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Comunicazione Filosofica n. 5 - maggio 1999

 

ELISABETTA de PALMA

LA TERZA PROVA NEL NUOVO ESAME DI STATO.
UNA PROVA NON SOLO PER STUDENTI !

 

Quando ho letto per la prima volta il testo della Legge 10 dicembre 1997, n. 425 e del D.P.R. 23 luglio 1998, n.323 con cui il Ministero della Pubblica Istruzione ha rese note le disposizioni che, da quest’anno, costituiscono il punto di riferimento imprescindibile per l’organizzazione e lo svolgimento degli esami di stato (ex maturità), non ho potuto fare a meno di pensare a quanto e a come, in vista di tale scadenza, la pratica didattica in classe sarebbe stata modificata e che, tale modificazione, non avrebbe coinvolto solo, o principalmente, gli studenti ma anche i docenti e ciò in modo determinante.

Il testo ministeriale, infatti, ha imposto riflessioni i cui effetti sono individuabili in trasformazioni che sono andate ben aldilà di una semplice revisione della programmazione annuale : si è trattato di "interpretare" una legge con molti nodi "aperti", si è quindi trattato di renderla applicabile in breve tempo, dovendo inoltre, spesso, "creare" gli strumenti per tradurla operativamente.

Penso di poter affermare, senza timore di smentite, che uno di tali strumenti è costituito dalla terza prova scritta, emblematico esempio di quanto la struttura dell’esame sia mutata e con essa il quadro di riferimento in aula. L’elemento di novità non sta solo nel fatto che è una prova in più rispetto al passato ma anche e soprattutto nel fatto che presenta caratteristiche del tutto diverse dalle "verifiche" cui noi docenti siamo stati abituati ed abbiamo abituato i nostri studenti.

Richiamo qui integralmente l’Art. 1 del D.M. n. 390 del 18 settembre 1998 che ne disciplina lo svolgimento poiché, a mio avviso, apre una serie di interrogativi le cui risposte andranno a determinare il modo in cui le Commissioni, di fatto, procederanno alla sua strutturazione:

"La terza prova scritta negli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore, a carattere pluridisciplinare, è intesa ad accertare le conoscenze, competenze e capacità acquisite dal candidato, nonché le capacità di integrare conoscenze e competenze relative alle materie dell’ultimo anno di corso, anche ai fini di una produzione scritta, grafica o pratica".

Pongo, dunque, un primo nodo critico: cosa intendere per conoscenze, competenze, capacità. Certo, la letteratura didattica del cognitivismo e del post cognitivismo fornisce autorevoli chiavi interpretative, ma il problema, a mio avviso, non è di natura ermeneutica. Occorre, infatti, domandarsi perché il Ministero non ha prodotto, rispetto a tale questione, alcun elemento di orientamento. Ritengo che ciò non sia legato né a disattenzione, né alla ingenuità di chi crede che esistano, a livello nazionale, presupposti per intendere tali termini in modo omogeneo. Credo, piuttosto, che dipenda dalla scelta ministeriale di lasciare piena libertà ai Consigli di Classe : tutto l’esame, infatti, ed in modo particolare la terza prova, ha la caratteristica imprescindibile di dover essere strutturato su quelle conoscenze, competenze e capacità che realmente e concretamente hanno caratterizzato il percorso didattico-disciplinare della classe e che le Commissioni devono, pertanto, evincere dal Documento del Consiglio di Classe. Da ciò consegue che ogni Consiglio di Classe, in sede di programmazione annuale, è chiamato a chiarire il "senso" entro cui conoscenze, competenze, capacità devono trovare spazio ed attuazione all’interno della classe di riferimento, sia in rapporto al terreno di intervento collegiale sia a quello riguardante le singole discipline. Alla luce di tali considerazioni, anche la parte conclusiva del succitato Art.1 che fa esplicito riferimento " alle materie dell’ultimo anno di corso " trova un suo chiarimento.

