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Comunicazione Filosofica n. 10 - maggio 2002

 

Che cos’è la filosofia? Reiterazione ed attualità della domanda.

Riflessioni ai margini di un percorso didattico in un liceo tecnologico*.

Sergio Dagradi

 

La borghesia, in verità, fa dell’uomo
un animale servile e meccanico.
G. Bataille

 

            Lo studio della filosofia avviene sempre in un determinato e puntuale contesto storico, sociale e comunicativo. Nel caso dello studio della filosofia nella scuola italiana occorre considerare, oltre la più o meno volontaria presenza in aula tanto del/la docente che dei/delle discenti (implicanti sia la motivazione di entrambi che le condizioni sociali, economiche, familiari e culturali di ciascuno di questi soggetti, che troppo spesso nella pratica del fare scuola vengono ignorate), anche la tradizione didattica entro la quale tale studio è inserito. Detto altrimenti, a partire dalla riforma fascista di Giovanni Gentile (1923), tuttora di fatto vigente, lo studio della filosofia in Italia si è caratterizzato come studio della storia della filosofia. Negli ultimi decenni si è tuttavia aperto un ampio e tuttora vivo dibattito sulla necessità di rivedere questa impostazione storicistica.

            Alla luce di questo dibattito sono state individuate almeno tre questioni essenziali, che si ritiene debbano essere tenute costantemente presenti nell’avvio dello studio della filosofia e che, anzi, dovrebbero essere proprio oggetto di una tematizzazione specifica (alla luce anche di altre recenti acquisizioni didattiche e pedagogiche)[1]:

1. Quale filosofia insegnare?

2. Il nuovo paradigma della complessità, costituente il nuovo orizzonte entro il quale intendere la formazione e la comunicazione del sapere, come entra nei processi di trasmissione del sapere stesso nella scuola?

3. Quali abilità/competenze la scuola deve trasmettere e formare? Come possono essere meglio insegnate/acquisite nella scuola?

            Queste tre questioni - i cui termini debbono essere ulteriormente chiariti nel corso dello svolgimento della trattazione - credo, tuttavia, possano trovare un percorso euristicamente efficacie solamente se anzitutto ricondotte ad una ulteriore domanda, che, non diversamente, potremmo enunciare ancora cosi: «Che cos’è la filosofia?».

            Rispondere alla suddette questioni sul senso e le finalità dell’insegnamento della filosofia oggi, nella nostra società contemporanea, credo significhi cercare una strada per ritornare a pensare nuovamente la domanda originaria del fare filosofia - e non solamente del farlo a scuola o nell’università. Detto di nuovo: non credo che la risposta alle tre questioni dalle quali siamo partiti possa esimersi dal valutare in termini universali - e quindi in quella forma che, come colto da Hegel, l’universale ha assunto dopo la Rivoluzione francese, ovvero nella forma politica - la domanda che la filosofia pone a se stessa circa la propria identità e quindi il proprio senso.

            Ritornare a pensare il senso della domanda originaria che cos’è la filosofia?, significa allora porre la questione dell’insegnamento della filosofia, nel suo sviluppo inevitabilmente segnato dall’approccio storicista dei programmi vigenti, come tematica più generale, come domanda politica, ovvero che riguarda gli/le appartenenti alla polis, alla comunità civile: la filosofia in che rapporto è, costitutivamente, con la comunità entro la quale emerge? E conseguentemente, scavalcando l’approccio storicistico-imbalsamatorio, e cercando invece di istituire un lavoro di dialogo tra testo, insegnante, allievi/e (appunto gli/le appartenenti alla società civile), nella prospettiva di una possibile risemantizzazione del testo in con-testi interpretativi differenti: quegli strumenti concettuali che hanno trovato espressione nelle filosofie di determinate epoche storiche come possono ancora essere, materialisticamente, strumenti di comprensione del mio contesto? in quali termini possono favorire una mia analisi dei bisogni ai quali sono dipendente? come possono configurarsi come metafore di un mio linguaggio di narrazione della realtà circostante? come possono istituirsi come veicolo di prassi nei confronti delle illibertà alle quali sono ancora soggetto/a? come possono ancora, in ultima istanza, contribuire a rispondere a quella domanda di senso con la quale interroghiamo il reale?

