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Comunicazione Filosofica n. 13 aprile 2004

 

 

Carla Poncina

Liceo Classico A. Pigafetta – Vicenza

Scuola di Specializzazione per l’insegnamento secondario, indirizzo Scienze Umane

Università di Padova

e-mail: carlaponcina@excite.it

 

La filosofia al cinema

Riflessioni ed esperienze su cinema e filosofia

 

La filosofia viene percepita per lo più dal senso comune in termini di astrazione, quasi fosse un’attività dello spirito scissa dal concreto agire, dal quotidiano immergersi nell’esistenza. Eppure essa è nata, sulle coste dell’Asia Minore, da una stirpe di scienziati-politici capaci di osservare, riflettere, “guardare” la realtà che li circondava con occhi penetranti, privi di pregiudizi, e i loro pensieri, originati dall’osservazione attenta del reale, costruivano ipotesi di mondi ideali in grado di trasformare la realtà stessa. Non c’era il cinema, è ovvio, a dar forma alle loro fantasie, ma il teatro, e la poesia, hanno spesso rappresentato la trama su cui i filosofi tessevano le proprie idee.

 La necessità di collocarsi all’interno di un orizzonte di senso, entro cui ordinare il proprio vivere quotidiano, sta alla base di tutte le grandi realizzazioni in ambito religioso, artistico, filosofico. Per questo religione, arte e filosofia dialogano incessantemente tra di loro e con le generazioni di uomini che si susseguono nel tempo, purchè non venga perso il contatto con la terra su cui le singole vite si consumano. Per questo leggere i dialoghi di Platone, o quanto ci resta delle opere dei sofisti, significa immergersi nelle realtà viva dell’Atene e in generale della Grecia dei loro tempi. Alla stessa stregua, per venire a pensatori a noi più vicini, Hegel nella Fenomenologia dello Spirito fa riferimento ai molteplici aspetti dell’umana esistenza utilizzando spesso le grandi figurazioni poetico-letterarie, nonché le vicende storiche, in modo paradigmatico rispetto all’elaborazione concettuale.

 Oggi, e da oltre un secolo ormai, è il cinema ad occupare uno spazio privilegiato nella costruzione di mondi paralleli, di metafore esistenziali. Tutto ciò non va certo confuso con la produzione filosofica, ma la filosofia, per la quale vale sempre l’immagine hegeliana della nottola di Minerva che si alza sul far della sera ad illuminare il quotidiano accadere, è ancora in grado di dirci qualcosa di sensato sul nostro vivere, anche a partire dalla visione di un film, di un qualsiasi film, pur sempre nutrito delle passioni, così come delle idee, di una molteplicità di uomini.

 Si tratta di una modalità espressiva, supportata da una precisa tecnologia, capace di modularsi su molteplici registri, cosicché è in grado di parlare ad una infinità di persone, strumento di comunicazione popolare ed alto insieme. Tali caratteri variano da un prodotto filmico all’altro, ma possono essere contenuti in una stessa opera. Forse solo il teatro greco classico ha avuto la stessa versatilità, rivolgendosi contemporaneamente al popolo e alle classi più elevate, e riuscendo a parlare a tutti.[1]

Nonostante il cinema da oltre cento anni ormai occupi uno spazio così ampio, in particolare all’interno delle società occidentali, e pur rilevando come fin dai primordi della cinematografia i grandi registi, consapevolmente o inconsapevolmente, abbiano fatto riferimento a contenuti filosofici, utilizzando il nuovo mezzo non solo per raccontare storie, ma anche per diffondere idee attraverso le immagini, solo da pochi decenni i filosofi lo hanno fatto oggetto del loro interesse, e non a caso i primi tra questi sono stati i pensatori americani. Gli U.S.A. sono infatti il paese che per primo ha fatto del cinema un fenomeno di massa, e si può dire, senza timore di esagerare, che l’America pensa se stessa attraverso il cinema.[2]

 In Italia per contro a chi si occupa di filosofia e cinema capita ancora di venir guardato con sospetto, nonostante da alcuni anni si sia iniziato a riflettere sul senso da attribuire a questo mondo di immagini fluide, in movimento, cui la nuova musa tecnologica da oltre un secolo ha dato origine.[3] I contributi di filosofi e critici in senso lato si sono infittiti negli ultimi due o tre anni, tanto che sarebbe difficile indicarli tutti. Da Umberto Curi a Pier Aldo Rovatti, da Carlo Sini a Giulio Girello, sono numerosi i filosofi che si sono confrontati con il cinema.

Per come lega insieme cinema, letteratura e filosofia risulta molto interessante quello dato da Roberto Calasso con il suo saggio K. (apparso lo scorso anno per Adelphi).

Il libro analizza la personalità e l’opera di Kafka, sottolineando la passione dello scrittore praghese per il cinema, che sembra costituire per lui "il risvolto visivo di un’ombra mentale che avvolge tutta la sua opera"[4]. Riferendosi in particolare al romanzo America, Calasso osserva come l’opera mostri una evidente commistione tra ciò che è arcaico (il mito) e il moderno, aggiungendo che la forma espressiva che, nel Novecento, più di ogni altra ha dato vita a questa commistione è il cinema. Dice lo scrittore: "il cinema è, per sua natura, al tempo stesso la forma più vicina all’allucinazione (figure in movimento che trascorrono su un fondo di tela, come le immagini mentali sul fondo della mente) e alla pura fisicità ( il corpo delle attrici e degli attori percepito con un senso di intimità che è all’origine del culto feticistico delle star).[5]

Si tratta di un modo nuovo di entrare in contatto con immagini-simulacri, per questo Calasso sostiene che per queste sue caratteristiche il cinema è materiale metafisico per eccellenza . risulta di grande interesse questo legame tra letteratura, modernità e arcaicità che trova la sua sintesi nel cinema, lanterna magica attraverso cui scorrono insieme immagini e idee, sollecitando nello spettatore uno stato di reverie che non si identifica ma in qualche modo preannuncia la condizione filosofica.

