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Comunicazione Filosofica n. 10  maggio 2002

 

La lettura del testo filosofico

Ilaria Malaguti

 

Introduzione.

L’insegnamento della filosofia nelle scuole secondarie svolge un ruolo centrale nel percorso formativo degli studenti. L’apprendimento della filosofia, infatti, consente di operare una riflessione critica sul sapere e sul senso dell’esistenza, di formulare problemi mettendo in discussione certezze e luoghi comuni, di accrescere la capacità di ricercare e approfondire, di promuovere la creatività. In vista del raggiungimento di questi obiettivi formativi e didattici connessi allo studio della filosofia è necessaria la conoscenza diretta dei testi filosofici. Il manuale delinea percorsi storici, presenta l’argomentazione dei filosofi secondo un rigoroso ordine logico, ma, come da più parti si sottolinea, esso non può costituire il referente metodologico unico nell’insegnamento della filosofia. È necessario conoscere il pensiero di un autore direttamente dai suoi scritti. La didattica basata sui testi costituisce infatti uno degli elementi di novità dei Programmi Brocca che sottolineano la necessità di analizzare i testi degli autori più rilevanti, nella loro interezza o in sezioni particolarmente significative. La lettura del testo filosofico, tuttavia, non è semplice: lo studente deve confrontarsi con la complessità della struttura logico-epistemologica, con la specificità dei linguaggi e dei concetti, con la ricchezza dei contenuti; di qui la necessità di indicare una metodologia didattica che permetta di determinare la struttura formale e concettuale di un’opera, di individuarne l’aggancio storico e la natura teoretica  e di avviare un processo di esame critico.

 

1. Perché insegnare filosofia nella scuola secondaria superiore.

In una conferenza tenuta all’Università di Vienna nel 1935, Husserl indica la filosofia come «il fenomeno originario dell’Europa spirituale»[1]. La forma spirituale europea si caratterizza non in senso geografico, ma nell’unità «di una vita, di un’azione, di un lavoro spirituale con tutti i suoi fini, gli interessi, le preoccupazioni e gli sforzi»[2]. Di fronte alla grande tragedia che di lì a pochi anni avrebbe sconvolto la Germania e l’Europa intera, Husserl indica la stanchezza, la Müdigkeit, come il più grave pericolo per l’Europa. La Müdigkeit, per Husserl, è essenzialmente la perdita del senso delle scienze europee; il rischio del tramonto dell’Europa consiste nell’estraniazione rispetto al senso razionale della propria vita, «la caduta nell’ostilità dello spirito»[3]. La rinascita dell’Europa può aver luogo solo «attraverso un eroismo della ragione»[4], a partire cioè dallo spirito della filosofia.  Tuttavia nella situazione dolorosa del tempo presente, scrive Husserl, la filosofia si trova in una «penosa contraddizione esistenziale»[5]: la storia della filosofia si offre quale incessante susseguirsi di teorie e ricerche e il filosofo sa che la propria filosofia, «come quelle di tutti gli altri filosofi presenti e passati, non avrà che l’effimera esistenza di una giornata nell’ambito della flora filosofica che sempre di nuovo si rinnova e poi torna a sfiorire»[6]. Ne La crisi delle scienze europee, Husserl ripercorre il processo di divenire del pensiero filosofico e scientifico, fatto di rivolgimenti, di nuove fondazioni e rivoluzioni, di nuovi slanci e fallimenti. La storia pare non abbia null’altro da insegnare se non che il mondo spirituale dell’uomo, «i legami di vita, gli ideali […] si formano e poi si dissolvono come onde fuggenti [..], il divenire storico non è altro che una catena incessante di slanci illusori e di amare delusioni»[7]. Ma bisogna comprendere che il senso della ricerca in filosofia non è puramente culturale. Attraverso le diverse forme ed espressioni filosofiche emerge come irrinunciabile la «fede nella possibilità della filosofia come compito, nella possibilità di una conoscenza universale. Noi sappiamo di essere chiamati a questo compito in quanto vogliano essere seriamente filosofi»[8].

Ai veri filosofi, che Husserl definisce i filosofi ‘non letterari’, si impone allora un compito di grande importanza: riconoscere che «le vere battaglie spirituali dell’umanità europea sono lotte tra filosofie, cioè tra le filosofie scettiche - o meglio tra le non-filosofie che hanno mantenuto il nome ma che hanno perduto la coscienza dei loro compiti – e le vere filosofie […]. Esse lottano per il loro senso vero e autentico e perciò per il senso di un’autentica umanità»[9]. Il pensiero filosofico è perciò chiamato alla responsabilità nella costruzione della civiltà. Il filosofo ha una responsabilità personale, nel suo essere filosofo, di fronte all’umanità intera. «Noi siamo dunque - e come potremmo dimenticarlo? -  nel nostro filosofare, funzionari dell’umanità»[10]. La vita teoretica, in filosofia, allora, come si legge nelle pagine dello stesso Husserl, è caratterizzata dal rigore del pensiero, ma anche dall’impegno e dalla testimonianza, una responsabilità che Husserl ha vissuto in prima persona. «Io non ho nessun’altra pretesa se non quella di poter parlare, innanzi tutto di fronte a me stesso e quindi di fronte agli altri, con conoscenza di causa e in piena coscienza, come uno che ha vissuto in tutta la sua serietà il destino di un’esistenza filosofica»[11].

Il testo husserliano contiene importanti indicazioni sulla natura dell’interrogare filosofico. La filosofia infatti non è un semplice esercizio del pensiero, uno strumento retorico che permette di affinare le capacità critiche; essa è una messa in questione radicale, è una ricerca che unisce all’istanza critico-intellettiva una forte intensità esistenziale[12]. «Un filosofo - osserva Fritz Waismann - è un uomo che percepisce, per così dire, dei crepacci nascosti nella struttura dei nostri concetti, laddove gli altri vedono solo il levigato sentiero dei luoghi comuni davanti a loro»[13]. Secondo l’immagine suggerita da Waismann, l’attività del filosofare consiste nel cogliere le sconnessioni spesso celate del ghiacciaio e nel rifuggire i facili e levigati sentieri del senso comune. Nel commentare l’espressione di Waismann, Armando Rigobello scrive che le sconnessioni osservate dal filosofo non riguardano la struttura concettuale delle nostre conoscenze, ma investono «la natura del rapporto tra la trama dei concetti e la realtà di cui intende essere proiezione teorica, modello  interpretativo e disciplina di sviluppo»[14]. Compito della filosofia è la costruzione di un sapere critico. Emerge allora il valore formativo della riflessione filosofica che educa «al riconoscimento della diversità, della pluralità, a comunicare, a discutere in modo razionale ad argomentare i problemi»[15].