            Certo, sembrerebbe esservi già in atto - in questa proposta - una certa precomprensione di cosa debba essere la filosofia. Silvio Restelli, in un testo rivolto all’aggiornamento degli insegnanti, annota giustamente:

             Sembra dunque realistico sostenere che ogni docente nel momento in cui svolge il proprio compito didattico lo fa a partire dalla sua risposta (ne sia consapevole o no) alla domanda: “quale filosofia insegnare?”, sia nel senso dei contenuti e soprattutto nel senso della struttura epistemologica generale della disciplina[2].

Detto in altri termini, quello che Restelli vuole dire è che il punto di partenza dell’insegnante sarebbe fondamentale, perché è a partire da quel punto di vista che lui/lei ha della filosofia, che verrebbero a determinarsi le risposte ai quesiti posti all’inizio. Detto nuovamente: il che cosa l’insegnante intende con filosofia definisce tanto la considerazione che egli/ella avrà della complessità della realtà entro la quale deve intendere l’efficacia o meno della sua azione didattica, quanto delle abilità/competenze che riterrà importanti e quindi sulle quali focalizzerà i suoi sforzi come insegnante.

            La prospettiva di analisi credo tuttavia potrebbe anche essere rivista. Porre nei termini politici sopra descritti il problema del che cos’è la filosofia?, significa lanciare - attraverso un approccio inevitabilmente ermeneutico all’insegnamento - una duplice sfida: una sfida all’insegnante, anzitutto. Come l’ermeneutica ha infatti insegnato, quando si studia qualcosa noi abbiamo già una qualche idea precostituita di quello che andiamo ad indagare, nonché utilizziamo degli strumenti che già possediamo: l’importante è rendersi conto di queste idee e metterle in discussione nel corso del lavoro per evitare che possano diventare dei preconcetti che ci impediscano di aprire una nuova fase di comprensione rispetto a quello che abbiamo di fronte, di vedere in modo nuovo, più profondo e più ricco quello che stiamo indagando; ed allo stesso tempo valutare se gli strumenti che noi utilizziamo siano efficaci rispetto al compito che ci siamo prefissi. Il punto non credo sia quindi solamente quello dell’evidenziare, all’inizio del corso triennale, quale sia l’idea di filosofia dell’insegnante, bensì anche di capire se l’insegnante lo vuole mettere in gioco, se l’insegnante lo vuole rischiare, lo vuole mettere alla prova, mettere in discussione nella comunità politica entro la quale agisce e sulla base delle istanze che da questa emergono. In secondo luogo ci troviamo quindi di fronte ad una sfida per gli studenti e le studentesse (o forse per la filosofia stessa e la sua esistenza, o sopravvivenza, qui ed ora): è il dialogo, il lavoro sul testo e nel con-testo, che deve far emergere la possibilità della filosofia stessa a continuare ad esistere, a continuare ad offrire possibilità di pensiero - strumenti, utensili, concetti, matrici, metafore e quant’altro. E’ la sfida radicale del verificare quotidianamente, empiricamente la possibilità del pensiero filosofico nella contemporaneità, o forse sarebbe più corretto dire la sua necessità.