Ad una prima lettura, infatti, può sembrare che, poiché ai fini dello svolgimento dell’esame, si menzionano esclusivamente le "materie" da cui derivare conoscenze, competenze e capacità senza citare altro elemento, esso possa vertere su un qualsiasi argomento o contenuto disciplinare purché afferente alle materie dell’ultimo anno di corso. Se questo fosse vero, il Ministero avrebbe aperto le porte a tutto, o quasi tutto, lo scibile umano ed al contempo perso di vista "lo studente reale". Ma dalla lettura dell’Art. 5 comma 2 Regolamento, D.P.R. 23 luglio 1998 n. 323, da cui all’Art.1 di cui sopra discende, si evince che il riferimento alle "materie" trova un limite definito e puntuale nei contenuti effettivamente trattati in aula e nella coerenza tra le scelte operate dal Consiglio di Classe prima e dalla Commissione dopo. Ed infatti l’Art. 5 al comma 2 recita : "Le caratteristiche formali generali della terza prova scritta sono stabilite con decreto del Ministero della pubblica istruzione. Il testo relativo alla predetta prova è predisposto dalla commissione d’esame. La relativa formulazione deve essere coerente con l’azione educativa e la didattica realizzata nell’ultimo anno di corso. A tal fine, i consigli di classe, entro il 15 maggio elaborano per la commissione di esame un apposito documento che esplicita i contenuti, i metodi, i mezzi, gli spazi e tempi del percorso formativo. […]" Ed ancora stesso articolo comma 3 : "La commissione entro il giorno successivo a quello dello svolgimento della seconda prova definisce collegialmente la struttura della terza prova scritta in coerenza con quanto attestato nel documento di cui al comma 2. […]"

Inoltre, in vista della gradualità e della flessibilità con cui la terza prova dovrà essere introdotta, sempre nel D.M. 390 Art. 4 comma 2, si precisa che, nei primi due anni, la prova non potrà coinvolgere più di quattro discipline e nel comma 1 che la prova dovrà concernere una sola tipologia tra quelle indicate nell’Art. 2 stesso D. M., e ciò in attuazione dell’Art.15 del D.P.R. 23 luglio, 1998 n.323.

Tutto questo significa che, nella strutturazione della prova, le Commissioni sono lasciate libere di decidere la tipologia della stessa e le "materie" dell’ultimo anno di corso sulle quali essa verterà, ma incontreranno dei limiti nel numero delle materie prescelte, non più di quattro; nella tipologia, non più di una; negli argomenti e nei contenuti che devono far capo ad argomenti e contenuti effettivamente presi in esame durante l’anno scolastico (leggi programmi svolti); nelle conoscenze, le competenze e le capacità richieste per la soluzione della prova e che devono essere considerate a partire dalla impostazione realmente data in aula al lavoro del Consiglio di Classe.

Tali vincoli, del resto, vengono confermati e resi più espliciti da quanto, a tale proposito, è affermato nella rubrica F.Q.A. (Frequently Asked Questions) collocata nel sito Internet ministeriale con la funzione di rispondere alle domande poste, con maggiore frequenza, da capi d’istituto e docenti.

Ecco, infatti, come si esprime il Ministero circa tre importanti interrogativi :

(F.Q.A. Terza Prova Scritta, quesito 1)

"1. Da chi è formulata la terza prova scritta?

La traccia proposta ai candidati viene predisposta per ogni classe dalla commissione esaminatrice, di cui fanno parte anche i docenti interni. La normativa lascia ampia libertà alle commissioni di definire le modalità della prova, che deve basasi sulle attività realmente svolte dalla classe nell’ultimo anno di corso."

(F.Q.A. Documento Consiglio di Classe, quesito 4)

"4. Oltre al Documento del consiglio di classe è necessario presentare anche i programmi delle discipline?

I programmi delle singole discipline sono una componente irrinunciabile del Documento. Essi hanno una funzione insostituibile anche per l’organizzazione della terza prova e del colloquio, sia ne caso di un accertamento su argomenti attinenti le verse discipline, sia nel caso di raggruppamento per aree disciplinari."

Ed ancora :

(F.Q.A. Terza Prova Scritta, quesito 4)

"4. Esiste il rischio che venga proposta una prova che i candidati non siano in grado di svolgere?

No, perché il testo viene elaborato sulla base del Documento del consiglio della classe di appartenenza dei candidati, quindi sui contenuti didattici e le metodologie che i ragazzi conoscono e hanno sperimentato per un anno. La presenza all’interno della commissione dei docenti della classe è un ulteriore elemento di garanzia per la predisposizione a cui i loro alunni saranno certamente in grado di rispondere"

Si profila, dunque, la necessità di tessere un filo di congiunzione tra il lavoro di programmazione e di aula dei Consigli di Classe ed il lavoro di composizione del terzo esame scritto delle Commissioni e di individuare "le possibilità ed i limiti" d’azione di questi due soggetti.

