresa”, un portatore di un progetto di esistenza la cui “incomprensibilità” va sondata come cosa non estranea (Testo B).

Un dibattito parallelo anima l’antropologia culturale. In questo contesto sembra utile proporre un tracciato che muova dall’idea positivistico-ottocentesca di un cammino evolutivo dell’uomo destinato ad attraversare una serie obbligata e unilineare di tappe (L. H. Morgan), per approdare a quella distinzione tra primitivo e moderno posta in termini di “mentalità” da L. Levy-Bruhl: la mentalità dei primitivi (di cui egli ha pur, inizialmente, sottolineato il carattere pre-logico) non deve essere interpretata come “una forma rudimentale della nostra, come infantile e quasi patologica”; essa apparirà, ad una “osservazione partecipante”, “normale nelle condizioni in cui essa si esercita, come complessa e a suo modo sviluppata” (La mentalità primitiva) (Testo C).

Più radicalmente, F. Boas, rifuggendo dalle “grandi teorizzazioni” (soprattutto da quelle positivistico-evoluzionistiche, teoriche arbitrarie ed etnocentriche), afferma di partire concretamente e positivamente da un’“area di cultura”, delimitata spazio-temporalmente e caratterizzata da reperti omogenei, da studiare storicamente. È il dettame del “particolarismo storicistico”.

All’opposto, lo strutturalismo afferma che esistono costanti universali delle società umane: le relazioni fra quelle differenze così esaltate da Boas, l’invarianza nascosta delle relazioni intercorrenti tra variabili. Con questo metodo C. Levi-Strauss ritiene di poter isolare quelle che chiama “strutture dello spirito umano” o “inconscio”.

È più recentemente con C. Geertz, che si cerca di superare le idee contrapposte della identità e sovrapponibilità delle culture umane da un lato e della loro incommensurabilità completa dall’altro, in nome della fondazione di una piena, reciproca discorsività (Testo D). L’uomo è un “animale impigliato” in sistemi di simboli, in “reti di significati” (le culture); e lo sono anche coloro che studiano questi sistemi: gli antropologi, che trasferiscono più o meno consapevolmente gli schemi della loro cultura nella analisi di quelle arcaiche, o primitive, o esotiche. L’antropologia è dunque interpretazione di interpretazioni; suo scopo è l’ampliamento dell’universo del discorso umano (Verso una teoria interpretativa della cultura).

Per vie analoghe, Francesco Remotti (Noi primitivi) vede l’antropologia come una “via esterna” alla saggezza. L’antropologia non “studia i primitivi”, ma esplora gli “altri”; il suo risultato più nobile è l’integrazione degli altri in un “noi” che inevitabilmente e proprio per questo si modifica e che anzi, attraverso l’antropologia, si dichiara disposto a modificarsi.

 

Tra i numerosissimi, possibili riferimenti interdisciplinari (dal rapporto tra letteratura e psicanalisi in scrittori come Svevo, all’importanza del primitivismo in esperienze pittoriche come quelle di Gauguin) indichiamo due novelle di Pirandello: Moscarda, un’identità che si struttura in rapporto allo sguardo dell’altro; La prova, l’incontro tra due novelli missionari e due orsi, leggibile in chiave antropologica.

 

3. Lo sguardo dell’altro

Dove il rapporto con l’altro diventa filosoficamente essenziale, ontologicamente costitutivo, è comunque in filosofie variamente e più o meno strettamente rapportabili all’esistenzialismo. Fermiamo la nostra attenzione su tre autori (indipendentemente dal loro rapporto con questo “movimento”).

Per M. Heidegger l’uomo è un ente (Esserci), individuo finito e irripetibile, progetto gettato nel mondo: è per sua natura progetto, essendo un ente caratterizzato in primo luogo dalla possibilità; è progetto finito che riceve significanza dal suo essere-per-la-morte.

Come ente, l’uomo sperimenta la differenza a due livelli. Nella “differenza ontologica” che lo oppone, nella sua finitezza e temporalità, all’essere. E, in quanto è nel mondo, nel suo essere così anche sempre con gli altri.

L’altro uomo (l’altro Esserci) è incontrato nel quadro dell’aver cura, che può dar luogo a possibilità diverse: dalla sottomissione dell’altro, all’aiuto dato all’altro a divenire libero e consapevole, capace di progettare se stesso nel modo dell’autenticità (Testo E).