In realtà lo stupore, la meraviglia da cui nasce la disposizione al filosofare, trova nel cinema una sorgente inesauribile. Ogni film, e non facciamo qui distinzione tra opere d’autore e produzione popolare, ci presenta una particolare visione del mondo che in quanto tale ci interroga, ci pone delle domande, così come è sempre accaduto con ogni testo poetico, letterario o d’altro genere. Con la differenza che il cinema rappresenta la modalità espressiva tipica del secolo appena trascorso[6].

Le immagini con cui viene sostanziato il racconto si fissano nella mente dello spettatore, nel buio della sala, in un tempo sospeso, quale è quello della proiezione cinematografica, ed acquistano una forza e una nitidezza particolari, tanto da divenire in molti casi simboliche, emblematiche di particolari situazioni esistenziali. Questa condizione di meraviglia, unitamente alla presa di distanza rispetto allo scorrere quotidiano della vita, si può già considerare in qualche modo filosofica.

 L’intensità della partecipazione dello spettatore al fluire delle immagini è tale da costituirsi spesso come modello. Succede così che nella vita vera, di tutti i giorni, di fronte a situazioni particolarmente vive e intense, ci capiti di dire o sentir dire: ″mi sembrava di trovarmi in un film″, come se il cinema avesse di per sé maggiore forza e verità della vita stessa, o certe situazioni cinematografiche fossero dotate di una paradigmaticià tale da costituirsi come esemplari. Del resto Aristotele, nella Poetica, confrontando storia e poesia, definisce la poesia ″più filosofica″, philosophoteron, della storia, perché più dotata di universalità[7]. Questo ragionamento sottende l’idea che ciò che è universale, la poesia appunto, contenga più verità di ciò che è reale sì, ma di una realtà che mutando incessantemente trascolora nel nulla.

 Il confronto tra il cinema e le precedenti forme d’arte presenta tuttavia delle difficoltà, già individuate da Walter Benjamin[8], il quale osservando le trasformazioni indotte dalla tecnologia nel mondo dell’arte, si interroga su queste stesse. In quanto prodotto industriale (si parla infatti di industria cinematografica) il film è un oggetto riproducibile all’infinito, mentre l’opera d’arte risulta caratterizzata dalla sua unicità. Tale obiezione risulta tuttavia molto estrinseca. L’unicità o l’originalità sembrerebbero infatti riconducibili all’intuizione dell’autore (regista nel caso di un film), non certo al dato estrinseco della riproducibilità tecnica di una singola opera. Ogni film è certamente ripetibile, ma anche la poesia o il teatro in qualche modo lo sono. Ciò che è unico, platonicamente, è l’idea che sostanzia l’opera e in qualche modo ne costituisce il modello. Ma questo è un aspetto che andrebbe indubbiamente approfondito in altro modo e in altra sede.

Tornando al punto della possibile relazione tra cinema e filosofia, da quanto fin qui detto si evince che essa va colta intrinsecamente nella natura stessa del mezzo cinematografico, nella sua capacità di stupire, di collocarci in una dimensione temporale e spaziale per così dire sospesa rispetto alla quotidianità, nella fecondità mitopoietica. L’immagine non è forse riconducibile ai concetti, ma è capace di originarne. Le varie forme che scorrono sulla tela illuminata, nel buio della sala in cui in quanto spettatori siamo posti, insieme soli e in compagnia di altri, come nella caverna platonica (o come nella vita di tutti i giorni), sollecitano e in qualche modo amplificano tutte le nostre facoltà, e possono dar corso a nuove filiere di pensieri, smuovere false certezze nello stesso tempo in cui ci divertono o ci emozionano.

 In particolare il cinema può oggi essere considerato, in forma più durevole rispetto agli altri mass-media, un grande sistema capace di riflettere e insieme sollecitare il modo di pensare collettivo. Proprio questa ambiguità lo rende affascinante, seducente e in quanto tale potenzialmente pericoloso. Conoscerlo, utilizzarlo consapevolmente nelle sue molteplici valenze, risulta oggi in qualche modo necessario.

Va a questo punto sottolineata la valenza formativa in senso filosofico del mezzo filmico, che ne fa un ottimo strumento didattico poiché tutti o quasi vanno al cinema ma ben pochi leggono i filosofi.

Per concludere aggiungiamo che le poche cose fin qui scritte non derivano da una riflessione tutta intellettuale sul rapporto tra cinema e filosofia, ma traggono origine dall’esperienza fatta negli anni passati. Assieme ad altri colleghi, tutti docenti di filosofia, abbiamo avviato una serie di incontri su cinema e filosofia, nel corso dei quali la visione di alcuni film, scelti da noi con criteri del tutto personali (più spesso film di successo, popolari, che opere da cineforum) veniva accompagnata da una serie di riflessioni attraverso le quali si suggerivano al pubblico possibili letture di tipo filosofico.