Appare perciò decisiva la proposta contenuta nei Programmi Brocca di estendere l’insegnamento della filosofia a tutte le scuole secondo precise modalità[16]. La riforma Gentile del 1923 limitava l’insegnamento della filosofia alle sole scuole destinate a formare la classe dirigente. Fino a pochi anni fa, infatti,  lo studio della filosofia era riservato ai licei (classici, scientifici, linguistici, psico-pedagogici) e agli istituti magistrali. I Programmi Brocca presentano un progetto che prevede l’estensione dell’insegnamento della filosofia a tutti gli istituti superiori. Alla base di questa proposta c’è una mutata concezione del ruolo formativo di questa disciplina. Si tratta di chiarire se la filosofia sia semplicemente una disciplina con un contenuto dottrinale «rispetto al quale l’allievo è chiamato ad una acquisizione, la quale non richiede un vero e proprio coinvolgimento personale e diretto da parte dell’insegnate e dell’allievo»[17]; oppure se la filosofia sia «un atteggiamento nel quale l’interrogante è disposto a mettere in questione la totalità di se stesso. In questo caso l’impegno didattico non può ovviamente tradursi nella trasmissione di contenuti dottrinali, ma solamente nella partecipazione ad una ricerca comune»[18]. In tale prospettiva, attraverso lo studio della filosofia lo studente apprende a problematizzare se stesso e la realtà che lo circonda, mediante una riflessione critica sul sapere, sulle idee formulate nel corso della storia.

 

2. La lettura del testo filosofico.

2.1 La centralità della lettura del testo filosofico.

Ne La crisi delle scienze europee, Husserl riconosce l’impossibilità di giungere ad un compiuto e definitivo sistema filosofico. La filosofia «non si presenta così come un progresso continuo fondato su conoscenze acquisite stabilmente […]; essa non è altrimenti rappresentabile che mediante l’antitesi tra errore e conoscenza»[19]. Ponendo la propria dottrina nel contesto storico-filosofico, il filosofo si oppone alla tradizione che lo ha preceduto rispetto alla quale presenta il proprio pensiero coma una svolta. «Ognuno con la propria teoria si presenta come colui che trasforma il mondo e sottrae definitivamente le fondamenta a tutta la filosofia che lo ha preceduto, a tutti i giudizi e a tutte le azioni, le dimostra infondate e non libere»[20]. È emblematica in tal senso l’accusa di Parmenide alle «genti senza giudizio,  pei quali l’essere e il non essere, ritener la stessa cosa è in uso»[21] o la rivoluzione copernicana kantiana e la critica alla storia della metafisica che, scrive Kant, è stata «sinora un semplice brancolare, e quel che è peggio, un camminare a tastoni tra semplici concetti»[22]. Questa constatazione tuttavia non conduce ad affermare la miseria della filosofia, ma mostra che «per quanto riguarda i concetti, i problemi, i metodi, siamo eredi del passato»[23]. Per fare filosofia dunque è necessaria un’analisi storica e critica della storia della filosofia, «occorre indagare ciò che originariamente si perseguiva con la filosofia, ciò che tutte le filosofie e tutti i filosofi, storicamente intercomunicanti, hanno perseguito; e tutto ciò attraverso una considerazione critica di ciò che nella propria finalità e nel proprio metodo rivela quell’aderenza ultima e autentica alla propria origine»[24]. Ciò è possibile solo a partire da un confronto critico con gli autori del passato[25], ma un «autentico incontro comunicativo con l’autore può avvenire soltanto attraverso i testi filosofici, opportunamente contestualizzati sia da un punto di vista diacronico sia da un punto di vista sincronico, e attraverso le attività connesse alla lettura dei testi»[26]. Il testo filosofico costringe lo studente a misurarsi con problemi e modelli concettuali sempre differenti, dal punto di vista semantico (il linguaggio), dal punto di vista sintattico (le modalità di argomentazione) e dal punto di vista storico-critico. «Un vero dialogo e una vera comunicazione in didattica della filosofia si instaura a partire dall’incontro con i testi filosofici, in una significativa esperienza del ‘confilosofare’ con i grandi protagonisti della storia della filosofia»[27]. Lo studio e il confronto con i grandi classici permette di raggiungere alcuni importanti obiettivi formativi, quali la capacità di sintesi e di ricostruzione delle linee di sviluppo di un problema, la sua contestualizzazione e la sua rilevanza per l’attualità.

Si pone allora il problema di individuare metodologie didattiche nella lettura e nello studio dei testi di classici del pensiero filosofico. Il tal senso utili indicazioni metodologiche sono fornite dalla ricerca di Emilio Betti.

 

2.2 Le indicazioni metodologiche di Emilio Betti per la lettura del testo filosofico.

L’ermeneutica di Emilio Betti nasce in polemica con l’ermeneutica esistenziale gadameriana. Nella prefazione a Verità e metodo, Gadamer paragona la propria ricerca alla filosofia kantiana. Kant non aveva avuto l’intenzione «di prescrivere alla scienza moderna come si dovesse comportare per giustificarsi di fronte al tribunale della ragione. Egli poneva invece […] il problema di quali siano le condizioni della nostra conoscenza in base alle quali la scienza moderna è possibile»[28]; così Gadamer non fissa una metodologia normativa per le Geisteswissenschaften, ma indica le strutture trascendentali del comprendere, mette in luce l’universalità del problema ermeneutico, «quel che vi è di comune tra tutti i modi del comprendere»[29]. Nella prospettiva gadameriana, dunque, la questione ermeneutica si definisce come una continua tensione tra «l’identità dell’oggetto e la mutevolezza delle situazioni storiche in cui esso deve venir compreso»[30].

