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Comunicazione Filosofica n. 10 - maggio 2002

 

Antonio Postorino interviene in merito alla nuova proposta editoriale che verrà presentata il 28 ottobre 200 a La Spezia. Si tratta di una rivista di filosofia che nasce da una esperienza di autoformazione di un gruppo di docenti affiliati alla Società Filosofica Locale e che avvia una linea di ricerca innovativa.

 

Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo.
 
Hegel, Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto

 

Una nuova rivista di filosofia ha il primo compito, oggi soprattutto, di spiegare le ragioni della propria esistenza. Il panorama della ricerca filosofica è infatti sommamente sfaccettato e variegato, e si ha come l’impressione, per dirla un po’ alla buona, che una pubblicazione in più o in meno non faccia alcuna differenza, Cercheremo dunque di spiegare con la maggior precisione possibile il significato del progetto di cui la rivista annuale “Glaux”, espressione cittadina della Società Filosofica Italiana, si fa portatrice.

E’ un progetto per ora quasi soltanto annunciato, nella sede di questo primo numero che tecnicamente non è altro che la pubblicazione degli Atti dei corsi di autoaggiornamento realizzati dai docenti di filosofia alla Spezia con estensione provinciale nel triennio 1996-98. Non si tratta d’altronde di una connessione fortuita o opportunistica, perché l’idea di questa rivista, della sua fisionomia e della sua funzione, nasce proprio dall’esperienza dell’autoaggiornamento. E’ da qui che muoveremo dunque per spiegare il progetto nella sua complessità e nelle sue dichiarate ambizioni.

 

I. La filosofia e la Scuola

Pochi luoghi come la scuola riescono a compendiare la mole delle contraddizioni, dalle confusioni e delle incertezze che affliggono la filosofia nel tempo presente. Il problema della didattica filosofica involve infatti, sia pure indirettamente, questioni capitali circa lo stesso statuto della filosofia come disciplina, e se c’è un tempo in cui su questo statuto si dicono le cose più diverse, quello è proprio il nostro tempo. Qualcuno, neanche troppi anni fa, ha tentato addirittura di liquidare la stessa denominazione di filosofia per la disciplina scolastica, risolvendola in “scienze umane” o “scienze sociali”, e, sebbene questo radicalismo “innovatore” abbia mostrato subito il fiato corto e la tradizione abbia finito per confermarsi, regna comunque, intorno alla percezione che della filosofia hanno gli stessi docenti di questa disciplina, una varietà farraginosa e da ultimo una confusione sovrana.

Nella scuola italiana vi è poi una situazione molto particolare, determinata dalla dissoluzione della concezione gentiliana non accompagnata da una qualche alternativa filosoficamente equipotente. Si è così realizzato un adattamento empirico, privo di pensiero unitario e tanto frammentato e sfumato quante sono le situazioni particolari. Il concetto dell’identità della filosofia con la sua storia, svuotato interamente della sua sostanza attualistica, si è ossificato in un’impostazione didattica che riduce la filosofia alla storia della filosofia, perdendo però l’altro lato dell’equazione, quello per cui non c’è storia che non sia unificazione sistematica attualizzata nel presente. L’insegnamento della filosofia si trova così ad oscillare tra la narrazione storica, la pura e semplice dossografia e le fughe tangenziali verso attualizzazioni sporadiche suggerite da situazioni contingenti (interessi e problemi degli allievi, argomenti di attualità ecc.). E’ questa la condizione di base, alla quale ogni insegnante cerca di reagire trovando, nella propria personale esperienza didattica, moduli rivitalizzanti.

Si aggiunga a tutto questo una tormentatissima riforma scolastica che, tra mille difficoltà, ritardi e improvvise accelerazioni sembra voler andare in porto, e il ruolo e il peso incerto che in essa, al di là di qualunque buona volontà, la filosofia rischia di assumere, in un quadro realizzativo necessariamente incline a sottolineare l’elemento della varietà interpretativa in risposta alle esigenze delle varie discipline, a scapito di un’interrogazione della cosa stessa che ne valorizzi, al di là di ogni altra considerazione, la fisionomia originaria e l’intrinseco retaggio.

E’ da questa condizione di fatto che occorre muovere per intendere l’esigenza di tornare alle radici del problema e di porre da capo la questione della natura della scienza filosofica, in cerca prima di tutto di una base teorica migliore e di un medium didattico capaci di far superare lo straniamento e il raffreddamento dossografico tipici di questa situazione irrigidita e impoverita, in secondo luogo di una tematica che possa in qualche modo catalizzare la discussione dei docenti di filosofia intorno allo statuto scientifico della propria disciplina e alle implicazioni pedagogiche e didattiche che da una migliore definizione di questo statuto inevitabilmente discenderebbero.