 Nel primo ciclo, il testo filmico era accompagnato da una domanda del tipo: Che cos’è la realtà?; Qual è la nostra identità?; Che cos’è la felicità? Nel secondo ciclo ad ogni film era avvicinato un filosofo il cui pensiero, a nostro parere era in qualche modo riconoscibile nel film stesso. Il terzo ciclo, appena concluso, intendeva approfondire, attraverso una serie di film, il rapporto tra l’individuo e la città.

L’ultima parte degli incontri è sempre stata riservata alle domande o alle osservazioni del pubblico. È stato per noi sorprendente quanto ne è venuto fuori. In particolare ci ha sorpreso l’intensità, il gusto con cui si partecipa a queste discussioni. Al di là di ogni considerazione di tipo teorico, l’esperienza ha fatto emergere con forza l’idea che il successo della formula sperimentata, nascesse in buona misura dall’aver fuso insieme il piacere del cinema al piacere di pensare. Ciò ha reso gli incontri, sia quelli con gli studenti, sia quelli con gli adulti, molto vivi e stimolanti, confermando la validità della formula sia da un punto di vista didattico che di ricerca filosofica.

Il senso di questo nostro intervento nasce dall’aver messo insieme diverse esperienze, di carattere teorico e pratico. Il confronto tra i nostri differenti punti di vista ha consentito, ad entrambe, di chiarire il rapporto tra cinema e filosofia, pur nella consapevolezza che molto ancora può e deve essere detto su questi temi, purché non si rimanga ancorati al dato astratto, ma si riesca a sostanziare la riflessione attraverso una lettura filosofica dei film.

Le analisi specifiche che qui di seguito alleghiamo intendono presentare alcune delle moltissime possibilità di indagine del testo filmico, attualizzando problematiche filosofiche che hanno segnato la storia del pensiero occidentale, grazie ad un linguaggio che è forse il più specifico della contemporaneità, quello appunto del cinema. In questo senso, ricordando quanto Benedetto Croce affermava della storia, possiamo dire che “La filosofia è sempre filosofia contemporanea”, e il cinema potrebbe rappresentarne una introduzione privilegiata.

 

Esercizi di filosofia al cinema: esemplificazioni

 

La nostra tesi è che in ogni film, anche in quelli apparentemente più lontani da ogni intellettualismo, è contenuta una visione del mondo, un nucleo di pensiero, che risulta interessante, addirittura piacevole, individuare attraverso un’analisi assolutamente libera, priva di ogni pretesa di assolutezza. Ciò significa che persone diverse sono autorizzate a “leggere” diversamente il film, o anche che la stessa persona, in situazioni mutate, vi può cogliere trame, sensibilità, idee precedentemente non ravvisate. Non è un invito all’anarchia, ma l’esaltazione della straordinaria fertilità e ricchezza della mente umana e una sollecitazione al pubblico, che in questo caso immaginiamo formato da giovani, da studenti, a “giocare” con il film, nel senso di “mettersi in gioco”, fedeli all’ironica e nel contempo profonda sollecitazione di Platone, che nella Lettera VII annota: "Chi è serio si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all’odio e all’ignoranza degli uomini"[9].

Presentiamo quindi le schede di alcuni film su cui abbiamo lavorato: Mary Poppins, I Cento passi, Chicago.

Un film di larghissima popolarità, come Mary Poppins, apparentemente estraneo alla filosofia, ha suggerito la possibilità di individuare temi squisitamente filosofici come la domanda sulla felicità, il procedimento argomentativo, la ricerca di valori autentici.

Un film di impegno civile come I Cento Passi, ha permesso di cogliere un nucleo di pensiero platonico, relativamente ai temi della giustizia e della bellezza.

L’ultimo musical di successo, Chicago, ci è sembrato straordinariamente vicino alle tematiche proposte dai Sofisti nell’antichità classica e in specie al tema del rapporto tra Verità e Apparenza.


 

Dove abita la felicità?

Materiali utilizzabili a supporto della visione del film Mary Poppins

di R. Stevenson

 Walt Disney USA 1964

 

A cura di Carla Poncina

 

 

Come sempre in filosofia partiamo da alcune domande: la filosofia è una disciplina e in quanto tale va riferita a dei contenuti specifici o è un metodo e pertanto può riferirsi a qualsiasi cosa?

E ancora: esistono film per bambini e film per adulti o è preferibile distinguere tra film belli e film brutti? Per non correre troppi rischi qui vorrei limitare il significato di “bello”, riferendo tale termine semplicemente a ciò che diverte, sollecitando a pensare.

La nostra tesi, che la visione del film dovrebbe contribuire a rafforzare, è che la filosofia è certo una disciplina ma è soprattutto un metodo e che bello è tutto ciò che sollecita il piacere di pensare, brutto tutto ciò che deprime tale piacere.

 

Qual è l’oggetto della filosofia?