I Consigli di Classe sono liberi di determinare le conoscenze, le competenze e le capacità da richiedere ai propri studenti, nonché di realizzare il percorso formativo-culturale che, facendo capo ai vari programmi disciplinari, dovrà fare emergere tali abilità anche in sede d’esame e questo non perdendo mai di vista la "classe reale"; le Commissioni sono libere di decidere le quattro discipline dell’ultimo anno di corso sulle quali essa verterà, la tipologia della stessa, e ciò senza perdere mai di vista il percorso tracciato dai Consigli, tanto in riferimento ai Programmi quanto alle abilità che a partire da questi dovranno essere richieste agli studenti.

Altra questione di non poco conto è rappresentata dal carattere pluridisciplinare che l’esame, e con esso la terza prova scritta, dovranno assumere.

Tale connotazione, sancita oltre che dal già richiamato Art.1 del D.M. n. 390, anche dall’Art. 1 della Legge 10 dicembre 1997, n. 425 e dal Regolamento attuativo Art. 4, in particolare comma 4, ha provocato accesi dibattiti sia all’interno dei Collegi docenti che dei Consigli di Classe degli Istituti secondari. Ciò è dipeso dal fatto che nei testi di legge non è data definizione alcuna del termine pluridisciplinare e questo, in alcuni casi, ha prodotto disorientamento, in altri una varietà di interpretazioni il cui nodo di fondo consisteva nel cercare di distinguere l’ambito pluridisciplinare da quello interdisciplinare.

In questo senso appare utile quanto presente nella rubrica Scaffale del sito Internet CEDE: in essa, infatti, è stato creato un apposito spazio titolato "Le parole degli esami" da cui è possibile ricavare, su tale questione, i seguenti chiarimenti:

"Se disciplinare si riferisce a ciò che si insegna o si impara entro una aggregazione empirica di contenuti che nella tradizione scolastica è venuta configurandosi come materia affidata alla responsabilità di un docente, pluridisciplinare designa aggregazioni più ampie, a comporre le quali intervengono competenze la cui acquisizione o il cui insegnamento fanno capo ad un certo numero di materie.

J. Piaget ha introdotto una opportuna distinzione tra i vari modi in cui avviene l’aggregazione di competenze che hanno differenti origini disciplinari, qualificando come :

  • multidisciplinari (o pluridisciplinari) le aggregazioni di competenze che si effettuano sulla base di un criterio estrinseco (per esempio, se ci si occupa del Novecento, se ne può considerare la storia politica, quella sociale, la letteratura, l’arte, la scienza eccetera; oppure, se leggo in inglese un libro di antropologia, dovrò comporre almeno due competenze, quella linguistica e quella antropologica);
  • interdisciplinari le aggregazioni che derivano dall’esigenza di risolvere un problema. L’elemento aggregativo in questo caso è intrinseco, per il fatto che attorno al problema si organizzano conoscenze che hanno origini diverse, ma fra le quali deve stabilirsi una relazione funzionale alla risoluzione del problema stesso (per esempio, se il problema è dove localizzare una nuova centrale elettrica, dovranno integrarsi considerazioni che si riferiscono alla tutela dell’ambiente, alle caratteristiche del suolo, alla disponibilità o all’approvvigionamento di fonti energetiche, ai costi della distribuzione, ai livelli della domanda eccetera; un esempio scolastico è costituito dalla capacità di comprensione della lettura, per il fatto che conferire significato ad un testo vuol dire riversare in esso l’insieme delle competenze di cui si dispone);…"

Dunque, stando a quanto succitato, è possibile intendere la pluridisciplinarietà :

a. come una composizione a più piani in cui le discipline intervengono a far luce su un argomento particolare (nell’esempio CEDE il Novecento), conservando la propria identità, la propria specificità, il proprio statuto disciplinare;

b. come una composizione a più piani, in cui gli elementi di stratificazione pluridisciplinare non sono necessariamente ed unicamente individuati nei contenuti di un argomento, ma nelle abilità operazionali pluridisciplinari (nell’esempio CEDE la lettura di un testo in inglese che compone più competenze).

Pur riconoscendo la seconda possibilità come più vicina al mio modo di operare in classe, devo ammettere che entrambe presentano dei vantaggi e dei limiti.

La possibilità a. consente di esplorare un argomento da più punti di vista, di esaltarne la complessità, di far concorrere alla sua definizione le varie discipline senza rischi di snaturamento delle stesse. Ma quali i pericoli che tale scelta comporta?