 

II. Decostruire per ricostruire

Tornare alle radici del problema significava tornare ai testi filosofici e al significato della tradizione scientifica che in essi si custodisce. L’esperienza dell’autoaggiornamento, dalla quale ha origine la stessa idea di una Rivista di Filosofia, ha avuto come filo conduttore una sorta di destrutturazione dei manuali di filosofia comunemente in uso nella scuola secondaria e di elencazione di argomenti normalmente inseriti nei piani annuali di lavoro dei docenti di filosofia, nella prospettiva di un lavoro di ricognizione sui testi che ne facesse affiorare valenze necessariamente sacrificate in quelle ricostruzioni storiche di lungo periodo che sono i manuali, ma talora di importanza primaria nel vivo della pratica didattica.

L’esito di questo lavoro triennale è contenuto, come già si è detto, nei saggi ospitati dal presente volume. Era fatale, oltre che esplicitamente dichiarato nel progetto iniziale, che la focalizzazione risultasse intermedia tra il piano teoretico e quello didattico, o più precisamente si puntualizzasse all’intersezione fra i due piani. Non si trattava né di “rifare” i manuali per segmenti monografici (meglio sarebbe stato allora abbandonare ogni velleità e valorizzare il lavoro serio e scientifico già fatto dagli autori), né di “approfondirli” teoreticamente (poiché anche in questo caso ci si trova di fronte ad equilibri lungamente studiati commisurando difficoltà, ampiezza della trattazione e mentalità degli allievi), né infine di “spiegarli”, cioè di approntare itinerari didattici intesi a rendere più agevole e produttivo lo studio di materiali già organizzati e formalizzati. Il problema era invece valorizzare quanto nei testi filosofici possa parlare direttamente agli allievi nel senso di raggiungerli nella loro quotidianità, intrecciarsi con la loro realtà, comunicare loro, non dicendo ma facendo, il significato di un metodo e di una forma di sapere la cui peculiarità, sempre più raramente tematizzata, proprio per questo sembra talora sfuggire.

Stare all’intersezione tra piano teoretico e piano didattico significava allora tentare di ricomporre i materiali teoretici costituiti dai testi non solo e non tanto nella prospettiva di una conoscenza della loro successione e correlazione storica, bensì in quella della progressiva maturazione di una vera competenza filosofica, ossia di una familiarità col procedere tipico della filosofia e con la modalità di affioramento e di trattazione dei suoi problemi. Si trattava cioè di determinare qualcosa di simile ad unità didattiche incentrate non su un autore (compito già eccessivo, che dovrebbe prima di tutto commisurarsi con le trattazioni analoghe già esistenti), ma su un singolo momento della sua opera, da affrontarsi possibilmente da punti di vista diversi e progettualmente correlati, e sempre in stretto rapporto coi testi, avendo di mira il rendere visibile come la filosofia procede quando esce dal generico e si cala, come sempre fa e deve fare quando è davvero filosofia, nel tessuto di problemi tangibili e particolari, costituendosi come sapienza operativa e in qualche modo artigianale - di questo avremo modo di riparlare -, ossia come sapere trasmissibile nella pratica didattica.

 

III. Glaux, il nome di un’idea

Questo è stato lo sforzo dell’autoaggiornamento, e non sta a noi giudicare dei risultati, di cui questi saggi sono esempi. In essi si potranno trovare infiniti difetti, ma si dovrebbe poterne apprezzare l’impegno diretto a questo fine non facile.

Da questo impegno prolungato nasceva d’altronde un’idea, che sempre più si legava a quella, molto più istituzionale e in qualche modo “burocratica”, della pubblicazione degli Atti dell’autoaggiornamento. L’idea era quella che un simile sforzo di definizione del significato della filosofia come sapienza concreta e praticamente trasmissibile - definizione che avrebbe corollari di importanza capitale nell’ordine didattico - dovrebbe organizzarsi come attività continuativa e avere un suo luogo stabile. La forma vuota della pubblicazione di Atti poteva insomma sostanziarsi del complesso di tendenzialità che emergono dagli atti medesimi e farsi forma stabile di un impegno prolungato : poteva costituirsi come una Rivista di Filosofia. L’articolo 2 dello statuto della Società Filosofica Italiana invita a promuovere “la ricerca filosofica sul piano scientifico”, “un idoneo ordinamento delle strutture culturali didattiche e pratiche della ricerca filosofica”, “la valorizzazione ... della professionalità dei docenti di filosofia e la loro qualificazione...” ed infine “la costituzione di centri locali di studio”. Ebbene, tutto questo poteva avere consistenza e realtà, e dunque anche un nome : “Glaux”, in omaggio a quella nottola di Minerva che non cerca di inventare niente, ma solo di stringere concettualmente ciò che già la storia ha sedimentato come sostanza immediata.