            Ricapitolando: stabilire che cosa insegnare di filosofia, come, e a quali fini dipende dalla risposta alla domanda «che cos’è la filosofia?». Questa domanda, in realtà, avrebbe già una sua prima risposta forte nell’insegnante, la cui scelta di fondo condizionerebbe tutte le risposte. Ma, io credo, la vera risposta forte è nelle persone che si hanno di fronte, che si stanno di fronte e su come si stanno di fronte, si aprono o meno vicendevolmente: è la capacità a stabilire un triangolo dialogico tra insegnante, studenti/esse e testo filosofico che discrimina la possibilità non soltanto dell’insegnamento della filosofia a scuola, ma lo spazio dell’esistere di una riflessione filosofica nella nostra società tout-court.

            In questo senso il modello epistemologico di apprendimento che entrerebbe in gioco si modellerebbe sulle indicazioni di Vygotsky[3], secondo il quale i processi mentali superiori divengono intrapsichici, ossia vengono internalizzati dagli individui, solo successivamente ad una loro elaborazione in un piano interpsichico, ovvero nello scambio di significati tra persone. La dimensione sociale precede quella individuale. Come notato da Himanen, del resto, e l’analogo principio che presiede allo sviluppo creativo dei sistemi operativi nel contesto hackering: in quello che lui stesso ha definito come il modello hackering di apprendimento, chi apprende e chi insegna concorrono pariteticamente allo sviluppo di un progetto, perché molto spesso le domande del neofita pongono questioni che necessitano da parte dell’esperto di un ulteriore sforzo di chiarificazione in quello che sta facendo. Non solo, ma il risultato prodotto è il frutto del reciproco riconoscimento della sua valenza da parte di tutti coloro che hanno concorso alla realizzazione stessa[4]. Calato nel contesto dell’insegnamento filosofico: la risposta alla domanda che cos’è la filosofia? (o la non risposta, nel senso del fallimento della filosofia stessa) deve scaturire dal concorso di tutti i/le partecipanti, in quanto membri/e della comunità all’interno della quale ci si trova gettati, con le loro problematiche, i loro vissuti ed i loro bisogni determinati. Il riconoscimento della necessità a porre una risposta a questa domanda non può che nascere da un reciproco riconoscimento della valenza e della importanza della filosofia per quella comunità e dal senso che essa ancora può avere e giocare.

  

Un testo esemplare di Michel Foucault

 

            Proprio sulla base di queste considerazioni può risultare efficace per una sorta di ricapitolazione della questione, nonché per un primo tentativo di reciproca sintonizzazione tra membri della comunità, la lettura di uno dei tanti scritti esemplari di Michel Foucault (1926-1984). E’ un testo che, significativamente, è una delle ultime interviste - ossia un dialogo - rilasciate prima di morire dal filosofo francese, ed intitolata Polemica, politica, problematizzazioni[5]. La tesi di fondo presente in esso, infatti, è che la ricerca della verità è posta costantemente in collegamento con il modo con il quale si stabilisce una relazione con l’altro. Il gioco del dialogo, detto altrimenti, si presenta come la dimensione costitutiva della ricerca della verità, implicando una costante attenzione alla relazione appunto con chi mi sta di fronte. All’opposto la rinuncia al dialogo significa, come coerente conseguenza, la preventiva convinzione di aver già-da-sempre ragione, di non necessitare, mai, di alcuna verifica delle proprie posizioni: l’altro non può darmi nulla. Da questo punto di vista è l’inutile. Tradotto. L’altro mi è indifferente, non-differente, nel senso che non gli attribuisco identità alcuna (e l’identità, come si sa, è data proprio dal riconoscere la differenza, la specificità che caratterizza quel qualcuno/quella qualcuna che ho di fronte). Di conseguenza non me ne potrà che importare nulla di questo/a altro/a. Non mi importa, per estensione, dei suoi problemi, non mi importa se non ha un lavoro, se ha fame, se sta male, se viene arrestato, se viene pestato in qualche commissariato o se muore per strada. Il diverso mi dà anzi fastidio: chi è diverso da me mi dà fastidio perché potrebbe indurmi a problematizzare ciò in cui fermamente e fortissimamente credo, obbedisco e combatto. Meglio toglierlo di mezzo il diverso; meglio che se ne stia a casa sua (il cosiddetto ‘extracomunitario’ - ma attenzione perché anche gli svizzeri, gli statunitensi o i canadesi rientrano in senso stretto in questa categoria), o magari meglio emarginarli o dare un sacco di botte a quelli che incontro lungo la mia strada (il nero, il gay, la lesbica, l’ebreo, il musulmano ecc., ecc.). L’altro, nell’atteggiamento non di dialogo ma di polemica, è già ridotto all’avversario, da vincere o da eliminare. Quello che prospetta Foucault è, quindi, una dimensione etica della verità: il prodotto di un dialogo, il prodotto del convergere delle persone attraverso il confronto. Con un conseguente richiamo al senso di responsabilità individuale che ciascuno agisce in questa dimensione: non una massa anonima che condivide ciecamente, per fede o per ideologia, dei valori o delle idee, bensì un noi collettivo di individui che autodeterminano (o quantomeno cercano di farlo) l’orizzonte di senso del proprio esistere qui ed ora.