  1. Che argomenti di evidente fondamentalità ai fini della organizzazione di uno specifico ambito disciplinare, vengano esclusi perché non riferibili a più materie. A tale proposito consideriamo finalmente la filosofia : sarebbe plausibile escludere a priori, dalla terza prova (ma anche dal colloquio), una riflessione, ad esempio, sull’Io penso kantiano perché questione prettamente filosofica? Una obiezione che potrebbe seguire a questa considerazione consiste nel fatto che proprio sull’Io penso di Kant non ci sono dubbi, esso va tenuto e, ahimè, non già perché fondamentale per la comprensione dello sviluppo di tutto il pensiero filosofico moderno e contemporaneo ma in quanto mostra di possedere una sua pluridisciplinarietà intrinseca, infatti non è forse riferibile al nodo della "conoscenza" comune a tutti i saperi? Ma a questo punto mi chiedo : di quale pluridisciplinarietà stiamo parlando? Di quella che procede da analogie ed associazioni di parole e di idee o quella fondata su specifici statuti epistemologici? Né in tal senso mi dilungo a far notare che, utilizzando il tipo di legame analogico su indicato : - Io penso / conoscenza - cambia, di fatto, l’argomento pluridisciplinare : non più "l’Io penso" ma la "conoscenza in generale"! Inoltre, seguendo tale ragionamento e traendone le conseguenze mi chiedo, se l’analogia e l’associazione sono da escludere in quanto portano ad una pluridisciplinarietà "debole", in un prossimo futuro, con esse, sarebbero da escludere dai Programmi di filosofia dell’ultimo anno (ma non solo) quegli argomenti, che pur fondamentali per la comprensione dei modelli di razionalità, non si prestano a connessioni pluridisciplinari epistemologicamente "forti"?
  2. Un altro pericolo della categoria a. è rintracciabile nel fatto che la prova, in nome della autonomia e della specificità delle procedure disciplinari, risulti schiacciata sui contenuti delle singole materie. In questo caso, l’unico filo logico ed unificatore sarebbe dato dall’argomento posto al centro del terzo scritto che le discipline, al fine di garantire la propria identità, concorrerebbero a definire in modo settoriale; ma allora la possibilità di verificare negli studenti la presenza di " capacità di utilizzare e integrare conoscenze e competenze relative alle materie dell’ultimo anno di corso…" Art. 1 D.M. 390 cit., sarebbe molto sfumata in quanto ricondotta all’interno dei singoli ambiti disciplinari. Tutto ciò, dunque, origina una vera e propria aporia consistente nella necessità di realizzare una pluridisciplinarietà che da un lato deve salvare la identità disciplinare, pena lo svilimento della prova stessa, e dall’altro, per le premesse su cui è costruita e cioè pluridisciplinarietà intesa come "aggregazioni di competenze che si effettuano sulla base di un criterio estrinseco", mette inevitabilmente in discussione i singoli statuti epistemologici disciplinari.

Anche la possibilità b. presenta aspetti duplici e contrastanti : essa ridimensiona il problema contenutistico ed esalta la qualità delle procedure anzi, rintraccia proprio nelle procedure l’elemento cardine della pluridisciplinarietà. Del resto, senza voler assolutamente nulla togliere alla fondamentalità dei contenuti, a partire dai quali è poi possibile attivare le abilità operazionali, devo affermare che comunque queste ultime, a mio avviso, non possono essere trascurate nella pratica in classe e quindi nella pratica dell’esame. Tuttavia, soprattutto in riferimento alla filosofia, c’è da chiedersi:

  1. rivendicando l’autonomia disciplinare e la pluridisciplinarietà a partire dalle operazioni richieste allo studente, si può incorrere nel rischio di fare della filosofia una tecnica? Non riporto in questa annotazione una mia perplessità ma piuttosto un interrogativo emerso in varie istanze e contesti, un interrogativo da non sottovalutare in quanto mi pare sia molto facile cadere, soprattutto nell’ambito della didattica filosofica, nella trappola del "silenzio" e nella conseguente accusa di tecnicismo.
  2. Seconda questione, se la pluridisciplinarietà è rintracciabile, appunto, nelle abilità operazionali ne consegue che non esistono abilità relative ai singoli saperi ma esse sono riconosciute, di fatto, nella loro valenza trasversale. Questo costituisce un punto di forza ma, per la filosofia, anche un possibile pericolo. Ed infatti è inevitabile chiedersi se il filosofare si costruisce sulle operazioni trasversali o se sulle questioni di senso, se sulla chiarezza di pensiero ed al contempo sul dubbio, se sulla interrogazione radicale e sulla impossibilità di dare risposte esaustive, se sull’esercizio della possibilità del pensiero e la necessità che esso metta capo ad una pratica di vita e così via? E le operazioni in che rapporto stanno con tutto ciò? Sono esse alla base, costituendone il metodo, o restano sullo sfondo? Anche questi interrogativi hanno ragione di esistere e non sono liquidabili etichettando chi li pone come disinformato ed antiquato, poiché è pur vero che se il pensiero filosofico esiste e se con esso esiste l’insegnamento della filosofia, è altrettanto vero che queste sono domande ineludibili, proprie di un pensiero aporetico ma non per questo trascurabile, soprattutto in vista della costruzione della pratica di classe prima e di quella del nuovo esame di Stato poi.