“Glaux” nasce quindi come nome di un’idea, e l’idea è quella di portare in luce un significato che la filosofia ha deposto originariamente nei testi filosofici, segnando in qualche modo la propria destinalità di scienza : quando questo significato venisse progressivamente chiarito e affermato, dipanando con pazienza la matassa oggi quanto mai ingarbugliata dell’identità della filosofia, la pratica didattica e la stessa identità della disciplina scolastica che si trasmette sotto il nome di filosofia non potrebbe che riceverne chiarezza di impostazione e determinatezza di intenti.

E’ dunque venuto il momento di rivolgerci con maggiore attenzione a quale sia il significato di cui andiamo parlando. Per quanto riguarda i risultati di questo lavoro ulteriore rispetto all’esperienza dell’autoaggiornamento, va precisato che essi vedranno la luce nel secondo numero di “Glaux”, l’autunno del prossimo anno. La Rivista continuerà così scandendo i propri numeri in anticipo di uno su quelli del terzo millennio : tra contingenza e scaramanzia, preferiamo considerarlo semplicemente di buon augurio.

 

IV. La filosofia come sapienza quotidiana

Da tutto quanto detto dovrebbe risultare ormai chiaro come la rivista che abbiamo in mente non debba limitarsi a raccogliere contributi occasionali provenienti da ambiti di ricerche già avviate, ma impegnarsi, senza alcuna pregiudiziale di orientamento filosofico, e anzi valorizzando al massimo ogni ricchezza di impostazione (orientamenti diversi ci sono ovviamente nello stesso gruppo redazionale), lungo una linea di ricerca che si mantenga costante nel tempo. L’idea di fondo è quella di andare raccogliendo materiali per una sorta di archivio mirato allo sviluppo di una definita problematica : quella dell’originario significato sapienziale della filosofia.

Proveremo a illustrare questo termine dicendo che la filosofia è stata, e bisognerebbe vedere fino a che punto può continuare ad essere, una scienza universale, concreta, popolare. Ma anche questi termini, per l’estrema variabilità delle loro accezioni, richiedono a loro volta una spiegazione.

E’ stata una scienza universale nel senso che, assumendo quale proprio oggetto statutario l’esperienza nella sua totale apertura fenomenologica e virtualità logica, si è occupata per principio di qualunque cosa, e non soltanto, come sempre più è andato accadendo, di un gruppo selezionato di problemi specialistici, oltre a tutto sempre più lontani dal pensiero e dal linguaggio comune.

E’ stata una scienza concreta, legandosi intimamente alla “saggezza” come guida alla vita, ossia non limitandosi a descrivere il mondo con percorsi concettuali sempre più sofisticati, ma indicando, in quel mondo così costituito, la prassi quotidiana orientata alla “felicità”, ossia allo stato soggettivo corrispondente alla realizzazione dell’intima finalità dell’essere umano.

E’ stata una scienza popolare, sia pure questo termine da intendersi in un’accezione molto particolare. Non si vuol dire infatti che in un qualche tempo passato tutti padroneggiassero le sue costruzioni, fin dall’inizio notevolmente complesse e difficili, e nemmeno che essa fosse granché diffusa tra la gente comune. Vuol dire però che c’è stato un tempo, ed anche molto lungo, nel quale, all’affiorare dei massimi problemi (in una difficile situazione di vita o semplicemente al termine di una cena, bevendo o passeggiando insieme, scontrandosi in una discussione politica), il pensiero correva subito al “che cosa ne dicono i filosofi”. E quelle massime e sentenze, ancorché accozzo scombinato e sincretico di temi platonici, peripatetici, stoici o scettici soltanto orecchiati, era ancora quanto di meglio la coscienza popolare riteneva che la cultura offrisse all’esistenza umana. La filosofia aveva allora ancora integra la sua valenza di quotidianità, di sapere autonomo argomentativo volto alla ricerca della verità condivisa nel seno di una comunità etica.

Una scienza di questo genere ha ben poco da un lato dei percorsi rarefatti, formalizzati e iperspecialistici delle più recenti epistemologie, dall’altro delle raffinate e talora cifrate ricognizioni nelle contrade dell’ermeneutica. E’ una scienza il cui oggetto è sbalzato a tutto tondo, fatto di plastica sostanzialità, costruito con la scrupolosità artigianale di un muratore che adopera il filo a piombo, la bolla d’aria e la squadra per costruire case solide ed abitabili, di un calzolaio che sceglie cuoi e pelli, quindi taglia e cuce, incolla e inchioda e ribatte perché con quelle scarpe ci si possa davvero camminare. Una scienza così fatta è per la vita ciò che la grammatica è per lo scrivere correttamente o l’aritmetica per il far di conto, ossia qualcosa di solidamente e quasi rudemente primario, e non una suggestione che spira da giardini incantati.