            Tre elementi fondamentali sembrano inoltre emergere, per Foucault, nel delinearsi di ogni esperienza di relazione e credo siano rilevanti anche per quel contesto di insegnamento nel quale si dovrebbe cercare di attuare la costruzione della sfida del dialogo:

a) un gioco di verità: l’esperienza è sempre accompagnata da un certo livello di consapevolezza e di conoscenza riguardo a quello che si sta facendo e che può essere soggetto a modificazioni in corso d’opera;

b) delle relazioni di potere: ogni esperienza implica il coinvolgimento, diretto o indiretto di più persone, ognuna delle quali esercita una personale forma di potere. Per potere si intende la capacità di esercitare una determinata forza, di imporsi all’altro in un determinato modo, in virtù della posizione sociale che egli occupa, o del ruolo che svolge nell’interazione, o della differenza di possibilità economiche che ha ecc. Ma normalmente ad ogni potere è anche contrapposto un contropotere, ossia delle strategie che vengono messe in campo per cercare di limitare, attenuare o annullare questo esercizio di potere (diritto di resistenza);

c) delle forme di rapporto con sé e con gli altri: in ogni esperienza si viene a costruire una certa immagine di noi e degli altri, e viceversa anche negli altri attori si definisce una certa immagine loro e di noi stessi, che contribuiscono interattivamente alla formazione della mia identità e dell’identità degli altri (sia personale che sociale).

 

Ripensamento delle questioni originarie.

 

            Ci siamo quindi lasciati condurre dalla domanda che cos’è la filosofia? per permettere l’emergenza di un approccio che crediamo differente alle questioni da porsi in avvio di un corso di insegnamento di filosofia. Questo cambiamento ottico ha posto come centrale la possibilità che si stabilisca un gioco dialogico, una messa in scena adeguata, nella quale ciascun attore/attrice sociale possa essere chiamato a giocare la propria parte, appunto come soggetto attivo. Questa dimensione politica, di rischio (per l’insegnante, per gli studenti e le studentesse, per la possibilità stessa che la filosofia prima ancora che materia di insegnamento continui ad avere una sua valenza civile) è la dimensione dell’interrogazione radicale, entro la quale domandarsi e domandare di nuovo che cos’è la filosofia?.

            La questione del quale filosofia insegnare? rimanda inevitabilmente a questa radicalità: l’insegnamento si spegne se nel dialogo non emerge che, ancora qui ed oggi, ciò che viene ad essere offerto da qualcuno (l’insegnante) è importante per il senso di qualcun altro (gli studenti/le studentesse); se ciò che il testo dona non è raccolto (nel senso heideggeriano di un lógos come pensiero raccogliente), per mancanza del bisogno di questo dono, da chi è lì (o dovrebbe esserlo) per riceverlo.