 

“Ed anche a proposito di queste cose qui, Socrate, che potrebbero sembrare ridicole, come capello, fango, sporcizia […] ti trovi in difficoltà se sia necessario o meno che anche di ciascuna di queste esista separatamente un’idea, […]. Credere che esista una qualche idea di esse temo che sarebbe troppo assurdo” risponde Socrate. Ma Parmenide “il terribile” poco più avanti replica: “Sei ancora giovane Socrate, e la filosofia non ti ha ancora preso come un giorno, a mio avviso, ti prenderà, quando non disprezzerai alcuna di tali cose; ora invece a causa della tua età hai ancora riguardo per le opinioni degli uomini”. (Platone, Parmenide,130 d-e)

 

In via molto generale, ritengo…di perseguire la mia idea della filosofia in quanto disponibilità alla replica, non a parlare per primi, ma a sentirsi interpellati…E questo ha significato consentire a me stesso di sentirmi interpellato da eventi e da testi che non sono tipicamente connessi ai problemi ritenuti di interesse filosofico, inducendomi così talvolta a considerare testi di Poe, Emerson o Beckett, per esmpio, ma anche una tragedia di Shakespeare o un balletto di Fred Astaire, come capitoli della filosofia”. (Stanley Cavell, La riscoperta dell’ordinario; Carocci ed., Roma 2001)

 

 

Felicità e Sapere

 

L’uomo e la donna veramente belli e buoni, dico, sono felici; l’uomo ingiusto e malvagio è infelice” ( Platone, Gorgia 471 a).

 

“Non bisogna essere tenero verso di sé, né verso le proprie cose,non deve esserlo chi vuole diventare uomo eminente, e piuttosto rivolga i suoi affetti a ciò che è giustizia…” L’errore in cui tutti cadono è “ credere sapienza la propria ignoranza; e così senza sapere nulla, quasi, crediamo di sapere tutto, e non affidiamo agli altri quelle cose che noi non sappiamo fare e ci costringiamo a sbagliare facendole da soli” (Platone, Leggi, V).

 

Quelli che non sono veri filosofi, ma hanno soltanto una verniciatura di formole, come la gente abbronzata dal sole, vedendo quante cose si devono imparare,quante fatiche bisogna sopportare…si convincono di conoscere sufficientemente il tutto e di non avere più bisogno di affaticarsi”. (Platone, Lettera VII,431 e).

 

Ma quale tipo di felicità e quale tipo di sapere suggerisce Mary Poppins? E chi è Mary Poppins?

 

L’autrice del libro da cui il film è stato tratto, l’australiana Pamela Travers, si era molto interessata all’esoterismo,

approfondendone lo studio in particolare sui testi di theosofy di Gurdyeff. Pertanto cogliere nella trama del film un possibile percorso di redenzione, in particolare del personaggio più convenzionale, il padre, non rappresenta una forzatura, ma risulta quasi ovvio.

 L’abbondanza di poteri magici e animali parlanti del film caratterizza da sempre il mondo delle fiabe. Essi ne costituiscono gli strumenti di redenzione, in quanto aiutano i vari eroi o eroine della narrazione a divenire uomini e donne veri, affrontando e superando la paura, le paure.

 Incantesimi, sortilegi, maledizioni, visti alla luce dell’analisi junghiana, mettono in luce in realtà le malattie dell’anima, i legami e gli impacci che impediscono la piena realizzazione di sé, costringendoci all’infelicità [10].

"Ci occorre sempre una redenzione, un’espiazione, una purificazione per poter essere uomini"[11].

Ci interessa anche sottolineare il fatto che Mary Poppins è venuta a costituirsi come una figura mitica di grandissimo successo e fascino, e ciò suggerisce l’idea che ormai solo il cinema possiede questa capacità di creare miti.

 

La logica di Mary Poppins e i sillogismi di Jane e Michael

 

Il cinema ha spesso usato i bambini filosoficamente, per il loro sguardo “altro”, capace di spiazzare consolidati luoghi comuni. Pensiamo ai film di Truffaut, Chaplin, De Sica o Benigni.

 L’affinità con la filosofia è data dal fatto che anch’essa ha sempre un ruolo spiazzante, suscita interrogativi laddove il senso comune non ne coglie, e resta imperturbabile, proprio come la magica tata, di fronte agli eventi più strani.

Pensiamo ora alla stupefacente discesa dal cielo della giovane bambinaia e alle rigorose argomentazioni dei due bimbi in proposito. Quando ,all’inizio del film , Michael vede Mary Poppins scendere dall’alto con un ombrello che fa da paracadute, dice stupito alla sorellina “guarda, una strega !”

 Jane risponde tranquilla:”non può essere una strega, non ha la scopa”. E’ qui chiaramente sotteso un sillogismo, per quanto bizzarro, del tipo:

1) tutte le streghe cavalcano una scopa;

2) Mary Poppins non cavalca alcuna scopa;

3) Mary Poppins non è una strega .

Chi conosce i bambini sa quanto può essere rigorosa la loro logica dell’assurdo.

 

Linguaggio e realtà

 

Il tema del rapporto linguaggio-realtà caratterizza il racconto fantastico. Nel film è opportunamente introdotto dall’uso della parola magica: supercalifragilistichespiralidoso, capace di produrre al solo pronunciarla effetti meravigliosi, come in ogni magia che si rispetti.

Ma non c’è solo la parola a trasformare la realtà, c’è pure il pensiero in grado di incidere sul reale. Pensiamo all’episodio del thé bevuto a mezz’aria dallo zio Albert, Bert, Mary e i bambini.

Vi è in questo caso un uso realistico e non simbolico della metafora, un vero capovolgimento rispetto al senso comune.

 Così se noi usiamo espressioni come “avere le ali ai piedi” per indicare lo stato di leggerezza cui conduce la gioia o “avere il cuore pesante”, al contrario, per indicare tristezza e dolore, nell’episodio ricordato, in cui i nostri eroi bevono il thè a casa dello zio Albert, li vediamo sollevarsi tutti da terra per il gran ridere e ricadere poi pesantemente giù solo dopo essersi concentrati su qualcosa di molto triste.

