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Comunicazione Filosofica n. 5 - maggio 1999

Michel TOZZI, Le café philosophique: un défi pour la pensée?, Communication à la Biennale de l’Education et de la Formation 1998, in "ARPAD" (Association pour la Recherche en Didactique de l’Apprentissage du Philosopher), n. 11, mars 1998.

 

Michel TOZZI

Il caffè filosofico: una sfida per il pensiero?

  • Sulla scena della mediatizzazione, la filosofia è alla moda, in particolare nella forma del caffè filosofico. Oltre al giornalista, questo improvviso emergere di un incontro aperto attorno a un dibattito di idee può interrogare, per esempio, lo psicologo (quali sintomi nasconde questo bisogno di scambi?), lo psicosociologo (quale dinamica di interazioni in questo gruppo di discussione?), il sociologo (qual è il significato culturale, sociale e politico di questa coproduzione intellettuale esterna all’istituzione filosofica e ai sistemi di formazione?), il linguista (come funziona questa interazione verbale che si dice concettuale?), lo storico (c’è una filiazione con la nascita della filosofia sull’agorà greca o la tradizione del caffè letterario in Francia dal XVIII secolo?), il politologo (quale legame, in questo luogo semi-pubblico, tra la filosofia e la democrazia moderna?), ecc.
  • Ma è la filosofia, poiché il caffè porta il suo nome, interpellata innanzi tutto: fenomeno singolare, in effetti, questo luogo, esterno all’università e ai suoi specialisti di storia della filosofia, deliberatamente situato fuori dalla relazione insegnante-studenti, e dove si manifesta pubblicamente una coproduzione detta filosofica tra non esperti, in una disciplina ritenuta pure astratta, a lungo esoterica, che presuppone nella nostra società un’iniziazione rigorosa, in un quadro scolastico, attraverso la lettura austera dei più grandi e l’addestramento dissertativo di lungo corso.

 

Nozione contraddittoria o concetto euristico?

  • Dinanzi a tali esigenze il caffè filosofico è un’espressione contraddittoria, impossibile da pensare, un luogo demagogico di usurpazione, di distorsione della parola filosofia, di cui Socrate stesso condannerebbe il discorso dossologico e sofistico? O proprio questa apparenza di ossimoro contiene, nel suo impensato linguistico, un paradosso che dà da pensare e chiama a elaborare un concetto che potrebbe rendere conto, attraverso una pratica sociale nuova, o perlomeno rinnovata, di un certo rapporto con la filosofia, orale, interattivo, collettivo, descolarizzato, distante dalla tradizione filosofica istituzionale, dottrinale o storica?
  • Se si afferma che non si può filosofare senza maestro né filiazione, senza la solitudine della riflessione, senza la scrittura e la traccia del proprio pensiero, senza la lettura degli autori, la conoscenza delle dottrine, l'immersione nella storia del pensiero occidentale, la questione è individuata. Non è la strada del caffè filosofico.
  • Ma non si può domandare ciò che non cerca di dare: l'"opera" filosofica, singolare, originale, scritta, coerente, poiché si tratta di un "intellettuale collettivo", di durata effimera, costituito di interazioni verbali puntuali, plurali, spesso divergenti, e tra non-professionisti della disciplina!
  • Se si tenta, dunque, di concettualizzare l'espressione: "caffè filosofico", occorre problematizzarla, occorre cioè porre domande corrette, da un punto di vista e da un ambito determinati. Da parte nostra sceglieremo quello della didattica della filosofia.
  • "Si può fare filosofia in un caffè detto filosofico?" appare da questo punto di vista come una domanda trabocchetto, fonte di malintesi e di dibattiti sbagliati, perché mette in scena di primo acchito la rappresentazione ambigua di quanto nasconde l'espressione "fare filosofia". L'alunno della classe terminale che redige la sua prima dissertazione dell'anno e Heidegger che scrive "Essere e tempo" "fanno" entrambi filosofia!
  • Ma non allo stesso livello e nello stesso modo. L'alunno è un apprendista-filosofo. Proprio come la maggioranza dell'uditorio di un caffè filosofico è non-specialista, cioè non ha mai fatto studi superiori di filosofia, non l'ha perfino mai studiata a scuola. Mentre Heidegger è un grande filosofo, un ricercatore della disciplina (un livello intermedio sarà quello del professionista di questo insegnamento).
  • Trattandosi di non esperti al caffè filosofico, la domanda non si può, dunque, che intendere per analogia con questa: "si può fare filosofia durante una discussione nella classe di filosofia?". A parte il fatto che qui si tratta di adulti, volontari, e in un quadro non scolastico, cosa che modifica il concetto di trasposizione didattica, così come è utilizzato dagli esperti di didattica.
  • Ora, una discussione, in classe come al caffè, non è filosofica in quanto tale. Ma lo può diventare. Non si tratta di accostare "filosofico" a "caffè" perché vi si tengono delle discussioni filosofiche. La vera domanda è allora: "A quale(i) condizione(i) una discussione può divenire filosofica in un caffè?" É un interrogativo allo stesso tempo teorico e pratico. Teorico, perché occorre precisare cosa si intende per "discussione filosofica" e per "condizioni di filosoficità" (conditions de philosophicité) di un dibattito. Ma anche pratico, perché è l'analisi del modo in cui si svolgono concretamente le discussioni che permetterà di giudicare in questo caso particolare (1).
  • Certi filosofi, tuttavia, si attengono alla tesi a priori dell'impossibilità di filosofare in un caffè. A causa del carattere redibitorio:

- sia del luogo, a vocazione mercantile e dossologica;

- sia del pubblico che, in quanto "non filosofo", non può che produrre opinione e non sapere;

- sia della conduzione, del tipo "animazione", che non elabora un pensiero coerente, o non dà una garanzia intellettuale "maieutica", soprattutto quando si tratta di un animatore non filosofo;

- sia del genere, poiché la filosofia autorizza solo un pensiero personale, e non comune (nei due sensi del termine), e il dialogo con qualcuno o con se stessi, e non un dibattito collettivo e aperto.

  • Queste obiezioni forti devono essere interrogate esse stesse alla luce di ciò che accade realmente nei caffè filosofici, dal momento che certi professori di filosofia, a priori ostili alla possibile filosoficità (philosophicité) di una discussione al caffè, sono stati indotti, dopo la partecipazione, e a fortiori l’animazione, a sfumare o perfino a cambiare il punto di vista (2). Il dibattito divide, dunque, gli stessi filosofi.
  • E questo perché il "dibattito filosofico collettivo" non è una pratica sociale filosofica di riferimento. Non si può, dunque, arrivare a una conclusione unicamente con la teoria, dal momento che si tratta di un’innovazione che, in rottura con quadri istituzionali e prasseologici tradizionali, è alla ricerca di modalità specifiche. Non si conosce storicamente che il dialogo socratico iper-direttivo a due o tre, o la disputatio medioevale con lunghi monologhi successivi contrapposti tra due protagonisti. E oggi i corsi magistrali, la comunicazione in un convegno, la conferenza-"dibattito" (in realtà domande al relatore), qualche scambio filosofico mediatizzato, sotto forma di conversazione a tre o quattro. E lo studio degli autori ha ufficialmente sostituito in classe i dibattiti post-sessantotteschi.
  • Noi dobbiamo dunque inventare la pratica di un dibattito filosofico tra più di cinquanta persone! La nostra esperienza di partecipanti e di animatori di numerosi caffè filosofici in Francia e all’estero ci conduce alle seguenti riflessioni.

 

Le condizioni di filosoficità (philosophicité)

  • È difficile prevedere se, per un dato individuo, una discussione collettiva in un caffè detto filosofico avrà o no una risonanza filosofica. E il gruppo del caffè è formato da una pluralità di individui. Perché se filosofare è mettersi in ascolto dell’alterità, per interrogare le sue opinioni sui problemi essenziali per l’uomo, e aprire per sé una ricerca della verità, ciascuno può legittimamente giudicare il suo coinvolgimento personale durante e dopo un dibattito. Ed è rischioso, in nome di un’autenticazione filosofica esterna, valutare l’impatto filosofico di ogni seduta sulle coscienze. Solo dei colloqui, per esempio, o delle tracce individuali scritte potrebbero permettere, come in classe, di apprezzare la filosoficità (philosophicité) dell’approccio di ciascuno. Questa situazione, che non è esplicitamente di formazione, relativizza dunque le affermazioni perentorie dei guardiani dell’ortodossia filosofica e delle prerogative del suo corpo magistrale.
  • Ma questa relativa opacità non dispensa, tuttavia, da una riflessione sul carattere filosofico del dibattito in quanto collettivo e condotto. Qui l’esperto di didattica può interrogarsi sulla natura della trasposizione didattica della disciplina che viene operata, peraltro abbastanza implicitamente, in un tal luogo. Da questo punto di vista, la discussione ci è parsa essere o divenire filosofica quando quattro condizioni tendevano a essere riunite:

1) un minimo di regole, di ordine della procedura dei turni di intervento, attinte nelle pratiche della discussione democratica, in cui la parola, per essere nello stesso tempo libera e uguale, deve essere inquadrata. In un gruppo numeroso, deve parlare uno solo alla volta, con precedenza di chi non è ancora intervenuto (diritto perso non appena utilizzato). Ciascuno può prendere la parola e andare fino in fondo (diritto di espressione), ma la deve chiedere, esercitarla solo quando gli è data e usarla, quando l’ha, moderatamente in numero e tempi di intervento (cosicché il numero massimo di persone possa partecipare). Nessuno deve togliere la parola a chicchessia (rispetto dell’altro), né esprimere affettivamente un accordo o un disaccordo (per evitare le reazioni emozionali del gruppo, pregiudizievoli all’uguaglianza delle parole e alla serenità di una riflessione intellettuale).

Queste regole, a volte, sono criticate, perché il rigore formale di tale procedura può irrigidire gli scambi: l’iscrizione a un turno di intervento posticipa il mio discorso, che risponde in modo differito nel tempo a un intervento precedente. La spontaneità di chi parla, l’interazione verbale personale, la coesione nella successione degli interventi e la progressione apparente degli scambi possono soffrirne, come l’ascolto degli altri quando si è focalizzati su ciò che si sta per dire. Ma il pensiero è allora più elaborato, l’affettività meglio dominata, l’intervento più lungo. Mentre la spontaneità è più breve, emozionale, non maturata, e la relazione duale prolungata poco sopportabile per un gruppo che può reagire e agitarsi.

È possibile domandarsi se la democrazia della parola è una condizione necessaria per un dibattito filosofico. La verità non è questione di quantità di parole condivise, ma di qualità del pensiero: uno solo può aver ragione contro tutti e non avrà diritto che a tre minuti. Un filosofo in sala, forte della sua riflessione e delle sue conoscenze, non avrà legittimamente più cose da dire, e più profonde, e dunque non avrà diritto a più tempo per farsi ascoltare? Ma tanto vale allora assistere a una conferenza di un professionista della filosofia. Ciò che è interessante, nella formula filosofica del dibattito, è meno l’autorità di un esperto (quanto vale l’argomento di autorità in filosofia?) che la possibilità per ciascuno di proporre agli altri un pensiero sottomesso alla loro critica e l’ascolto di un’alterità plurale che sorprende e scuote. È la riflessione personale nell’ascolto, l’espressione, il confronto. Da qui le regole per assicurare un lavoro concettuale attraverso questa modalità specifica che è l’interazione verbale: e il modello della discussione democratica qui è euristico.

2) Ma l’ordine procedurale esplicito, se è un fattore che favorisce la filosoficità (philosophicité) di un dibattito collettivo, e può essere necessario, non è mai sufficiente. È necessaria la presenza di un processo più diffuso, dell’ordine della psicologia individuale, della dinamica socio-affettiva del gruppo e dell’etica comunicazionale condivisa. Le procedure regolano in parte, attraverso il contenuto delle regole enunciate (esempio: non manifestare le proprie reazioni quando qualcuno parla), l’affettività intensa, e sono finalizzate, in termini di diritti e di doveri, a esprimere valori concernenti il funzionamento democratico dei gruppi (esempio: esprimersi senza abusarne) e il rispetto, al di là degli individui, delle persone (esempio: non interrompere qualcuno o prendere in giro). Ma esse non garantiscono mai automaticamente i loro effetti senza l’adesione del gruppo e di ciascuno. Impegno, ascolto, fiducia, rispetto, tolleranza, sono attitudini finalizzate a tradurre valori, senza i quali il dibattito filosofico è impossibile.

3) Ma questa etica comunicazionale non concerne solo il rispetto delle persona. È necessario sottomettersi all’esercizio della ragione, al "miglior argomento" (Habermas), alla ricerca della verità. Perché è possibile, a livello di procedura, scambiarsi democraticamente delle banalità o dei pregiudizi. È possibile, a livello di processi, discutere con piena fiducia in un gruppo e nel rispetto delle persone (per esempio in terapia) senza che ci sia un lavoro concettuale. Perché il dibattito sia filosofico, è necessaria un’esigenza intellettuale: "sapere di cosa si parla e se ciò che si dice è vero". Cioè mettere in opera, su nozioni e problemi fondamentali, e abitando il proprio discorso, dei processi di concettualizzazione, di problematizzazione, di argomentazione (3). Il gruppo è in questo senso una comunità di ricerca, in cui si osa proporre senza mai imporre, in cui si ha bisogno degli altri per modificare il proprio pensiero.