Emilio Betti, che proviene da studi giuridici, critica l’analitica esistenziale quale fondamento dell’ermeneutica e sostiene che la Sinngebung, l’attribuzione di significato propria dell’ermeneutica esistenziale, può condurre a esiti soggettivistici. L’ermeneutica, che Betti intende come una ‘metodica generale delle scienze dello spirito’, deve indicare criteri e canoni interpretativi che garantiscano l’interpretandum nella sua oggettività. In tal senso Betti contrappone, alla Sinngebung, l’Auslegung, ovvero l’interpretazione che «salvaguarda i risultati oggettivi del processo ermeneutico»[31].

Betti indica quattro momenti metodologici che costituiscono «un prius psicologico che dà ragione dell’impulso ermeneutico e insieme un indirizzo deontologico al quale deve costantemente conformarsi l’orientamento del soggetto durante il processo interpretativo»[32]: a) il momento filologico opera nel caso in cui siano necessarie analisi grammaticali e linguistiche per la ricostruzione del senso del testo; b) quando l’analisi filologica non permette di superare le incongruenze e le lacune che il testo presenta, interviene il momento critico. L’intelligenza critica, permette di «sceverare […] il certo dall’incerto, […] l’antecedente dal susseguente cronologico […], la testimonianza attendibile da quella inattendibile, la narrazione esatta da quella probabilmente inesatta»[33]; c) il terzo momento, quello psicologico, indica un aspetto rilevante di cui Betti è debitore a Schleiermacher: si tratta di ricostruire il mondo culturale e spirituale dell’autore in noi, dal di dentro, ovvero di intendere le opere dei grandi autori quali «atti spirituali personali»[34] di cui  bisogna ricostruire le intime motivazioni; d) infine il momento tecnico-morfologico interviene nella ricostruzione dell’intero mondo culturale dell’autore. «L’oggetto da interpretare non solo è atto spirituale e momento di vita, ma ha anche un contenuto spirituale, la cui coerenza è da intendere anzitutto in sé, nel suo aspetto oggettivo e tecnico, indipendentemente dalle condizioni temporali del suo realizzarsi»[35].

I momenti del processo ermeneutico si articolano a loro volta in quattro canoni ermeneutici fondamentali:

a) il canone dell’autonomia ermeneutica dell’oggetto, ovvero dell’immanenza dell’oggetto. Il processo interpretativo avviene in una costante dialettica che nasce dall’antinomia tra l’ineliminabile soggettività dell’interprete e l’oggettività del senso dell’opera, la sua coerenza e razionalità. Questo primo canone è animato soprattutto dall’esigenza del rispetto dell’oggetto nella sua alterità e si può riassumere nel motto che Betti riprende dall’ermeneutica giuridica, sensus non est inferendus sed efferendus: «Il significato di cui si tratta non si deve indebitamente e surrettiziamente introdurre nella forma rappresentativa, ma si deve, al contrario, ricavare da essa»[36].

b) Il secondo canone è quello della totalità, della coerenza dei significati. Si tratta del criterio già formulato da Schleiermacher  della reciproca illuminazione tra il tutto e le parti; questa lettura, per cui ogni singola parte di un’opera si comprende alla luce del tutto e il tutto alla luce delle parti, non chiude il processo ermeneutico in un circolus vitiosus, ma, al contrario, dona una progressiva profondità e una maggiore intensità all’interpretazione.

c) Il canone dell’attualità dell’intendere. Come Gadamer, Betti riconosce che nel processo interpretativo di un evento passato, l’interprete muove dalla propria storicità e soggettività; la totalità spirituale dell’interprete costituisce un prezioso contributo per l’interpretazione. «Con questo […] - precisa Betti - non si vuole disconoscere la autonomia dell’oggetto da interpretare, la sua storicità, la sua alterità rispetto al soggetto»[37]. Si tratta piuttosto di comprendere che la soggettività dell’interprete costituisce una condizione di possibilità indispensabile all’interpretazione. «L’ideale di lasciar parlare da sé le cose senza mettervi nulla di proprio, genera il falso preconcetto di una ‘nuda oggettività’ che, per così dire, si raccolga da terra e sia raggiungibile senza la collaborazione dell’interprete e senza il sussidio delle sue categorie mentali. Ora, a bandire un preconcetto così infondato, ecco che all’interprete si  richiede di rimanere costantemente consapevole del contributo che la sua mentalità apporta, e deve apportare, al processo interpretativo»[38]. Secondo questo terzo canone, allora, l’interprete è chiamato a ripercorrere in se stesso il processo genetico «a ricostruire dal di dentro e a risolvere ogni volta nella propria attualità un pensiero, un’esperienza di vita, che appartiene al passato, vale a dire, ad immetterlo come fatto di esperienza propria, attraverso una specie di trasposizione, nel circolo della propria vita spirituale, in virtù della stessa sintesi con cui lo riconosce e ricostruisce»[39].

d) Il quarto ed ultimo canone è quello dell’adeguazione dell’intendere: corrispondenza di significato ovvero consonanza ermeneutica. Secondo Betti è necessaria un’apertura mentale che permetta all’interprete di elevarsi al medesimo grado dello spirito che gli parla. Questo costituisce uno sforzo intenzionale, per farsi prossimi all’oggetto: «L’interprete deve sforzarsi di mettere la propria vivente attualità in intima adesione e armonia col messaggio che […] gli perviene dall’oggetto, per modo che l’una e l’altro vibrino in perfetto unisono»[40].

Il testo di Betti contiene indicazioni metodologiche utili per la didattica della filosofia.

 

2.3 L’oggettività del testo.

L’oggettività nella lettura di un testo è sempre un’oggettività mediata. L’interprete infatti «presuppone una determinatezza oggettiva della teoria, che però può essere a sua volta dimostrata sempre e soltanto nella conoscenza soggettiva del processo di determinazione di questo presupposto»[41]. Il significato oggettivo del testo da un lato dipende interamente dal soggetto, dall’altro deve sfuggire all’arbitrio soggettivo del lettore. A tal proposito Reinhard Brandt scrive che è un idolo l’opinione per cui «sarebbe possibile comprendere gli autori solo dall’interno delle trame delle nostre concezioni storiche personali»[42]. In molti casi, come sottolinea Brandt, la lettura filosofica del testo filosofico «si modella sulle diverse attitudine sistematiche dell’interprete ovvero si occupa della filosofia di un autore solo in quanto la scompone con categorie proprie»[43]. Come Brandt riferisce, la filosofia razionale in Kant e Hegel, il materialismo storico in Marx, la compresione dell’esserci in Heidegger costituiscono schemi a priori a partire da quali comprendere l’intera storia della filosofia. Ogni atto interpretativo diverrebbe allora un atto poietico, l’accesso al testo dipenderebbe unicamente dalla rilevanza che esso ha per il pensiero dell’interprete e la comprensione di un testo si risolverebbe nella «necessità del travisamento» affermata da Harold Bloom[44].