Una sostanziale indifferenza sul piano dell’etica è l’accusa che a Heidegger rivolge E. Levinas, per il quale l’Altro non può essere semplicemente una libertà altra da me, un altro Io, bensì un irriducibilmente altro, come tale vicino a Dio, il totalmente Altro, più di quanto non lo sia io. L’alterità dell’altro, nella forma della opposizione del volto è una opposizione pacifica; la violenza consiste nel considerare lo sguardo per ciò che esso non è (Testo F).

Diversamente, per J. P. Sartre, la coscienza gettata nel mondo è strutturalmente condizionata da tutto ciò che la circonda: l’altro, il mondo, è l’antagonista, il pericolo, l’Essere-in-sé. La mia coscienza (Essere-per-sé) ci vive però dentro e sarebbe vuota e vana senza quello: lo sguardo dell’altro, oltre che perturbante, è la garanzia della mia esistenza. Oltre che in L’essere e il nulla, non è difficile trovare nell’opera letteraria testimonianze di questo carattere dell’esistenza: dal sentirsi “di troppo” del Roquentin de La nausea, al passo antologizzato da Il rinvio (Testo G).

La svolta “umanistica” del dopoguerra sarà per Sartre fondata sulla considerazione che proprio l’assenza di fondamenti o valori spinge l’uomo a costruire da sé i propri fini. E questa necessità che impegna l’individualità di ogni uomo, non vedrà più l’individuo “solo dinanzi alle sue scelte, isolato in un universo sociale essenzialmente ostile” (Bodei 1997, p. 134): la sua scelta sarà nel segno di un rapporto sociale, sia pure non necessariamente armonico (Testo H).

 

I più modesti riferimenti alle tematiche esistenzialiste che si accertano in Italia, non impediscono di poter contare su possibili rimandi a diverse esperienze letterarie, come quella di un Montale o di un Moravia.

In campo artistico, la pittura metafisica di De Chirico appare come testimonianza della impossibilità per gli uomini di sfuggire all’assurdità dell’esistenza.

 

4. La negazione dell’altro

L’annullamento della differenza come fattore di perturbazione rispetto all’affermazione di un Sé assoluto è carattere distintivo del totalitarismo. Per questo, attenzione particolare meritano nella nostra prospettiva, i suoi critici.

L’analisi del totalitarismo svolta da H. Arendt muove da premesse filosofiche più ampie. Delle tre attività che costituiscono la Vita activa, lavoro, opera, azione (labour, work, action), è quest’ultima “la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali”; perciò essa “corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo”. È la vita politica, la praxis, nella quale, come per gli antichi romani, il “vivere” si identifica con l’“essere tra gli uomini” (inter homines esse).

Della eclisse di questa dimensione è segnata la civiltà occidentale. I democratici, il sistema dei partiti degli Stati nazionali europei hanno coltivato l’illusione che “il popolo nella sua maggioranza prendesse parte attiva negli affari di governo” e che “le masse apatiche non contassero nulla”. Con ciò veniva nascosta la realtà degli esiti statalistici, amministrativistici delle rivoluzioni americana e francese che sono alle origini del sistema della democrazia moderna (Sulla rivoluzione). Il successo di massa dei totalitarismi ha segnato la fine di quelle illusioni (Le origini del totalitarismo) (Testo I).

Anche per T. W. Adorno, il totalitarismo è un sistema in cui vige la legge dell’unità, dell’eliminazione del diverso, del non compatibile col dominio; esso si inserisce in un cammino che ha visto l’umanità sempre sottomettere la naturalità, penalizzare le deviazioni, manipolare le coscienze: il livellamento coatto nazista, come la comunità conformistica americana (Testo J).

 

La questione dei totalitarismi è nodo storiografico di prim’ordine. Si può quindi evitare di produrre estesi rimandi. Segnalerei come punti da affrontare nel lavoro didattico: la discussione sulla efficacia euristica ed esplicativa, quando si debba applicarla a fenomeni storici anche abbastanza diversi, della categoria di “totalitarismo”, come emerge non solo dalla filosofia, ma, direi soprattutto, dalla sociologia (a partire da Friedrich e Brzezinski, Totalitarian dictatorship and autocracy, 1956); il confronto con la storiografia “revisionistica” (termine che sembra ormai inadatto a contenere contributi tanto diversi), da De Felice, a Mosse, a Nolte.