.In questo come in molti altri casi si impone il tema squisitamente filosofico, oserei imprudentemente dire nicciano, del capovolgimento dei valori, comune a molti altri episodi, che si configurano con una loro intrinseca coerenza che potremmo definire di tipo dialettico.

 

Il sillogismo è un discorso in cui, posti taluni oggetti, alcunché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto che questi oggetti sussistono. Con l’espressione “per il fatto che questi oggetti sussistono” intendo dire che per mezzo di questi oggetti discende qualcosa, e d’altra parte, con l’espressione “per mezzo di questi oggetti discende qualcosa” intendo dire che non bisogna aggiungere alcun termine esterno per sviluppare la deduzione necessaria”. ( Aristotele, Analitici primi, A 1).

 

Per intendere che cosa sia lo svolgimento occorre distinguere, per così dire, due stati: l’uno che designa come attitudine, facoltà, l’essere in sé (come lo chiamo io), potentia, dinamis, l’altro, l’essere per sé, l’attualità o effettualità (actus, energheia). Quando per esempio diciamo che l’uomo è ragionevole per natura, intendiamo dire che possiede la ragione solo in potenza…Ma se il bambino possiede soltanto in questa forma l’attitudine o l’effettiva capacità della ragione, è come se non la possedesse”. (Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. I, Firenze 1964).

 

Fenomenologia di Mary Poppins e rovesciamento dei valori

 

 Mary Poppins e Bert, che ne costituisce la spalla maschile, usano consapevolmente l’ironia nei confronti propri ed altrui, con valenza maieuitica. Ne fa le spese in particolare il padre dei bambini, ottusamente sicuro di tutta una serie di valori che verranno buttati all’aria dal primo all’ultimo. Solo dopo aver perso tutto quanto aveva ritenuto importante ma non lo era, ritroverà tutto quello che conta davvero: l’amore dei figli e la solidarietà nei confronti degli altri.

 Si tratta di un percorso che attraverso varie e dolorose vicissitudini conduce dalla inconsapevolezza all’autocoscienza: una vera fenomenologia dello spirito in senso quasi hegeliano, con le sue figure, tra cui campeggia la scena del licenziamento dalla banca del signor Banks, rappresentata come una specie di rituale di investitura alla rovescia. Lo strappo dei distintivi, la lacerazione dell’abito-divisa da bancario e, sommo insulto, la distruzione della bombetta e il capovolgimento dell’ombrello, questi ultimi simboli per eccellenza del suo “esserci” nel mondo, costituiscono una perdita, un lutto che, opportunamente elaborato attraverso l’uso della parola magica: supercalifragilistichespiralidoso, rimuove la sofferenza ed apre gli occhi dell’anima ad una vita nova per un uomo radicalmente trasformato.

Serpeggia per tutto il film il tema dell’amore contrapposto ad una razionalità che si esprime attraverso regole convenzionali di vita.

Nell’episodio che mostra da un lato la vecchina dei piccioni, i bambini e Mary Poppins, dall’altra il signor Banks e i dirigenti della banca, si esprime –per così dire- la necessità di un capovolgimento dei valori. Vi si sottende infatti l’idea dell’assurdità della razionalità comune, il cui vertice sembra coincidere col valore del denaro, cui si contrappone la saggezza dell’irrazionalità, o di ciò che così correntemente si definisce, ma che nella sua essenza si manifesta come carità, amore.

 Ancora una scena, quella del balletto degli spazzacamini sopra i tetti di Londra, rinvia in qualche modo ad una logica capovolta, sottolineata dal contrasto cromatico tra le facce nere degli spazzacamini che danzano gioiosamente sui tetti, dentro una luce fantastica, e la città immobile e ignara di tanta felicità che sta sotto. Gli uomini che la abitano potranno godere di tutto ciò solo attraverso una vera e propria conversione, da realizzarsi tramite una “catarsi” come quella che –grazie ai suoi figli e all’intervento della magica “tata”- trasforma la vita del signor Banks.

 

Vi è ancora un passaggio del film, che si colloca a dire il vero all’inizio, ma vogliamo qui usare in conclusione perché costituisce insieme indizio e conferma del tipo di lettura filosofica che il film sembra suggerire. Si tratta della scena in cui la giovane governante, appena arrivata nella nuova casa, prende a sistemare le proprie cose, tirando fuori dalla sua borsa un’infinità di oggetti apparentemente incontenibili in uno spazio tanto limitato, e lasciando i bambini a bocca aperta. Al che, con disinvolta sicurezza, Mary Poppins esclama: "non giudicate mai le cose dal loro aspetto!"

È questa, fin dalle origini, la regola fondamentale di ogni indagine che abbia pretesa di definirsi filosofica, e in particolare di quelle filosofie che mostrano particolare diffidenza per il mondo fenomenico così come ci viene immediatamente dato attraverso i sensi. Possiamo indicare i nomi di Platone o di Schopenhauer, solo per fare dei facili esempi.

Concludiamo con le parole di un filosofo che sviluppato il tema dei rapporti tra cinema e filosofia: "La filosofia concettosa e professionalizzata è generalmente vista come "apatica", proprio nel senso di “senza pathos”, esclusivamente condotta dalle redini di un intelletto che si è scrollato di dosso emozioni e turbamenti sentimentali.