Questo non significa, naturalmente, che una tale valenza della filosofia debba essere invocata contro questi più raffinati e complessi itinerari che oggi occupano largamente il campo, e certo non significa neanche che i creatori di questi itinerari non lavorino con quello stesso scrupolo da buoni artigiani che qui viene rivendicato in positivo. Significa invece che, se l’effetto di queste modalità filosofiche è, per il lettore comune, quello dei giardini incantati, ciò accade perché di questi itinerari sembra smarrito o almeno lasciato in ombra il luogo di partenza, ossia la scienza filosofica, nella sua peculiare fisionomia e nella sua intrinseca normatività. E poiché in interstizi sempre più ampi di questo variegato procedere si va da molto tempo mettendo in questione che una tale scienza alla fin fine esista, o quanto meno che abbia ancora una qualche attualità, si va anche profilando la situazione paradossale in cui l’imponente ricchezza del pensiero filosofico contemporaneo non riesca più nemmeno ad essere concepita come tale, ossia come ricchezza, perché viene meno l’unità per cui questa molteplicità è appunto una molteplicità, ossia una ricchezza. Il luogo desolato e sottilmente inquietante che sembra schiudersi è quello della dissipazione.

Parlando della valenza sapienziale e quotidiana della filosofia intendiamo dunque parlare prima di tutto e semplicemente della filosofia, della filosofia come tale, nella sua semplice e potente fisionomia di scienza che ha come metodo la necessità razionale e come fine la verità. E’ l’esistenza e l’attualità di una tale scienza che qui si va affermando senza ambiguità, contro - questa voltà sì - le molte illazioni sulla sua fine, sul suo tramonto storico, sulla sua risoluzione in altro.

 

V. La filosofia in rapporto alla scienza

Un’impostazione che condivida questa prospettiva assiologica, e si proponga di discutere criticamente la possibilità o impossibilità di rivendicare e attualizzare questa valenza della filosofia, trova già in qualche modo precostituite le direttrici del confronto.

La prima è sicuramente il rapporto con la scienza, in tutto il complesso sviluppo di significati che questo termine ha assunto negli ultimi quattro secoli. La scienza moderna, nata nel seno dell’esperienza filosofica, è infatti spesso concepita, con esplicite affermazioni o per tacito presupposto, come il sapere che è andato progressivamente “sostituendo” la filosofia, ossia occupandone esaustivamente il campo. Il che porta la filosofia stessa a porre la questione della propria peculiare scientificità, attestata in una tradizione bimillenaria (da Aristotele a Galilei) come matrice e fondamento di ogni scienza particolare.

Il concetto cardine che qui entra in gioco è quello di scienza filosofica, con il suo correlato oggettivo che è quello di verità. Quest’ultimo concetto mostra un singolare destino, e cioè il non poter uscire dal paradosso di essere da un lato l’idea guida di qualunque sapere rivendichi a se stesso l’elementare sensatezza, dall’altro la vera e propria araba fenice del nostro tempo. Sarà quindi inevitabile, per una filosofia come sapienza, precisare la propria nozione di scienza, ossia di sapere che ha come contenuto la verità. Mentre infatti appare ormai poco attuale il confronto tra scienza e filosofia sul piano delle strategie conoscitive (la scienza ha cessato da un pezzo, posto che lo abbia mai fatto, di ascoltare i suggerimenti dei filosofi e di valorizzarne le trovate teoriche, restando giustamente immersa nella propria autonomia procedurale), l’interesse di tale confronto sembra concentrarsi proprio sul tema della verità. Ciò che è in questione è infatti da un lato il valore filosofico (cioè veritativo, nel senso della scienza filosofica) della scienza, dall’altro il valore scientifico (cioè passibile di verificabilità o falsificabilità, nel senso metodologico della scienza) della filosofia.

Luogo classico di questa divergenza è la problematica del fondamento (del fondamento come tale, dunque, in senso lato, dei fondamenti), prospettiva cui la scienza moderna ha del tutto rinunciato, inducendo la stessa filosofia del nostro tempo (se è vero che la filosofia, come la nottola di Minerva che dà il nome alla nostra rivista, si alza in volo al crepuscolo apprendendo per concetti ciò che è accaduto nel giorno trascorso) a cercare in qualche modo di apprendere appunto per concetti questa rinuncia. Quello che resta da verificare è quanto questa apprensione concettuale sia anche solo possibile senza autocontraddizione, e da ultimo, guardando alla scienza e alla cultura in generale, quale posizione si intenda assumere rispetto a questa autocontraddizione (se di negazione, di accettazione o di indifferenza, con tutti i problemi connessi).

 

VI. La filosofia in rapporto alla religione

Una seconda direttrice è costituita dal rapporto con la religione. L’atteggiamento ambivalente e contraddittorio, di allontanamento e di abbandono da un lato, di desiderio e interesse crescente - talora anche morboso - dall’altro, che la cultura di massa tiene nei confronti della prospettiva soprannaturale prima ancora che religiosa, è l’indicatore più persuasivo di una situazione di vuoto spirituale, di assenza e di bisogno.