Queste indicazioni rivestono una grande importanza nell’ambito della didattica dell’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori.

L’intelligenza del testo filosofico esige che il docente mostri agli studenti la differenza di approccio tra il critico e il grande autore. Il critico infatti è mosso dall’intento di riconoscere il valore oggettivo del testo filosofico; in base a precise indicazioni metodologiche, egli «conferisce al risultato delle sue ricerche una rivendicazione-di-validità e le pone sotto l’egida dell’oggettività, almeno provvisoria, poiché verifica e fonda le sue asserzioni su asserzioni contenute nelle opere […]. Ciò che egli dice è vero  oppure falso e si espone alla critica scientifica»[45]; il grande autore invece, è preso dal proprio pensiero, legge i testi di altri filosofi in rapporto alla propria personale creatività; la sua lettura quindi non può essere equiparata a quella del critico, ma deve essere considerata quale grande contributo teoretico.

Ma un altro aspetto deve essere sottolineato.

La necessità del travisamento può avere ulteriori conseguenze sul piano didattico. Un pericolo che da più parti viene sollevato è che il testo filosofico venga letto attraverso la prospettiva dei singoli studenti. «Didatticamente questo potrebbe tradursi in una procedura che vede l’emergenza del problema filosofico in una discussione libera in classe e poi la lettura del testo come opportunità di ricerca di riscontri o aiuti contenutistici per i propri vissuti soggettivi. In questo caso il testo viene filtrato dai propri vissuti soggettivi: si prende quello che si vuole dal testo e si comprende quello che si vuole comprendere»[46]. Per evitare il verificarsi di tali situazioni, la lettura del testo deve essere condotta secondo precisi criteri metodologici.

 

2.4 La metodologia.

a) l’analisi semantica.

Nello studio dei testi il lettore deve mettere in atto un preciso procedimento metodologico. Esso, come peraltro suggerisce Betti, può iniziare con la determinazione della struttura formale di un testo, a partire dall’analisi della semantica dei concetti e dello stile[47].

Questa prima fase di analisi semantica non è puramente preliminare. Infatti poiché il pensiero di un autore prende forma e si articola attraverso la struttura del linguaggio, la comprensione dell’universo linguistico dell’autore introduce al suo pensiero: «La struttura  in cui si costruisce il linguaggio, è quella della sequenza discorsiva; ma questa stessa sequenza (Nacheinander) è anche quella in cui segue l’intendere. Sicché la struttura del linguaggio e quella dell’intendere coincidono»[48]. L’analisi semantica è necessaria per conoscere il significato specifico dei concetti dell’autore[49], acquisire la definizione dei termini e, ciò vale soprattutto per i giovani studenti, prendere consapevolezza della frattura esistente tra il linguaggio ordinario e il linguaggio filosofico. Naturalmente questo approccio al testo non si limita unicamente all’analisi della struttura logica della lingua, della morfologia e del significato delle parole. L’aspetto strettamente linguistico deve avere un orientamento storico, l’analisi del linguaggio e del sistema simbolico che un testo presenta si deve rapportare  al contesto storico culturale cui l’autore appartiene. Ciò costituisce la «densità esistenziale» e della «densità storica» cui l’analisi semantica deve riferirsi[50]. Diviene così possibile cogliere la ricchezza, la molteplice determinazione dei significati dell’opera, superare il senso primario e «decifrare il senso nascosto nel senso apparente […], dispiegare i livelli di significazione impliciti nella significazione letterale»[51].

 

b) lo stile.

Nella determinazione della struttura linguistica e concettuale del testo anche le osservazioni sullo stile rivestono una particolare rilievo dal punto di vista filosofico. Brandt sottolinea quanto lo stile sia importante per la comprensione dell’opera portando l’esempio della Repubblica di Platone: «Nella Repubblica, come è noto, viene fondata e spiegata la città ideale bella, Kallipoli; ma essa è anche in balia della decadenza, e l’ingiustizia vi subentra alla giustizia. Com’è possibile che dal bene nascano il male e la cattiveria? Nel discorso delle Muse la decadenza viene spiegata sulla base del fallimento di complicatissime proporzioni numeriche. L’interprete si trova perplesso di fronte a questa singolare cabala del capovolgimento. Nella dissertazione di Dorothee Hellwig (1980) viene dimostrato, con strumenti filologici, che il discorso delle Muse ha una valenza ironica. Sotto questa luce il passo diventa comprensibile; Platone non espone una teoria riguardo al mutamento improvviso ma riguardo alla crisi che ne segue»[52].

L’importanza dello stile risulta evidente sotto due aspetti: da un lato esso costituisce un sistema di riferimento di un determinato ambiente storico e condiziona profondamente l’autore nel suo modo «di sentire d’intuire, di vedere e di udire, di rappresentare e d’intendere»[53]; d’altro canto lo stile è anche una forma interiore della lingua, «che prende poi, nel linguaggio […] scritto di ognuno, un atteggiamento individuale che non è indifferente al pensiero»[54]. Infatti è in rapporto al diverso modo  di sentire e di intuire, nella reciprocità di uno stile inteso ora quale forma esterna, ora quale forma interna[55], che «si fa diversa non tanto la capacità tecnica (il Können), quanto l’aspirazione, l’assunto, l’ideale (il Wollen) da cui l’energia formativa muove»[56].

Naturalmente il ruolo guida del docente è fondamentale, soprattutto in questa fase; egli deve fornire agli allievi strategie e tecniche per cogliere i linguaggi e i principi epistemologici degli autori, definire i problemi filosofici, i termini, i concetti, le categoria, gli stili espressivi e cognitivi dei testi che vengono presentati.