Solo qualche più recente filosofo “ribelle” (Schopenhauer, Nietzsche, Freud, Kierkegaard, Heidegger) ha rimesso in questione quest’egemonia della ragione intellettiva nel processo di percezione del mondo: sono appunto, in questo senso, i pensatori più “cinematografici” della storia della filosofia.”[12]

 


 

 I Cento Passi

Di Marco Tullio Giordana

Italia 1998

 

Bellezza e Giustizia in Platone e Simone Weil

 

A cura di Carla Poncina

 

 

I Cento Passi è un film che, uscito nel 1998, si inserisce in quella tradizione di cinema di forte impegno civile che ha reso grande la produzione italiana dal secondo dopoguerra agli anni settanta. Basta ricordare film come Roma città aperta, Paisà, Ladri di biciclette, La terra trema, Il bandito Giuliano, Le mani sulla città, Rocco e i suoi fratelli, a cui potremmo aggiungerne molti altri, inseriti nel filone del cosiddetto Neorealismo. Dopo l’appannamento etico e il disimpegno prevalente negli anni ottanta, una mutata, più cupa realtà politica e sociale ha fatto riemergere in una parte almeno della società italiana sensibilità che parevano sopite. Il cinema, per sua natura attentissimo sismografo pronto a registrare ogni vibrazione del gusto, ogni mutamento di umori, ha ripreso la sua vocazione civile grazie a una generazione di giovani registi solleciti nel riannodare il filo di una tradizione di grande impegno che sembrava scomparsa. Non è casuale ne I Cento passi l’omaggio a Rosi attraverso l’inserimento di immagini tratte da Le mani sulla città. Costituisce quasi una dichiarazione di poetica, un modo per sottolineare la propria ispirazione e rendere omaggio ad un maestro.

 Un film sul potere illegale quindi, sulla mafia, sulla giustizia: un film politico, che prende avvio dalle immagini di un bambino pensoso, il piccolo Peppino Impastato, dallo sguardo pieno di domande. C’è niente che possa meglio raffigurare l’idea stessa della filosofia, "nata dalla meraviglia", come ci dice Aristotele?

In una delle prime sequenze vediamo Peppino salire su una sedia , di fronte ai parenti, e recitare L’Infinito di Leopardi. Il rapporto con la parola poetica riaffiora in molti momenti, quasi a suggerire la poesia come possibile chiave di interpretazione della realtà. A questa noi ne aggiungeremo un’altra: la filosofia. Ciò è reso possibile dal particolare andamento del film, che si snoda come un cammino doloroso e gioioso insieme, che prende avvio dall’incontro con un maestro, il compagno comunista che gli svela le prime "verità". Si tratta quasi di un percorso iniziatico , la cui conclusione peraltro sarà tragica.

 Un altro strumento usato da Peppino per intercettare la realtà è l’ironia che, come in Socrate, si mostra capace di svelare la menzogna mostrando il male, in questo caso la mafia, la speculazione, la violenza nascosta. L’impegno politico, illuminato dalla parola poetica, dall’ironia e, dobbiamo aggiungere, dalla musica, si configura come una ricerca di verità, e quindi in qualche modo come un’indagine filosofica.

 

Cosa c’entra Platone ? Dalla politica alla filosofia

 

La filosofia viene percepita per lo più dal senso comune in termini di astrazione, quasi fosse un’attività dello spirito scissa dal concreto agire, dal quotidiano immergersi nel fare. Eppure la vocazione politica è connaturata alla filosofia fin dalle origini. Non ci sarebbe stata filosofia senza la polis, e l’ispirazione politica è testimoniata dallo stesso Platone, rispetto al quale, si dice, tutta la filosofia occidentale non è che un codicillo. Naturalmente bisogna intendersi sul significato da dare alla parola politica. Come pura gestione del potere fu la causa di un dramma che spinse Platone alla filosofia:

 ″…alcuni potenti trascina(rono) in giudizio il nostro amico Socrate, agitando contro di lui un’accusa la più infamante per disonestà, e la più lontana dalla sua indole; lo perseguirono infatti per empietà, lo condannarono, l’uccisero,lui che non aveva voluto prendere parte alla cattura illegale di uno dei loro amici″(Platone, lettera VII, 325 C).

Il trauma per la morte del maestro spinge Platone alla filosofia, alla ricerca di un modo diverso di fare politica, secondo giustizia e non come semplice esercizio di potere:

″…mai le generazione degli uomini avrebbero potuto liberarsi dai mali, fino a che o non fossero giunti ai vertici del potere politico i filosofi veri e schietti, o i governanti delle città non diventassero, per un destino divino, filosofi″(Ibid.326 B).

Ma chi è filosofo secondo Platone? Non possiamo ripercorrere in poche righe un pensiero dell’ampiezza e della profondità di quello platonico. Ci limitiamo a ricordare come per Platone la conquista della verità comporti l’abbandono degli incerti valori suggeriti dall’esperienza sensibile e la conquista di uno sguardo sull’eterno frutto di una lunga e faticosa ricerca.

Il mito della caverna costituisce la trascrizione narrativa e simbolica di tale processo. Lo schiavo incatenato al fondo della caverna, una volta liberatosi, potrà uscire alla luce del sole non senza patire grandi sofferenze: ″ se di là uno lo traesse a forza per la salita aspra ed erta, e non lo lasciasse prima di averlo portato alla luce del sole, forse non soffrirebbe e non proverebbe una forte irritazione per essere trascinato?…″ ( Platone, Repubblica,VII, 515e) . Dovrebbe abituarsi con fatica a sostenere la luce del sole, e quindi del vero che con il sole si identifica. Ma se a questo punto ritenesse di doversi spingere nuovamente al fondo della caverna per portare ai vecchi compagni la buona novella che cosa può accadergli? :″ Non sarebbe egli allora oggetto di riso? E non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non val neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo? (Ibid.,517 a).