Questa situazione si determina da un lato per la caduta, all’interno del sapere scientifico dominante, di quel momento “sapienziale” orientato alla soluzione dei massimi problemi dell’uomo che dalla notte dei tempi è peculiare della religione, e che da una certa epoca in poi si è distribuito tra religione e filosofia, in un rapporto per un verso competitivo e concorrenziale, per l’altro complementare e organico (competitivo e concorrenziale in quanto entrambe hanno preteso alla giurisdizione totale sul problema contendendosi il campo e tentando l’una di ridurre a sé l’altra, complementare e organico singolarmente per lo stesso motivo, in quanto l’identità di campo ha fatto da potente denominatore comune suggerendo moduli di integrazione). Da un altro lato questa situazione si determina perché la sparizione del momento sapienziale dall’ambito dominante della scienza ha come risultante un’apertura irrazionalistica la quale, invece di cimentarsi coi difficili nodi di una tradizione che nella sua fase intermedia intreccia epistemologicamente le categorie di fede e ragione, preferisce abbandonarsi alle suggestioni soteriologiche provenienti dai più disparati ambiti, spesso mutuate d’accatto dalle tradizioni orientali e ancor più superficialmente vissute.

Ci sono buone ragioni per ritenere che la cultura scientifico-irrazionalistica dominante (qualunque osservatore spassionato può verificare la fattualità di questo compromesso di scientismo e irrazionalismo, e non dovrebbe esserci bisogno di ricorrere ad esempi banali come quello degli oroscopi inseriti nei palinsesti televisivi accanto ai programmi di divulgazione scientifica, o dei notiziari che comunicano le strabilianti scoperte sulla mappa del genoma umano, per passare subito a renderci edotti sulle pratiche sacrificali delle sette sataniche) è gravemente inadempiente rispetto alle esigenze più profonde dell’essere umano, così che la chiarificazione teoretica del rapporto tra filosofia e religione (oggetto, tra l’altro, dell’enciclica Fides et Ratio, suscitatrice di accese polemiche in campo filosofico) non può, quando sistematicamente perseguita, che ridurre e idealmente chiudere lo spazio entro cui opera, con grave danno culturale, l’irrazionalismo di massa.

Una linea di ricerca che voglia portare l’attenzione proprio sul momento sapienziale della filosofia non può dunque eludere in nessun modo il confronto serrato in primo luogo con la scienza, che di questo momento si è liberata anche con le conseguenze che siamo andati dicendo, in secondo luogo con la religione, storicamente portatrice originaria di questo momento e da ventisei secoli interlocutrice della filosofia intorno al significato che ad esso va attruibuito.

 

VII. La filosofia in rapporto a se stessa e la differenziazione dalla retorica

Una terza direttrice è costituita dal rapporto della filosofia con se stessa, in una relazione autoriflessiva che dovrebbe farle aprire un bilancio su quanto le sia costato e le costi quell’approdo alla logica del sapere senza fondamenti che ha costituito quasi per intero la sua fioritura nel corso del secolo appena concluso. In questa riflessione la filosofia potrebbe, e forse dovrebbe, chiedersi anche se la liquidazione del concetto di verità, e di quello connesso di scienza filosofica, non sia stata un po’ troppo frettolosa e magari coartata da profonde ragioni ideologiche, e più in generale se sia così ultimativa come da molte parti ci si accalora a sostenere, talora con apparente voluttà autodistruttiva.

Non è questo il luogo anche soltanto per abbozzare problematiche teoretiche in senso più stretto, ed è scontato che qualunque affermazione per così dire controcorrente dovessimo qui sostenere, troverebbe immediata e pertinente risposta da parte di chi è persuaso che la fine del significato sapienziale della filosofia coincida con la fine delle certezze metafisiche, e che la fine di queste certezze sia l’esito di un processo oggettivo di logoramento, consunzione ed esaustione storica del concetto di verità, rispetto al quale nessuno di noi è in grado di fare niente. Questo senso di ineluttabilità domina pressoché sovrano, e questo è sotto gli occhi di tutti. Eppure è singolare come questa persuasione dell’assenza di verità, che è la vera certezza del nostro tempo, non provi almeno il bisogno di confrontarsi col luogo classico dell’autocontraddittorietà della negazione del fondamento, di cui anche sopra parlavamo, e delle aporie che ne conseguono. Viene in mente l’antichissima antinomia del mentitore: se Epimenide cretese dice che tutti i cretesi mentono, se ne deve dedurre che sta mentendo o che sta affermando il vero ? Se i filosofi dicono che la filosofia ha perduto la prospettiva della verità, se ne deve dedurre che l’affermazione di questa perdita non è vera o che è appunto la verità ? Non si sta qui cercando di prendere in castagna un’intera stagione filosofica mediante una semplice tagliola logica, ma è curioso come la nozione, trionfante nel senso comune come in buona parte degli addetti ai lavori filosofici, della certezza dell’assenza di certezza (che lascia intendere la verità dell’assenza di verità) non risulti almeno imbarazzante per una scienza filosofica così sicuramente impegnata nella propria smobilitazione. Si tratta di un problema che crediamo dovrebbe occupare seriamente una riflessione che la filosofia voglia avviare su se stessa.