Con tali riflessioni cosa intendo sostenere : l’impossibilità di una didattica della filosofia autenticamente pluridisciplinare o la impossibilità che la filosofia possa essere presente, accanto alle altre discipline, nel nuovo esame di Stato ed in particolare nella costruzione della terza prova? Assolutamente no, intendo invece affermare che essa deve esserci, e deve esserci proprio in quanto in grado di porre, tra le altre, le questioni di cui sopra, questioni sulle quali, a mio avviso, sia i Consigli di Classe, sia le Commissioni d’esame dovrebbero riflettere, evitando di eseguire istruzioni assunte acriticamente e che, mancando di una adeguata interiorizzazione, possono portare a scelte semplicistiche, quando non errate.

E’ con la assunzione di consapevolezza, prodotta da riflessioni che investono non solo questioni tecniche ma anche di sostanza, che la filosofia può trovare una adeguata collocazione all’interno del nuovo esame di Stato e della terza prova; infatti anche se i molti interrogativi non potranno essere sciolti, essi costituiscono la base affinché il procedere non sia cieco.

Detto tutto ciò, resta comunque il fatto che nel momento in cui la filosofia entra, come deve, nella terza prova, il docente sarà posto di fronte a "problemi filosofici" che, in qualche modo, dovrà affrontare operando scelte che comporteranno inevitabilmente compromissioni, o meglio, assunzione di impegno e conseguenti rinunce.

Anch’io ho dovuto, come tutti, operare in questo senso e dunque scegliere.

La prima scelta, e forse proprio per questo più decisiva delle altre che a partire da questa sono seguite, è consistita nell’individuare la tipologia principale su cui far esercitare gli studenti.

Ovviamente questa è stata una decisione collegiale, visto che la prova d’esame si svolge su più discipline. Devo però, per inciso, riconoscere che le opinioni da me espresse nelle riunioni tra colleghi, sono state tenute in considerazione e spesso, addirittura, sollecitate e questo, non per un riguardo particolare alla mia persona, ma proprio in relazione alla disciplina da me insegnata ed al pensiero critico e problematico che da essa discende.

Nel Consiglio di Classe in cui opero, la scelta è caduta sulla seconda tipologia : "Quesiti a risposta singola".

La selezione della tipologia ha tenuto conto di una serie di criteri, sicuramente discutibili, parziali, transitori, in quanto assunti solo per questo anno, ma comunque indispensabili al fine di procedere in modo non casuale. Tra i criteri più significativi qui riporto :

  • il considerare il tipo di indirizzo, quello Magistrale tradizionale, per il quale la prova andava pensata. Ciò ha portato ad escludere le tipologie D-E ed F più consone ad altri indirizzi di studi.
  • Il considerare tutte le discipline alla stessa stregua e quindi nessuna con carattere prevalente. Ciò ha portato ad escludere la tipologia A, più favorevole a quelle discipline, tra le quali la filosofia, cui più immediato e consolidato appare il riferirsi alla trattazione sintetica di argomenti ed alla lettura ed analisi dei testi.
  • Il non voler penalizzare gli studenti, ciò ha portato ad escludere la tipologia C, particolarmente insidiosa in quanto le domande prevedono risposte inevitabilmente o corrette o errate, e ciò senza alcuna possibilità di appello.

Ovviamente, i criteri e le considerazioni che hanno guidato la scelta della tipologia non sono stati solo quelli su esposti, ad esempio la tipologia C è stata esclusa anche per un fine prettamente didattico : in quanto sembra poco adatta a far emergere le competenze e le capacità che un "maestro" dovrebbe possedere. Quanto su esplicitato non ha, dunque, una funzione esaustiva ma vuole far comprendere il carattere poliedrico assunto delle discussioni che hanno preceduto le scelte.