Il mito della caverna consente svariate interpretazioni, ma la lettura , certo assai libera che ne dà Simone Weil risulta particolarmente suggestiva.

 

Bene, Verità e Giustizia secondo Platone letto da Simone Weil

 

″La tensione alla giustizia e la consapevolezza che la vera giustizia è di origine soprannaturale sono, secondo l’autrice, al centro della filosofia platonica″ (W.Tomasi). S. Weil fa un uso molto libero della grecità e di Platone in particolare. Del mito della caverna dà una lettura in chiave mistico-religiosa. Il percorso verso il Bene viene inteso come un rito iniziatico, che conduce, attraverso la cancellazione di ogni prospettiva egocentrica, alla conquista del Bene. Dopo essersi liberati dalle catene, una volta usciti dalla caverna, sarà possibile contemplare i modelli eterni cui l’anima, libera dalle passioni che l’incatenavano, potrà liberamente volgersi. Questo percorso di emancipazione passa attraverso l’individuazione delle tracce del divino nel cosmo, che coincidono con l’ordine e la bellezza del mondo stesso.

Vi è un nesso quindi tra la giustizia che è riflesso dell’ordine e della misura divina, la bellezza, le cui tracce, a saperle individuare, ci indirizzano sulla via giusta, e la verità, che sembra non appartenere al mondo e tuttavia va perseguita nel tentativo di rendere il mondo stesso meno ingiusto e intriso di sofferenza. Quel mondo che, per usare l’immagine platonica ripresa da S.W., viene paragonato a un ″ grosso animale″, i cui appetiti il vero sapiente non sollecita, come fanno i falsi filosofi ( sofisti) al solo fine di ingraziarselo, ma condanna, a costo di subirne la violenza:

Un caso simile sarebbe quello di chi avesse studiato attentamente le furie e gli appetiti di un vigoroso bestione da lui allevato: …le occasioni e i motivi che lo rendono riottoso o assai docile, quali cose a volta a volta gli fanno emettere urli e quali voci lo calmano o lo irritano. …e a queste nozioni desse il nome di sapienza…senza però aver veduto e senza riuscire a mostrare ad altri quanto realmente differisca la natura del necessario da quella del bene″ (Platone, Repubblica, 493 b).

La strada da intraprendere in realtà, sia in Platone che in S.Weil, oscilla tra indagine intellettuale ( filosofia ) e attenzione al soprannaturale, che si concretizza nel gesto d’amore testimoniato fino al sacrificio di sé.

L’immagine del ″giusto perfetto″ che in Platone assume le sembianze di Socrate si sovrappone in S.W. all’immagine del Cristo, modello peraltro di ogni giusto condannato ingiustamente all’interno di una polis governata non dall’idea di giustizia ma dalla forza che comunemente viene associata alla politica intesa come puro esercizio di potere.

 

″Non ci vuole niente a distruggere la bellezza…bisognerebbe insegnare alla gente a riconoscere e difendere la bellezza. Da quella scende giù tutto″( Peppino Impastato ne I Cento Passi)

 

Dice Platone nel Simposio che per salvarsi dalla morte ed essere felice, l’uomo deve perpetuare se stesso attraverso l’amore, attività che consiste ″ nel partorire in bellezza sia nel corpo sia nell’anima″. Diotima, nel dialogo citato, spiega a Socrate come per natura ogni uomo desidera partorire ma , dice, non si può partorire nel brutto ma solo nel bello, e questa ″ è cosa divina, e negli esseri mortali è cosa immortale″ ( Simposio, 207c ). L’amore, continua la sacerdotessa, desidera l’immortalità in unione col bene, ecco perché ″ l’amore non può non essere anche amore di immortalità″. L’eterna bellezza unisce alla verità eterna, dove si genera la vera immortalità dell’uomo. Il bello è lo strumento che unendo l’uomo alla verità divina lo salva dalla morte.

Una polis armoniosa e giusta è una comunità che si conforma all’idea di bellezza anche per S.Weil: ″ Il criterio che permette di riconoscere che in qualche luogo i bisogni degli esseri umani sono soddisfatti è una fioritura di fraternità, di gioia, di bellezza, di felicità. Dove esistono ripiegamenti su di sé, tristezza, bruttezza, vi sono delle privazioni da guarire.″( cit. da G. Fiori, Simone Weil, tratto da Euvres complètes,II parte). Il denaro, sostiene S.W., distrugge le radici ovunque penetra, sostituendo tutti i moventi con il desiderio di guadagnare.

Ė fin troppo facile applicare questo schema di pensiero alla vicenda di Peppino Impastato: " Occorre che il crimine di disonestà degli uomini pubblici verso lo stato sia davvero punito più severamente della rapina a mano armata" (S.Weil, ibid.).