In questo confronto con se stessa, la filosofia non può poi evitare di interrogarsi - data la caduta del concetto di verità e il conseguente venir meno di ogni criterio oggettivo per decidere della persuasività di una tesi - su quale sia il suo rapporto di differenziazione rispetto alla vasta, articolata e potente dimensione della retorica, classicamente intesa come scienza della persuasione (nelle sue molte varianti, come letteraria, estetica, politica ecc.).

La questione è antica, eppure le tirate polemiche di Platone sull’inconsistenza della cultura sofistica e sull’insidiosità falsificante della retorica, rilette oggi, mostrano accenti di impressionante attualità. La persuasione filosofica, cioè l’esperienza radicale del non poter scegliere che uno dei due termini dell’alternativa perché l’unico pensabile mentre l’altro è assurdo, nella sua dura e ruvida elementarità, è oggi qualcosa di quasi rimosso come connesso con rigidità ancestrali, mentre l’azione persuasiva è praticata e riconosciuta come libera scelta tra alternative possibili. La verità così non è ciò che deve essere riconosciuto tale, ma che soltanto lo può, qui ed ora, e sempre nel radicale avvertimento che la verità di oggi non è quella di domani, e che la verità di Tizio non è quella di Caio. In questo modo la decisione filosofica diventa opzione, e i criteri di questa opzione non possono che essere gli slanci o le avversioni, i gusti, le empatie, le risonanze soggettive che si determinano indefinitamente ad ogni accenno di fusione di orizzonti tra chi parla e chi ascolta.

Se questo non è il luogo adatto per affrontare problematiche teoretiche, ancor meno lo è per quelle politiche, e tuttavia è difficile non esser tentati di pensare che la damnatio memoriae del concetto di verità da un lato, e il dilagare della persuasione retorica dall’altro (si pensi, tanto per dire, alle tecniche pubblicitarie, alle costruzioni d’immagine, ai sottili artifici della sondaggistica o alle polemiche sulla par condicio), siano interpretabili, tra le molte interpretazioni possibili, come i due rovesci della medaglia di un’ideologia del laissez faire storicamente trionfante e ormai lanciata verso la globalizzazione.

In ogni caso, non ci vuol molto a vedere come la persuasione retorica vada costituendosi quale inquietante liquido amniotico di ogni futuribile, ed è altrettanto verificabile come il clima filosofico più largamente diffuso, rispetto al quale noi cerchiamo qui di consolidare un’alternativa, corra almeno il rischio di portare acqua a questo mulino, attenuando più che mai la nettezza dei confini tra filosofia e retorica. Il che per la filosofia non è un rischio lieve : Aristotele ha lasciato scritto che la filosofia è la scienza più nobile e la più libera perché, essendo fine a se stessa, non serve nessuno. Sarebbe davvero triste se dovesse cominciare a servire qualcuno nel modo peggiore, e cioè involontariamente.

 

VIII. Un dialogo, una serie di dialoghi, un sistema di dialoghi

Come può una rivista avviare e organizzare un lavorìo tale da far emergere dall’esperienza corrente quella valenza della filosofia che abbiamo fin qui descritto ?

Il più antico e vitale medium di esperienza filosofica è il dialogo, ed è questo il metodo che intendiamo seguire. La prima cosa da fare è parlare con i filosofi, rivolgere loro precise domande e cercare di averne altrettanto precise risposte. Attueremo dunque il modulo della conversazione redazionale (da non confondersi con l’intervista ai filosofi, che è cosa del tutto diversa), individuando personalità filosofiche di primo piano e cercando di coinvolgerle nella tematica che ci sta più a cuore. L’intera conversazione, registrata e tradotta in testo, farà da baricentro della sezione centrale della Rivista. Intorno alla conversazione, poi, si cercherà di organizzare un insieme articolato di contributi che ne allarghino a ventaglio il tema, di modo che questa sezione centrale possa configurarsi come una costellazione di scritti tra i quali la conversazione campeggi, facendo da riferimento principe e stella polare.