Ed ancora, decisa la tipologia, si è trattato di stabilire le regole di composizione della prova, esse sono state orientate :

  • a costruire e calibrare la prova a partire dalle attività didattiche e dal percorso culturale e formativo "realmente" messi in atto in classe, questo in ottemperanza alla normativa vigente;
  • a porre, per l’intera prova, non più di otto "domande"; tale decisione, consentita da quanto espresso nell’Art. 2 del pluricitato D.M. n. 390 che a proposito della tipologia B afferma "I quesiti a risposta singola, […] possono essere articolati in una o più domande […]" è stata assunta in funzione della valutazione della prova stessa che, se sviluppata in quesiti sviluppati in più punti, avrebbe potuto risultare di estrema complessità e di minore trasparenza;
  • a formulare le domande in modo essenziale, il più possibile chiaro e circostanziato, ciò al fine di evitare equivoci e/o interpretazioni errate da parte dello studente; in linea con tale regola assume, ad es. poco senso porre la domanda :"Indica i caratteri essenziali del pensiero di Kierkegaard Max 4 righe" in quanto eccessivamente generica e quindi opinabile nella valutazione, mentre appare, pur se meno estesa, più precisa e quindi più definita nella valutazione la domanda :"Analizza la funzione che assume l’angoscia all’interno del pensiero di Kierkegaard Max. 4 righe";
  • a evidenziare l'operazione cognitiva di base che lo studente deve compiere per risolvere correttamente il compito, rappresentata dalla prima parola espressa dal quesito, ad esempio : definisci, confronta, spiega, analizza, individua ecc.;
  • ad applicare la forma indiretta nella presentazione delle domande, al fine di concentrare l’attenzione dello studente non esclusivamente sul contenuto della risposta ma anche su altre richieste, ad esempio il numero delle righe consentite per rispondere.

Le regole qui esposte non sono le uniche possibili, né le migliori, esse sono quelle scelte e seguite, con la consapevolezza di compiere operazioni inevitabilmente parziali e tuttavia necessarie, dal Consiglio di Classe in cui sono inserita. Credo che tale consapevolezza sia l’elemento che fa la differenza tra un operare solo in funzione della normativa ed un operare anche, o principalmente, in funzione della formazione degli studenti.

Cerco di motivare meglio questa mia posizione spostando, per finire, l’attenzione sull’impianto complessivo che, a mio avviso, la terza prova dovrebbe esprimere ed al ruolo che la filosofia, collocata all’interno di questa, può dunque assumere.

Se si conviene che con la terza prova non sarà possibile accertare appieno le conoscenze relative alle materie dell’ultimo anno di corso e ciò non perché i Consigli di Classe non siano all’altezza di preparare i candidati o le Commissioni di valutarli ma in quanto si tratta, appunto, di una prova, vale a dire di un momento del percorso formativo degli studenti che, in quanto tale, è inevitabilmente parziale, allora si potrebbe concordare che sarebbe utile, o meglio saggio, evitare lo schiacciamento dello terza prova sui contenuti disciplinari. Questo renderebbe possibile la valorizzazione delle abilità operazionali richieste allo studente durante la prova filtrando i contenuti proprio tramite le abilità operazionali. Dunque conoscenze sì, ma a partire dalla loro organizzazione. Ancora una volta mi pongo una domanda : "Sto affermando che le conoscenze non contano?" Ancora una volta rispondo di no, sto mettendo, piuttosto, in evidenza la necessità di riflettere sulla inevitabile parzialità della prova e di assumere, conseguentemente, delle scelte calibrate e meditate.

Cosa comporterebbe per la filosofia il percorrere la strada su indicata, forse rinnegare il suo spessore di senso o il suo impianto critico? Significherebbe trasformarsi, pericolo già messo in evidenza, in un esercizio tecnico? Credo proprio di no, e affermo questo in quanto, se così fosse, allora dovremmo ammettere che anche Socrate, con la maieutica e con la ricerca della definizione, non filosofava ma applicava una tecnica, stessa cosa per Aristotele e le regole sillogistiche. Ed allora ecco che è possibile tracciare la differenza tra chi pensa, utilizzando strumenti, e chi li applica perché a questo è stato addestrato; ecco la differenza tra chi pensa, formulando una terza prova, e chi utilizza i modelli strutturati da altri; ed ecco allora che la terza prova appare, di per sé, una "prova di filosofia plurigenerazionale" in quanto non coinvolge solo gli studenti ma riguarda appieno proprio noi docenti che, su riflessioni apparentemente ovvie, come queste qui riportate, investiamo tempo, energie e…pensiero!