 

Dalla filosofia alla politica

 

 La politica decide il destino dei popoli ed ha per oggetto la giustizia, che assieme all’arte e alla scienza ha come guida il bene e la verità. Chiunque " abbia fame e sete di giustizia"- e Peppino Impastato è tra questi- si colloca sulla scia del Bene, cui la bellezza sempre rinvia. La lontananza da questa significa lontananza dalla verità e sul piano della vita sociale lontananza dalla politica intesa nel senso alto che ci ha suggerito Platone. Ne consegue che la vita politica ha, come l’arte e la scienza , ugual bisogno di "faticosa invenzione creatrice" . Solo Platone, secondo S.Weil, ha colto questo nesso e visto nell’educazione di un popolo il mezzo per giungere ad una società giusta. Il degrado dell’idea di giustizia è legato alla idolatria della forza, rappresentata nel mondo greco nell’ Iliade, poema della forza appunto. Mentre nel mondo contemporaneo si identifica con l’incontrastato dominio del denaro, cui anche la scienza soggiace. In entrambi i casi la forza si trasforma in violenza, più volgare e spietata oggi rispetto al mondo omerico, che lasciava pur sempre spazio alla pietà.

 

La morte del giusto: una contraddizione irrisolta?

 

Affermare la dimensione politica dell’agire umano, indicare nella bellezza un riflesso del divino, lottare per l’affermazione della giustizia, che cosa comporta concretamente? Peppino Impastato, alla fine di un lungo percorso in cui sono riconoscibili varie stazioni: l’amore per la Parola (Leopardi, Cervantes, Majakovskji, Pasolini); l’impegno politico e la creazione della radio libera; la scelta naturale della non-violenza ( bellissima la scena di Peppino che avanza sorridendo a braccia spalancate contro le ruspe) incontra una morte tragica, violenta, accompagnata come sempre da tentativi mistificatori, dalle calunnie dei carnefici, così come dall’amore e dalla sofferenza degli amici. Ha un senso quella morte? L’ha avuto quella dei molti giusti che si sono sacrificati prima e dopo di lui? Non è facile rispondere, ma possiamo servirci ancora una volta delle parole di Platone e di Simone Weil:

 " Non dobbiamo darci affatto pensiero di quello che di noi potrà dire la gente, ma solo di quello che potrà dire colui che si intende delle cose giuste e di quelle ingiuste, il quale è uno solo ed è la stessa Verità. […] non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene.[… ]Dunque, né bisogna restituire ingiustizia, né bisogna far del male ad alcuno degli uomini, neppure se, per opera loro si patisca qualsiasi cosa.[ ] Ora, fra quelli che hanno questa convinzione e quelli che non l’hanno, non è possibile che ci sia alcuna deliberazione comune, ed è inevitabile che costoro si disprezzino a vicenda" ( Platone, Critone, 48 a sgg., in Tutte le opere, Bompiani, Milano 2000).

"se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini. La struttura di un cuore umano è una realtà fra le altre di questo universo, non diversamente dalla traiettoria di un astro.L’uomo non ha il potere di escludere ogni sorta di giustizia dai fini che egli propone alle azioni sue. Persino i nazisti non hanno potuto farlo.Se un uomo lo potesse, essi l’avrebbero certo potuto."( Weil, La prima radice, ed. di Comunità, Milano 1980).


[1] A dire il vero questa versatilità appartiene a tutte o quasi le grandi opere classiche. Penso al pubblico della Commedia dantesca, o dell’Orlando furioso. Ma il paragone forse più adeguato è con il melodramma italiano, Verdi in particolare, conosciuto e cantato almeno fino alla metà del secolo scorso da italiani di ogni classe sociale.

[2] Mi riferisco in particolare ad un autore come Stanley Cavell, eminente studioso di Wittengstein, che in molte sue opere fa riferimento al cinema, arrivando ad affermare, in modo certo paradossale,"che c’è più filosofia in un balletto di Fred Astaire che in molti saggi accademici." Di lui ricordiamo: La riscoperta dell’ordinario, Carocci, Roma 2001, The World Viewed. Reflections on The ontology of film, Harvard University Press, Cambridge (Ma) 1971; Pursuits of Happiness. The Hollywood Comedy of Remarriage, Harvard University Press, Cambridge 1981, trad. It. Alla ricerca della felicità, Einaudi, Torino 1999.

[3] Ci riferiamo, seppure in modo del tutto parziale a G. Deleuze (L’immagine movimento.CinemaI, Ubulibri, Milano 1984, L’immagine tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 1989);U.Curi, Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, U.Curi, Ombre delle idee, Pendragon, Bologna 2002); Zizek (Il soggetto scabroso, Raffaello Cortina, Milano 2003).

[4] Antonio Gnoli, Quello sguardo dal bordo del letto, in Repubblica, 1-7-2003.

[5] Intervista di A.Gnoli a R.Calasso :Franz Kafka, l’allucinazione si chiama cinema, in Repubblica, 1-7-2003.

[6] Carlo Sini, nell’intervento da lui tenuto all’interno dell’annuale convegno della S.F.I., organizzato ad Urbino nell’aprile 2001, ha indicato il novecento come il secolo del cinema.

[7] Aristotele, Poetica, 51b.

[8] W. Benjamin,, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einaudi, Torino 1966. Tale aspetto è stato sottolineate da U.Curi nel saggio apparso in Iride, a.XV, settembre-ottobre 2002, p. 540.

[9] Platone, Lettera VII, 344c.

[10] Cfr. Le fiabe del lieto fine, psicologia delle storie di redenzione, di Marie-Louise von Franz, red edizioni, Novara (1986), 2004.

[11] Isabella Bossi Fedrigotti, introduzione a: Le fiabe del lieto fine, citato sopra, p. 9.

[12] Julio Cabrera, Da Aristotele a Spielberg, Bruno Mondatori, Milano 2000.