 

c) la contestualizzazione.

 «Per intendere un linguaggio fa mestieri superarne le ambiguità non solo linguistiche, ma anche metalinguistiche, e identificarne, coi riferimenti, il vero senso. Ma a questo fine l’interprete deve spingersi al di là  della pura forma linguistica ed allargare l’indagine dai riferimenti diretti a quelli indiretti, riconoscibili dalla situazione nel cui contesto il discorso s’inquadra (context of situation) e così ricostruire la totalità (universe) del discorso»[57].

Come è apparso evidente parlando dello stile, la lettura di un testo è possibile solo a partire dal contesto storico-sociale in cui esso ha avuto origine. Ancora Brandt offre un importante esempio: «L’apologia di Socrate, il Critone, la Repubblica di Platone non rientrano nella cerchia ‘del’ pensiero filosofico astratto, ma intervengono in discussioni sul processo intentato a Socrate e sulle forme strutturali della polis. Se queste discussioni non vengono prese in considerazione dall’interpretazione, essa perde il contatto con gli scritti, riscontrando in essi solo idee atemporali, ovvero solo le proprie idee»[58]. Si tratta di inquadrare il testo nell’ambiente storico in cui è nato, dando evidenza a due aspetti: la personalità dell’autore deve essere collocata nella cultura e nei valori di una data epoca, nello spirito nazionale del popolo cui l’autore appartiene; si deve poi mostrare quanto un problema sia strettamente connesso allo sviluppo della cultura, della società, della vita spirituale di un popolo. Pare perciò opportuno evidenziare i nessi che legano quel problema alle situazioni storiche peculiari (dimensione sincronica) e ripercorrere l’evoluzione delle diverse soluzioni che nel corso della storia sono state date a quel medesimo problema (dimensione diacronica).

Tutte le ricerche dedicate alla didattica della filosofia sottolineano la necessità della contestualizzazione. «I valori del testo filosofico - scrive Mario De Pasquale - sono fruibili solo se il testo viene collocato in un contesto: del pensiero globale dell’autore, del tema o problema filosofico cui fa riferimento, della tradizione e della cultura del tempo»[59].

 

d)la significatività del testo nella presente attualità del lettore.

Certamente contestualizzare un testo inserendolo in un ampio dibattito culturale è di fondamentale importanza per garantire l’esattezza della lettura. Tuttavia Walter Benjamin mette in luce l’aspetto di significatività del testo (inteso come fenomeno storico) per l’attualità dell’interprete. A proposito dell’interpretazione delle opere letterarie Benjamin scrive che non bisogna esporre le opere della letteratura nel loro tempo, ma considerare il tempo in cui noi le conosciamo in rapporto al tempo in cui sono sorte. Nella Prefazione gnoseologica a Il dramma del barocco tedesco, si mette in guardia l’interprete dal considerare l’opera come prodotto storico da inserire in un continuum che Benjamin considera pseudologico. «Il valore dei frammenti di pensiero è tanto più decisivo quanto meno essi sanno commisurarsi immediatamente con la concezione di fondo e da essi dipende lo splendore della rappresentazione, della misura in cui quello del mosaico dipende dalla qualità del vetro fuso»[60].  «Fin dai primi studi, infatti, Benjamin aveva individuato l’idea secondo cui la trasformazione del passato in storia è funzione del presente dello storico, del momento nel tempo e del luogo nello spazio in cui si genera il discorso»[61]; questo non significa negare la storia, ma fare della storia  un «oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello riempito dell’adesso (Jetztzeit[62].

È illusoria la pretesa di ricostruire il passato come accumulo di fatti[63]. «L’autentica dimensione temporale entro la quale si colloca la storia, oltre che disomogenea, e quindi non omologabile alla temporalità delle scienze naturali, è tutt’altro che vuota, anzi è già disseminata di riferimento al futuro»[64]. L’attività dello storico allora è un’attività euristica in funzione del  presente, dell’adesso in rapporto al quale gli eventi di un’epoca passata diventano significativi. «Il momento temporale si lascia determinare interamente  solo grazie al confronto […] con l’adesso della conoscibilità»[65]. L’attualizzazione che così si verifica prescinde dalla distanza temporale, ma non la elimina; essa non neutralizza il tempo storico, ma è possibile grazie a profonde affinità elettive. «Si tratta quindi di percepire l’esistenza di una correlazione, per quanto sia stata finora sotterranea e ignorata, tra l’attimo presente ed un momento passato, il darsi di un’affinità profonda di cui l’adesso è insieme la causa remota e il rivelatore attuale»[66]. Nell’adesso l’oggetto storico «può ottenere un grado di attualità più alto che al momento della sua esistenza»[67].

Le considerazioni di Benjamin sono di grande importanza: contro una concezione erudita della storia e dei prodotti storici[68], il passato ha sempre un significato per l’attualità, il testo nella sua oggettività mantiene una significatività sempre nuova nel corso della storia.  «L’autentico significato del passato sul presente vuol dire che solo dopo aver compreso il passato nella sua realtà storica, attraverso un rigoroso lavoro ermeneutico; e dopo aver ricostruito come quel passato è giunto fino a noi, e quali influssi abbia esercitato nel corso della storia che giunge fino a noi; solo allora siamo resi capaci di ‘comprendere’ senza ambiguità il reale valore di significatività che quel passato riveste per la nostra vivente attualità»[69].

In tal senso in didattica della filosofia si sottolinea che «il testo ha un valore storico ‘atopico’, in senso assoluto. Il testo filosofico è capace di comunicare senso e profondità di pensiero anche al di là del tempo, in modo vivo, instaurando un’interazione coi lettori, costringendoli a rispondere in qualche modo alle sollecitazioni della ricerca filosofica»[70]. Se il testo non deve essere letto attraverso la percezione soggettiva degli studenti, tuttavia il testo interpella e solleva problemi che pongono in una situazione di dubbio e ricerca e anche in questo consiste la valenza formativa della filosofia. «Nel ripetere un’esperienza di ricerca a partire dai testi filosofici, gli studenti hanno la possibilità di maturare i concetti, le idee, di elaborare ipotesi di soluzione dei problemi, elaborare ipotesi ragionate di fronte alle questioni e di metterle alla prova nella discussione in classe»[71]. Il testo cattura lo studente dal punto di vista intellettivo e affettivo «nel momento in cui riesce ad evocare, attraverso la mediazione dell’elemento simbolico, esperienze e aspettative, concetti e pensieri del lettore»[72]. Egli viene allora trasportato «fuori del proprio universo, o meglio il lettore entra con i propri mondi di senso e di esperienze nell’universo di senso dell’autore e lo attraversa esponendosi alle sue domande, alle sue sollecitazioni, alle sue offerte di senso»[73].

e) il metodo dell’autore.