4) Assicurare in un dibattito collettivo delle procedure democratiche di intervento e dei processi psico-sociologici di fiducia reciproca; garantire in un dibattito filosofico un’etica comunicazionale tanto delle persone quanto delle idee, tale è il ruolo dell’animazione in un caffè filosofico. Noi diciamo dell’"animazione", e non dell’animatore, perché l’animazione può essere collettiva. Noi distinguiamo fondamentalmente due funzioni:

- di distribuzione della parola, che assume la democrazia procedurale e la regolazione socio-affettiva. Si tratta in particolare di articolare il rispetto formale dell’ordine di iscrizione con la flessibilità di interazioni più spontanee;

- di riformulazione delle idee (funzione che può essa stessa sdoppiarsi tra chi riformula a breve termine e chi sintetizza a metà percorso e fine seduta, con traccia scritta a posteriori). È questa che elabora il senso insieme collettivo e filosofico del dibattito, ricentrando gli interventi in rapporto al soggetto trattato e facendo attenzione, attraverso la messa in relazione degli interventi tra loro, alla progressione della riflessione comune. È questa più specificamente filosofica, per la comprensione della posta in gioco, la messa in evidenza delle problematiche in evoluzione, dell’emergere dei concetti e delle definizioni, dell’abbozzo delle tesi e dello sviluppo delle argomentazioni.

  • Doppia competenza dunque, spesso riunita nella stessa persona. Ma si può essere professore di filosofia e incapace di gestire un grande gruppo, e psicosociologo abile, ma estraneo all’esigenza di un lavoro concettuale. Questo non scarta nessuno a priori, ma dà la misura della responsabilità di abilitarsi a una tale animazione fuori - ed è il suo carattere istituente - da ogni controllo di un’istituzione o di esperti (4).

 

Conclusione

  • È troppo presto per determinare il valore, la portata e i limiti dell’emergere e dello svilupparsi dei caffè filosofici degli anni novanta. I filosofi sono molto divisi sulla diagnosi. Anche molti non-filosofi, che li frequentano o li animano, hanno il loro punto di vista sulla questione. Che dei non-esperti si occupino del problema di sapere cosa è filosofico o no interroga: despecializzazione della filosofia o/e edulcorazione?
  • Il caffè filosofico è un luogo che deve interrogare la filosofia, poiché si riferisce esplicitamente a essa: moda effimera, demagogia mediocratica? O pratica innovativa della filosofia, nella quale si parla in modo diverso che scolasticamente, nella quale si affrontano i problemi esistenziali in modo diverso che psicoterapeuticamente?
  • È anche un luogo da dove si può interrogare la filosofia: qual è, quale può essere il suo rapporto con l’oralità, con la parola viva, con la parola collettiva, con un gruppo di discussione, in cui il concetto tenta di sostenersi con l’interazione verbale? Forse può essere una pratica "deuniversitarizzata" della filosofia, animata, ma senza maestri né discepoli, senza autorità esplicitamente esperte e incaricate; puntualmente istituita, ma senza istituzioni formative, e tuttavia istituente un intellettuale collettivo autoformatore?
  • È infine un luogo dove la riflessione filosofica può interpellare i soggetti volontari che si sottomettono all’esercizio della ragione e della critica, e attraverso di loro, interpellare la città, come una parola vera, garantendo la qualità razionale dei dibattiti, di cui il discorso democratico, che si alimenta dell’argomentazione, ha proprio bisogno per recuperare credibilità.

(traduzione di Anna M. Bianchi)

 

NOTE

1) Su questi punti, vedere: Tozzi M., "Contribution à une didactique de l’oral philosophique" e "Une pratique sociale nouvelle de référence: le café philosophique", in Tozzi M., Moliere G., "L’oral argumentatif en philosophie et en français", C.R.D.P. de Montpellier, 1998.

2) Cfr. gli articoli apparsi nella rivista dei caffè filosofici Philos, nel giornale Le vilain petit canard, e nel n. 10, ottobre 1997, dell’A.R.P.A.D. (Associazione per la Ricerca in Didattica dell’Apprendimento del filosofare).

3) Cfr. i nostri lavori sulla didattica dell’apprendimento della filosofia dai dieci anni. Per esempio: "Contribution à l’élaboration d’une didactique de l’apprendissage du philosopher", Revue Française de Pédagogie, n. 103, aprile-maggio-giugno 1993, I.N.R.P.; "De la philosophie à son enseignement: le sens d’une didactisation", in: Savoir scolaires et didactiques des disciplines (coord. Develay M.), ESF, 1995.

4) L’Associazione Philos (che pubblica una rivista con lo stesso nome), rete informale dei caffè filosofici, tiene conto del bisogno espresso da certi animatori di una formazione, particolarmente filosofica, per questa funzione.