E’ chiaro che sia i temi, tratti dalla linea di fondo della ricerca, sia le personalità alle quali chiedere disponibilità a conversare con noi su di essi, dovranno essere individuati di volta in volta. E’ anche chiaro che, data la complessità del campo relazionale da noi stessi definito, i referenti per la conversazione potranno essere individuati anche tra gli scienziati, tra i teologi e tra gli studiosi dell’intero arcipelago delle scienze umane. L’intento di fondo è, come dicevano all’inizio, quello di creare una sorta di archivio nel quale vadano a depositarsi i risultati di queste discussioni come materiali ordinati e progressivamente prodotti seguendo un disegno sistematico.

E’ superfluo poi precisare che la stessa struttura del dialogo esclude conclusioni preconcette, e che dunque la valenza della filosofia che a noi preme potrebbe risultare attaccata, criticata, negata da una gran quantità di punti di vista. Il che è proprio quanto, in un certo senso, è bene che accada, perché l’unico oggetto filosofico degno di considerazione è quello che sappia resistere ai più intransigenti e feroci tentativi di negarlo, insieme arricchendosi delle determinazioni che gli vengono proprio dal dover resistere a questi tentativi, e così giovandosi in positivo del loro contributo. In filosofia, quando è buona filosofia, non bisogna aver timore di rompere niente, perché ciò che si rompe non era per ciò stesso meritevole di durare.

L’identico principio vale evidentemente per i contributi destinati ad allargare la tematica della conversazione, i cui autori dovranno essere di volta in volta individuati : tali contributi potranno essere rafforzativi o critici, costruttivi o demolitori, nel quadro di un sistema dialogico che finirà comunque e necessariamente per sedimentare una più profonda consapevolezza intorno alla tematica prescelta dalla Rivista, arricchendone i materiali d’archivio.

 

IX. Un contorno poco meno definito

Così fissati gli assi centrali della ricerca, e raccordati in una prospettiva di fondo che non perda mai l’essenziale riferimento alla problematica didattica, la quale avrà anche un suo luogo specifico (all’incontro di queste direttrici sarà da ricercarsi la consistenza teorica e la continuità tematica di “Glaux”), è d’altronde piuttosto prematuro definire l’intera e definitiva struttura della Rivista.

Ci sono prima di tutto ambiti consolidati, diffusi e immediatamente riconoscibili da parte di chi coltiva interessi per le tematiche in senso lato filosofiche (pensiamo per esempio alla politica, al diritto, all’economia, all’estetica, all’informatica, all’intelligenza artificiale, all’ecologia, alla genetica, alla bioetica, per dire solo le prime cose che vengono in mente). Sarebbe qui interessante pensare a rubriche che curino queste tematiche allargando l’area dell’interesse e sviluppando in piena autonomia gli oggetti di pertinenza dei loro ambiti, senza tuttavia perdere la relazione con la linea di fondo in cui la Rivista continuerà a riconoscersi.

Ci sono poi contributi offerti o richiesti d’occasione, di carattere più extravagante, ossia non immediatamente riconducibili alla sezione centrale, a quella didattica o a quella delle rubriche, e persino di carattere non strettamente filosofico, tuttavia dotati di particolare interesse, o di qualità tali da mostrare un’affinità con la prospettiva generale e per così dire con lo “stile” della Rivista. E’ dunque opportuno pensare fin dall’inizio ad una sezione di miscellanea all’interno della quale i contenuti circolino con maggiore flessibilità e libertà.

E’ inoltre prevedibile il prosieguo dei lavori di autoaggiornamento in altri e successivi cicli, e l’eventuale pubblicazione dei relativi Atti troverebbe comunque nella Rivista il proprio luogo naturale, all’interno della sezione didattica o in posizione peculiare.

Ci sono infine letture, critiche, recensioni, indicazioni, comunicazioni ai lettori, che ogni rivista mette a bilancio nel computo dei propri spazi, e così faremo noi.

E’ opportuno a questo punto lasciare uno spazio aperto per idee, aggiustamenti, integrazioni, proposte di ogni genere, che potranno venire, da qui a un anno, sia dal gruppo redazionale, sia da lettori interessati alla struttura e al futuro della Rivista. Questa esperienza è appena incominciata, ed è inevitabile che la sua ossatura reale finisca per definirsi e consolidarsi soltanto nel lavoro sul campo. Quello che invece sembra pregiudizialmente irrinunciabile è tener fede all’idea centrale che ha retto l’intera estensione delle linee di progetto, al fine di una prassi sicuramente orientata e della formazione di precise aspettative nei lettori.

 

X. Insegnare filosofia

Qualcosa invece va detto conclusivamente intorno a quel luogo della Rivista in cui la problematica didattica cessa di essere colore di fondo e si fa tematica da sviluppare in uno spazio particolare, nel quale il dialogo coinvolga direttamente gli insegnanti di scuola secondaria, almeno nella misura in cui essi si riconoscano nella linea di progetto che “Glaux” rappresenta.