Nelle operazioni che gli studenti svolgono nella lettura dei testi un aspetto importante è l’individuazione del metodo usato dall’autore. La validità teoretica del pensiero di un autore, infatti, dipende dalla giustificazione metodologica della propria teoria cioè da una sua specifica fondazione. Si tratta di un’analisi riguardante il modo di procedere usato dall’autore, l’ordine argomentativo, le motivazioni logiche, la struttura del testo[74]. Nell’ambito della didattica, cogliere il metodo di ricerca di un autore è fondamentale per la comprensione della sua opera.

Un esempio didatticamente molto significativo è costituito dal metodo cartesiano. I fundamenta mirabilis scientiae  vengono esposti nel Discorso sul metodo[75] e ripresi nelle Meditazioni metafisiche[76] e sono la chiave per comprendere l’intera filosofia cartesiana, come lo stesso Cartesio indica, nella risposta alla II obiezione contro le Meditazioni[77].

 

Conclusione.

È compito dell’insegnamento della filosofia condurre i giovani ad una esperienza diretta dell’impegno filosofico; per questo motivo, la lettura del testo filosofico costituisce un momento imprescindibile della prassi didattica. Gli studenti devono essere condotti all’individuazione del contesto storico in cui sorge un testo; al tempo stesso devono imparare a rapportarsi al contenuto di verità che l’opera stessa porta o suggerisce. Non è sempre facile, ma è necessario sforzarsi di condurre gli allievi a  riconoscere e valutare criticamente le ragioni che sorreggono le tesi degli autori e a darne valutazione nella prospettiva anche della storia che segue, senza che vada mai smarrita, tuttavia, la tensione intellettuale e morale verso l’oggettività del significato. In questo si fa opera di chiarezza. Si tratta conviene condurre gli allievi ad alcune, chiare idee di fondo piuttosto che a letture un po’ più ampie, ma confuse e disordinate.

Il docente deve preoccuparsi innanzi tutto di produrre «l’acquisizione e la capacità di elaborazione del senso, della distanza storica di fronte alla peculiarità dell’alterità del testo. Il rispetto della sua storica identità, l’attitudine a comprenderlo secondo i suoi stessi termini»[78]. Si pone qui uno dei momenti più interessanti del lavoro del docente. Infatti, gli storicismi che sono stati dominanti nella cultura europea degli ultimi due secoli, hanno spesso dissolto il valore delle opere filosofiche all’interno di un interrotto fluire delle civiltà verso mete riguardanti l’umanità in generale, non tanto il formarsi responsabile di coscienze responsabilmente critiche. Ma da Goethe viene una osservazione che conduce ad un diverso punto di vista: «I tempi passati sono per noi un libro sigillato con sette sigilli. Quello che voi chiamate spirito dei tempi, altro in fondo non è che lo spirito di quei signori, nello spirito dei quali si rispecchiano i tempi»[79] Goethe intende dire che proprio la creatività degli spiriti liberi apre la via a ciò che, a posteriori, può apparire come l’impersonale spirito del tempo.

In tono diversamente misurato, ma pur forte ed originale, Rosmini affidava proprio alla filosofia, attraverso la formazione al ragionamento e, più ancora, grazie della scoperta del fondamento originario di ogni possibile sapienza, il compito di condurre gli uomini ad una radicale interrogazione della realtà. I contenuti dei testi del passato, allora, «non solo rivivono nelle dimensioni del presente, ma promuovono aperture di nuovi scenari di senso, di nuovi orizzonti problematici, o la rielaborazione di forme nuove di vecchi problemi»[80]. In tal modo il testo non solo è lo strumento privilegiato e principale per la conoscenza dei filosofi, ma è occasione di confronto critico e di messa in questione del proprio orizzonte storico, esistenziale e culturale.

NOTE:


[1] E. Husserl, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, in La crisi delle scienze europee, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 334.

[2] Ivi, p. 332.

[3] Ivi, p. 358.

[4] Ibidem.

[5] E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 46.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 36.

[8] Ivi, p. 46.

[9] Ivi, p. 44.

[10] Ivi, p. 46.

[11] Ivi, p. 47.

[12] Risulta in tal senso emblematica la contrapposizione tra Callicle e Socrate nel Gorgia di Platone, cfr. 485 C-E.

[13] F. Waismann, How I see philosophy, in Aa.Vv, Contemporary British Philosophy, Lewis, London, 1961, p. 448: «A philosopher is a man who senses as it were hidden crevices in the built of our concepts where others only see the smooth path of commonplaceness before them».

[14] A. Rigobello, Perché la filosofia, La Scuola, Brescia, 1979, p. 9.

[15] M. De Pasquale, Didattica della filosofia, in Filosofia per tutti. La filosofia per la scuola e la società del 2000, Franco Angeli, Milano, 1998, p. 27. Le finalità dell’insegnamento della filosofia sono chiaramente indicate nei Programmi Brocca: formazione culturale completa di tutti gli studenti e loro maturazione, capacità di esercitare la riflessione critica, uso di strategie argomentative, flessibilità nel pensiero.

[16] Cfr. Programmi Brocca, § 3.7: «Quanto all’insegnamento della filosofia - positiva specificità della scuola italiana - non ha giustificazione la proposta di estenderlo, nella forma attuale di ricostruzione storica, alle scuole non liceali. Bisogna pensare a qualche cosa che sia valido per tutti (ma non prima dei 15/16 anni) quindi anche (e sono la maggioranza) per i giovani degli attuali istituti tecnici e professionali».

[17] L. Illetterati, Cosa insegna chi insegna filosofia?, in «Verifiche», 2001, n. 3-4, pp. 370-371.

[18] Ivi, p. 371.