            Anche la seconda questione, ovvero l’incidenza che il paradigma della complessità (costituente il nuovo orizzonte entro il quale verrebbe attualmente ad intendersi la formazione e la comunicazione del sapere) giocherebbe nei processi di trasmissione del sapere stesso nella scuola, si presenterà - di conseguenza - in termini differenti ed al contempo connessi con i problemi posti dalla terza questione. Occorre tuttavia fornire - forse - qualche preventivo chiarimento attorno al modo nel quale la parola complessità è qui intesa: che cosa intendiamo dire con questo termine? ed in che senso è diventato così importante nella nostra realtà culturale, al punto da doverne dar conto anche nel parlare dei processi di trasmissione del sapere a scuola? Per cercare di rispondere ci rifaremo ad un testo di Edgar Morin, intitolato appunto Introduzione al pensiero complesso[6]. Morin definisce anzitutto che cos’è il complesso: «[...] è complesso ciò che non può essere riassunto in una parola principe, ciò che non può essere ricondotto a una legge, ciò che non può essere ridotto a un’idea semplice»[7]. Con Morin potremmo inoltre aggiungere che a poco a poco è emersa l’idea che tutta la realtà è complessa, ovvero che tutta la realtà è qualcosa che non è semplice, lineare, dominato da una razionalità intrinseca e caratterizzata dagli stessi principi logici che hanno storicamente individuato e definito il nostro modo (europeo, occidentale, bianco e maschile) di interpretare la realtà. Tutte le teorie, le leggi, i punti di vista su di essa sono da intendere, pertanto, come delle semplificazioni di qualcosa che - appunto - è molto più intricato. Occorre di conseguenza tener anche presente che quando studiamo qualcosa lo facciamo sempre a partire da un determinato punto di vista, che condiziona il nostro modo di vedere l’oggetto, anzi - per la precisione - di costruirlo come oggetto di pensiero: è sempre un punto di vista che si soffermerà su alcuni aspetti di ciò che mi sta di fronte, ma tralasciandone altri. La mia visione, di conseguenza, non può mai dirsi la visione oggettiva della realtà, poiché è sempre una visione oggettivizzante (nel senso suddetto che crea l’oggetto che ha di fronte a partire dai parametri che sono stati stabiliti, con i quali si è deciso di studiare quel fenomeno). La mia conoscenza non potrà mai dirsi totale, completa ed esaustiva dell’oggetto.

            Assumere allora il problema della complessità come orizzonte della formazione e della trasmissione del sapere - anche a scuola - significa tener presente anzitutto:

a) che il rapporto soggetto-oggetto, ossia chi-studia-cosa non è mai qualcosa di scontato: esistono condizioni diversissime per tale rapporto e che conducono a visioni differenti del medesimo fenomeno;

b) che ogni costruzione della realtà può avere una sua dignità: e quindi nessuna teoria o spiegazione può dirsi unica, ultima o definitiva. Detto altrimenti, l’approccio più efficacie per lo studio di un problema risulta essere la transdisciplinarietà, ovvero il confronto-incontro tra approcci diversi che - partendo da differenti punti di vista sulla realtà - produrranno immagini diversissime di essa, ma tutte egualmente importanti per la sua comprensione.

             Alla luce di questi chiarimenti, grazie alla teoria della complessità di Morin, credo che la definizione del campo dialogico di emergenza della verità che ci ha proposto il testo di Foucault (e che chiamerei di problematizzazione dialogica) sia quanto mai interessante, permettendoci al contempo di far sottolineare quegli elementi che ci consentono di rispondere anche al nostro terzo quesito, ovvero Quali abilità/competenze la scuola deve trasmettere e formare? Come possono essere meglio insegnate/acquisite nella scuola?