Le letterature, italiana e straniere, offrono numerosissimi e decisivi contributi. Basti citare P. Levi ed E. Canetti (Testo K), oltre che per gli aspetti di documentazione, per le riflessioni sui meccanismi di esclusione e di negazione dell’altro nel rapporto totalitario; per l’analisi sulle dinamiche stranianti che sovrintendono alle ambiguità della “zona grigia”, sui sensi di potenza e di colpa che caratterizzano l’angoscia del sopravvissuto.

Importante e nota anche la filmografia, da classici come Il dittatore, o Una giornata particolare, a più recenti prodotti sullo stalinismo, come L’uomo di marmo o La confessione.

 

5. L’identità molteplice

La cultura odierna sembra ormai porre sempre più spesso l’accento sull’improponibilità di ogni schema unificante, in sintonia con il progressivo svilupparsi di società pluralistiche in un mondo multipolare e con l’irruzione nella storia di soggettività diverse.

Tra i più significativi guadagni in questo campo realizzati negli ultimi decenni, c’è l’elaborazione di una filosofia della differenza sessuale: la sottolineatura della differenza di genere ha portato al riconoscimento della differenza come valore, così come, ad esempio, in L. Irigaray (Testo L).

Per altro, riconosciuta definitivamente la irriducibile parzialità del soggetto tradizionale, esplicitamente si ricercano nuovi fondamenti in una cultura del dialogo, ormai non più solamente inteso come metodo euristico, ma come il dato caratterizzante la nostra stessa esistenza. Un particolare contributo sembra giungere dall’ermeneutica. H. G. Gadamer (Verità e metodo) individua nel dialogo l’atto che produce la realtà: come nel rapporto tra testo ed interprete, come nel gioco, quello che conta è, in un’ottica accentuatamente anti-soggettivista, il quadro generale: quanto più un dialogo è autentico, tanto meno il suo modo di svolgersi dipende dalla volontà dell'uno o dell'altro degli interlocutori. “Capire significa provocare una «fusione di orizzonti», proprio perché la verità non è monologica, ma dialogica, perché non svela qualcosa che preesiste, ma il risultato dell’intendere e dell’interpretare in comune” (Bodei 1997, p. 156) (Testo M).

Si è già visto, presentando il discorso di Geertz, come l’antropologia culturale sia stata sul versante scientifico, la disciplina più pronta a cogliere le suggestioni ermeneutiche.

Nel contesto di siffatte interazioni, la molteplicità è ormai individuata come una delle caratteristiche proprie dell’individuo “post-moderno”, ed il discorso può essere accentuato ed interiorizzato fino a prospettare una identità mobile, cancellabile e riciclabile, provvisoria e nomadica (J.-F. Lyotard, La condizione post- moderna): quella del “tunnel di vetro” di Parfit (Testo N).

 

Per il valore della molteplicità in letteratura si potrebbe rimandare così alla peculiare esperienza di Pessoa (dei suoi “eteronimi”), come alla “molteplicità” di Calvino. Questi, nelle Lezioni americane, tessendo la sua apologia del romanzo come “grande rete” (da Flaubert a Joice e Proust; da Gadda a Quenau e Borges), a fronte del dubbio se in tali esperienze chi scrive si allontani dal proprio self, risponde: “Al contrario […] chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili” (Testo O).

 

Non si può negare che l’effetto liberatorio che ne consegue possa sollevare qualche preoccupazione circa la possibilità del prevalere di incertezza e disimpegno. Un poderoso antidoto è nell’affermazione del “principio responsabilità” (H. Jonas), che impone anzitutto una autoregolamentazione dei comportamenti in vista delle possibili, più o meno prevedibili, conseguenze sugli altri: “Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra” (Testo P). Così, “con una nota di sobria modestia, che insiste sul richiamo alla responsabilità nei confronti di un incerto avvenire e sull’urgenza di ripensare i limiti e i valori delle proprie ristrette tradizioni entro un orizzonte mondiale, sembra chiudersi la riflessione filosofica alla soglia del nuovo millennio” (Bodei 1997, p. 188).