Non si tratta infatti, com’è ormai chiaro, di aggiungere uno spazio qualsiasi per lo sviluppo della tematica didattica in generale: ci sono in giro ottime riviste a cadenza periodica più frequente della nostra, e recentemente sempre più numerosi siti di Internet che svolgono la funzione di informare su ciò che accade nel mondo della scuola e sulla grande quantità e varietà di iniziative didattiche che continuamente si producono. Non possiamo né vogliamo entrare in concorrenza con loro.

La cadenza annuale di “Glaux”, la sua particolare linea teorica, la valenza della filosofia sulla quale investe le sue energie di ricerca, delineano piuttosto un luogo nel quale, muovendo dall’analisi sopra condotta sulla situazione dell’insegnamento scolastico della filosofia, si prenda in considerazione l’ipotesi che l’attenzione a questo momento sapienziale e quotidiano della filosofia possa costituire una base per introdurre elementi di unità in una prassi didattica quanto mai frammentata dal punto di vista delle convinzioni teoriche che la reggono, e viceversa unificata da moduli esteriori come la scansione storica degli argomenti e la supina fedeltà alla trattazione manualistica.

Non è immediatamente facile definire in termini concreti i moduli didattici funzionali a far emergere la valenza in questione della filosofia, e crediamo anzi che questa possa essere proprio la problematica da cui muovere. Superare lo straniamento dossografico e il relativismo storicistico, comunicare il senso di una sapienza attuale e quotidiana essenziale alla vita (equivalente, abbiamo detto, alla grammatica per la scrittura corretta e all’aritmetica per il far di conto), insegnare come ci si muove in essa con semplicità e necessità, per passi che impegnano nel presente e non per suggestioni che alitano dal passato. Nelle scuole bisognerebbe tornare ad insegnare filosofia. Bisognerebbe far sperimentare a chi non ne sa niente (perché di solito se ne sa davvero poco) che cos’è la necessità filosofica, che spira dai testi dei grandi filosofi perché prima di tutto spira dall’esperienza quotidiana che si rifletta in un pensiero solido e coerente. Bisognerebbe far sentire che cosa significa trovarsi a non poter pensare che in un certo modo e viceversa a non poter affatto pensare in un altro. Bisognerebbe far provare la durezza della negazione stringente e il morso della contraddizione insolubile, comunicare il senso della perdita di una posizione che si rivela improvvisamente insostenibile o il senso della pienezza di fronte al periodico apparire dell’incontrovertibile. Nelle scuole bisognerebbe fare filosofia, che non significa necessariamente escogitare qualcosa di nuovo, come se la cosa più importante fosse lasciare una propria traccia o testimoniare del proprio personale ingegno, ma piuttosto avere esperienza della verità, di una verità nostra o di una verità che nega e ridimensiona la nostra, ma che, in ragione della necessità che vincola il nostro pensiero ad accettarla, non per questo è meno nostra. Si crede comunemente - anche troppo comunemente - che la filosofia sia una passeggiata tra le opinioni altrui e non se ne intende l’inconfondibile pathos (paragonabile forse solo all’ebbrezza matematica), cioè l’unica cosa che, in un quadro pedagogico di un qualche respiro, meriti di figurare tra i valori centrali della formazione.

Non è facile, dicevamo, definire moduli didattici mediatori di questa esperienza. Esposizione storica ed esposizione sistematica sembrano i due termini tra cui occorre trovare una relazione organica, ma i nessi più specifici di questa relazione sono tutti da discutere e da determinare, e questo dev’essere fatto proprio in prospettiva didattica. Passare dalla storia della filosofia alla filosofia potrebbe essere una buona sigla, se solo non rischiasse di lasciar intendere un irrigidimento trattatistico ancor più mortale, per l’esperienza filosofica, della riduzione storicistica.

Sono questi i temi che, in questo spazio di “Glaux”, dovrebbero trovare adeguata trattazione, coinvolgendo quanto più possibile gli insegnanti che avvertono il peso di questa problematica. Arrivare, mediante un prolungato dibattito suffragato da adeguati studi, ad una sorta di protocollo d’intesa o di manifesto per la didattica della filosofia, sarebbe certo un obiettivo non facile, ma crediamo idealmente perseguibile.

Altro, in termini di progetto, non è possibile aggiungere (se non una chiusa augurale : qualcuno di noi si è accorto che la parola “glaux”, semplice traslitterazione del nome greco della civetta, è usato in latino da Plinio, con diversa etimologia, per designare una pianta medicinale atta a favorire il latte nelle nutrici. Se è vero che nomen est omen, accogliamo questo sovrappiù non cercato di senso metaforico come di buon auspicio : nutrire anche minimamente il dialogo sui temi che siamo andati esponendo non sarebbe un risultato da poco).

Per il Comitato Scientifico : Antonino Postorino