[19] R. Brandt, La lettura del testo filosofico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 39.

[20] Ivi, p. 41.

[21] Parmenide, fr. 6, in I Presocratici, Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, Bur, Milano, 1991, p. 279.

[22] I. Kant, Critica della Ragion Pura, Prefazione alla seconda edizione, Torino, Einaudi, 1957, p. 22.

[23] E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 46.

[24] Ivi, pp. 46-47.

[25] Cfr. M. De Pasquale, La didattica della filosofia, in Filosofia per tutti,  p. 32: «La mera informazione sulla storia della filosofia attraverso il racconto che ne fa il professore o il manuale, non produce di per sé l’acquisizione di un sapere filosofico, ma mera conoscenza storica o erudizione».

[26] M. De Pasquale, La filosofia nella scuola del 2000, in Filosofia per tutti, p. 45.

[27] M. De Pasquale, Il confilosofare nell’apprendimento della filosofia, in Filosofia per tutti, p. 66.

[28] H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1988, p. 7.

[29] Ivi, p. 10.

[30] Ivi, p. 360.

[31] G. Mura, Prefazione in E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, Città Nuova, Roma, 1987, p. 37. Cfr. G. Mura, Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Città Nuova, Roma, 1997, p. 288: «Betti, sulla scia del realismo storico vichiano, ritiene che le opere dell’uomo sono interpretabili e conoscibili dall’uomo, ma mai riconducibili alla soggettività interpretante; tali opere appartengono ad un flusso storico in cui non vi è mediazione che funga da assorbimento del passato nel presente, né dell’oggetto nel soggetto e pertanto esse restano altre e diverse e, come tali, e proprio in quanto tali, interpretabili […]. Gadamer, sulla linea di Heidegger, ritiene che il problema ermeneutico consista principalmente nella riflessione […] su come il passato storico possa essere rivissuto - e storicamente compreso - dalla nostra esperienza presente».

[32] E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, Giuffré, Milano, 1990, p. 291.

[33] Ivi, p. 292.

[34] Ivi, p. 294.

[35] Ivi, p. 295.

[36] E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, p. 66.

[37] E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, p. 317.

[38] Ivi, p. 315. Betti pare qui accettare il principio ermeneutico della precomprensione. Tuttavia, come precisa Gaspare Mura, questo principio - che Betti precisa con la denominazione di canone dell’attualità dell’intendere - è «profondamente diverso dalla precomprensione dell’ermeneutica esistenziale. Soprattutto questo canone non può essere inteso in sé né adoperato indipendentemente dai principi che regolano il primo canone ermeneutico dell’autonomia o dell’immanenza dell’oggetto dell’interpretazione» in G. Mura, Prefazione a E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, p. 16.

[39] E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, p. 314.

[40] Ivi, pp. 319-320.

[41] R. Brandt, La lettura del testo filosofico, p. 11.

[42] Ivi, p. IX.

[43] Ivi, p. XVII.

[44] Cfr. H. Bloom, La Kabbalà  e la tradizione critica, Milano,1981.

[45] R. Brandt, La lettura del testo filosofico, p. XVI.

[46] M. De Pasquale, Il confilosofare nell’apprendimento della filosofia, in Filosofia per tutti, p. 75.

[47] In ambito ermeneutico, Paul Ricœur propone di sostituire la via corta, «quella di una ontologia della comprensione, alla maniera di Heidegger» (in P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano, 1977, p. 20), per il quale la comprensione è un modo di essere e invita a  percorrere un’altra strada, la via lunga che inizia dall’analisi del linguaggio. «È in primo luogo e sempre nel linguaggio che viene ad esprimersi ogni comprensione ontica e ontologica. Non è vano dunque cercare sul versante della semantica un asse di riferimento per tutto l’insieme del campo ermeneutico» in P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, p. 25.

[48] E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, p. 358.

[49] Brandt offre un importante esempio: «Quando Kant parla della geometria intende unicamente e soltanto quella di Euclide, che interpreta come conoscenza della struttura dello spazio intuitivo reale. Se il lettore intende una geometria che si riferisce a spazi diversi dallo spazio tridimensionale non coglie l’intenzione dell’autore» in R. Brandt, La lettura del testo filosofico, p. 94.

[50] Ciò permette di risolvere problemi interpretativi spesso offerti dal testo, soprattutto attraverso il metodo della comparazione. «L’autore può ricorrere a determinati concetti riferendosi […] a un correlato semantico. Se il significato di un concetto non è chiaro in modo inequivocabile sarà compito dell’interprete esaminare a che cosa l’autore rinvii, in base al contesto nel quale tale rinvio compare. Nel primo caso il significato deve essere verificato, nel secondo si tratta di decifrare l’accenno e si deve eventualmente anche chiarire per qual motivo l’autore non si riferisca apertamente e in modo diretto al correlato semantico» in R. Brandt, La lettura del testo filosofico, p. 94.

[51] P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, p. 26.

[52] R. Brandt, La lettura del testo filosofico, p. XXVIII.

[53] E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, p. 337; cfr. G. Marpurgo Tagliabue, Il concetto di stile, Bocca, Milano, 1951, p. 312. In questo testo l’autore sottolinea che lo stile è una realtà storica, attraverso cui lo scrittore orienta il proprio lavoro noi interpretiamo l’opera. «Usando un termine sonoro si può dire che lo stile è principio di trasfigurazione; usando un termine afono si può chiamarlo principio ermeneutico».

[54] E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, p. 336.

[55] Cfr. ivi, p. 331: «Si tratta di ricercarvi e di scoprirvi idee, intuizioni, aspirazioni, sentimenti, intonazioni d’animo, atte a indicare, per segni o simboli, o sintomi, un radicato atteggiamento, un orientamento spirituale ricorrente, nel quale si manifesti, ora, lo spirito personale del singolo soggetto pensante, ora la vivente spiritualità di una comunione e di un’epoca sul piano oggettivo».

[56] E. Betti, Teoria generale dell’interpretazione, p. 337.

[57] Ivi, pp. 211-212.

[58] R. Brandt, La lettura del testo filosofico, p. XXIX.

[59] M. De Pasquale, Il confilosofare nell’apprendimento della filosofia, in Filosofia per tutti, p. 77. Su questo tema cfr. anche R. Bodei, Testo e contesto per la storia della filosofia, in Aa.Vv, Il testo e la parola. L’insegnamento della filosofia nell’Europa contemporanea, Sei, Torino, 1991.

[60] W. Benjamin, Il dramma del barocco tedesco, Einaudi, Torino, p. 5.

[61] S. Mosès, La storia e il suo angelo. Rosenweigh, Benjamin, Sholem, Anabasi, Milano, 1993, p. 104.

[62] W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino,  1997, tesi XIV, pp. 43-45.

[63] La storia per Benjamin «riposa come raccolta in un punto focale» (in W. Benjamin, Metafisica della gioventù, Einaudi, Torino, 1983, p. 137), cioè il presente, l’istanza originaria che genera il tempo storico.

[64] G. Botola, Lemmi, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, p. 141.

[65] W. Benjamin, Sul concetto di storia, Materiali dal Passengen-Werk, Q°, 21, p. 136.

[66] G. Botola, Lemmi, in W. Benjamin, Sul concetto di storia, p. 142.

[67] W. Benjamin, Sul concetto di storia, Materiali dal Passengen-Werk, K 2,3, p. 114. Non può tuttavia essere dimenticato che le considerazioni sull’adesso della conoscibilità (Jetzt der Erkennbarkeit) rivestono in Benjamin un profondo senso messianico, esemplificato dalla grandiosa immagine dell’Angelo della storia. Cfr. W. Benjamin, Sul concetto di storia, tesi IX.

[68] Cfr. la critica nietzschiana all’erudito, «colui che custodisce e venera - colui che guarda indietro con fedeltà a amore, verso il luogo onde proviene, dove è divenuto» in F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. II considerazione inattuale, Adelphi, Milano, 1994, p. 24. Immagine dell’erudito è l’uomo moderno che «si porta in giro un’enorme quantità di indigeribili pietre del sapere, che poi all’occorrenza rumoreggiano puntualmente dentro di noi» in F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, p. 32.

[69] G. Mura, Prefazione a E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, p. 36.

[70] M. De Pasquale, La filosofia nella scuola del 2000, in Filosofia per tutti, pp. 45-46.

[71] M. De Pasquale, Il confilosofare nell’apprendimento della filosofia, in Filosofia per tutti, p. 73.

[72] Ivi, p. 78.

[73] Ibidem.

[74] Secondo Brandt questo è il fondamento di una lettura determinante-oggettiva del testo filosofico, cui si contrappone un’interpretazione riflettente-soggettiva. «L’interprete oggettivo […] cerca per prima cosa di afferrare le idee di dimostrazione e di fondazione delle teorie filosofiche in quanto tali senza far entrare in gioco le proprie idee come elementi costitutivi ed ineliminabili» in R. Brandt, La lettura del testo filosofico, p. 122. Completamente differente è invece la posizione di Benjamin per il quale l’oggetto della filosofia è non la conoscenza, ma la verità ovvero le idee. Di conseguenza anche il problema metodologico viene affrontato in maniera completamente differente. «La conoscenza - scrive Benjamin - è interrogabile, ma non la verità […]. Nell’essenza della verità l’unità è perfettamente esente da mediazioni ed è diretta determinazione. Di questa determinazione, in quanto determinazione diretta, è proprio di non poter venire interrogata» in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, p. 6. Nelle intenzioni di Benjamin, la filosofia non deve essere affrontata tramite una rigorosa sistematicità metodica, more geometrico. Le idee, oggetto della filosofia, si rivelano nella visione, non in un processo metodologico costruito sul modello delle scienze. «Affinché la verità si rappresenti […] non è affatto richiesto un nesso deduttivo scientifico privo di lacune […]. Una simile compiutezza sistematica non ha in comune con la verità più di qualsiasi altra rappresentazione che cerchi di garantirsi la verità mediante mere conoscenze e nessi di conoscenze. Quanto più la teoria della conoscenza scientifica cerca, penosamente, di dar dietro alle varie discipline, e tanto più chiaramente si palesa la sua incoerenza metodica» in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, p. 9.

[75] R Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere,  Laterza, Bari, 1967, vol. I, p. 142: «Non accogliere mai nulla per vero, che non conoscessi esser tale con evidenza […]; dividere ogni problema preso a studiare in tante parti minori […]; condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici a più facili a conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza dei più complessi […]; far dovunque delle enumerazioni»

[76] R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, in Opere, p. 326: «La maniera di dimostrare è doppia: l’una si fa per mezzo dell’analisi o risoluzione e l’altra per mezzo della sintesi o composizione. L’analisi mostra la vera via, per mezzo della quale una cosa è stata metodicamente scoperta, e fa vedere come gli effetti dipendono dalle cause […]. La sintesi, al contrario, per una via affatto diversa, e come esaminando le cause per i loro effetti».

[77] R Cartesio, Risposte alla II obiezione, in Opere, vol. I, pp. 326-327: «L’ordine consiste solamente in ciò, che le cose che sono proposte le prime, debbono essere disposte in modo tale che siano dimostrate dalle sole cose che le precedono. E certamente ho cercato, per quanto ho potuto, di seguire quest’ordine nelle mie meditazioni […].

La maniera di dimostrare è doppia: l’una si fa per mezzo dell’analisi o risoluzione e l’altra per mezzo della sintesi o composizione. L’analisi nostra la vera via, per mezzo della quale una cosa è stata metodicamente scoperta, e fa vedere come gli effetti dipendono dalle cause […]. La sintesi al contrario […] dimostra […] chiaramente tutto quello che è contenuto nelle su conclusioni […]; ma non dà , come l’altra, un’intera soddisfazione agli spiriti di quelli che desiderano d’imparare, perché non insegna il metodo con quale la cosa è stata trovata […]. Per conto mio, ho seguito solamente la via analitica nelle mie meditazioni, perché essa mi sembra la più vera e la più acconcia per insegnare».

[78] M. De Pasquale, Didattica della filosofia. La funzione egoica del filosofare, Franco Angeli, Milano,1994, p. 104.

[79] W. Goethe, Faust, Feltrinelli, Milano, 1965, vol. I, p. 31.

[80] M. De Pasquale, Didattica della filosofia. La funzione egoica del filosofare, p. 164.