            Se la filosofia è una strategia di problematizzazione dialogica della realtà, essa è intrinsecamente affine con la teoria della complessità, perché come visto essa sollecita un approccio ermeneutico, antidogmatico: è un approccio alla realtà che invita a mettere costantemente in gioco anche i suoi stessi strumenti, per essere sempre più efficaci ed agguerriti nell’esercizio critico. Quest’approccio implica che gli strumenti che io utilizzo non sono dati una volta per sempre. Quando noi parliamo - o sentiamo parlare - di uso critico della ragione dobbiamo tener presente che è estremamente difficile dire universalmente che cosa sia la ragione, che cosa possiamo chiamare razionale. Noi, occidentali del XXI secolo, sulla base di una serie di esperienze storiche che ci hanno preceduto, probabilmente daremo una definizione di razionalità (e quindi anche di cosa intendiamo per verità) diversa da quella degli Indiani o degli Arabi. Da questo punto di vista quello che la problematizzazione dialogica ci invita a fare è lo sforzo di comprendere e spiegare ciò che abbiamo di fronte. Fare diventare qualcosa un problema significa cercare di spiegarlo ovvero di intenderne il significato che esso ha per noi, nonché comprenderlo ossia collocarlo nel suo contesto storico, per intendere i motivi per cui è così e non altrimenti. Se impariamo a problematizzare la realtà, a guardarla in modo critico, potremo svolgere un esercizio di senso, di comprensione del senso di ciò che abbiamo di fronte.

            La problematizzazione è dialogo, come abbiamo sottolineato: essa assume il dialogo come orizzonte imprescindibile di ricerca della verità. Dialogo con la pluralità di letture possibili del reale, con la molteplicità delle modalità di vivere e comprendere il reale (anche a partire dalla grande discriminante storica della differenza sessuale). Ma dialogo è anche confrontarsi con i testi, in un duplice senso: come lettura storica del testo, intendendone la collocazione storica e la sua specificità in quel contesto, il suo senso e il suo valore in quella esperienza culturale; e viceversa, sottraendolo ad ogni imbalsamazione sotto la nefasta categoria del classico, come lettura analitica, tesa ad interrogare il testo ed a leggerlo in riferimento - come detto - ai nostri problemi, al nostro vissuto ed al contributo che esso può portare per i loro chiarimenti. La  problematizzazione dialogica ha infine a che vedere con il fare esperienza, ossia con l’elaborazione di sempre nuovi gradi di consapevolezza e di conoscenza di sé, degli altri e della realtà che ci circonda, implicando anche una selezione delle informazioni che vengono acquisite, un loro discernimento, una valutazione critica del loro livello di importanza per il problema che sto affrontando e per il modo attraverso il quale lo sto affrontando. In conclusione, anche la dimensione degli strumenti e delle abilità risulta quindi essere una dimensione in fieri dell’insegnamento filosofico, che deve necessariamente rapportarsi al contesto dialogico testo-insegnante-discenti per strutturare risposte via via adeguate alle necessità in atto in quel contesto e che cerchi di rispondere a quelle esigenze chesono emerse, confrontandosi con testi specifici che richiedono strumenti concettuali specifici e che offrono a loro volta opportunità di acquisizione di abilità specifiche, proprie - detto nuovamente - di quei testi e soprattutto di quel con-testo di lettura. 

Sergio Dagradi

e-mail sergiodagradi@yahoo.co.uk


* Le seguenti riflessioni sono nate nel corso della preparazione e dello svolgimento della programmazione annuale nelle classi di un liceo scientifico tecnologico. In particolare l’aspetto didattico che mi è parso emergere nel corso dell’anno con sempre maggior evidenza – e nella sua a volte sorprendente banalità – è un costante rimando tra l’andamento dell’interesse delle classi alle lezioni ed al lavoro sui testi, dell’animarsi delle discussioni o del loro sopirsi, e dei risultati conseguiti ai fini valutativi, e la capacità che dimostrava quanto si veniva a proporre di rispondere a contemporanee esigenze da parte della classe stessa. Mi sono quindi interrogato sul rapporto sempre intercorrente e sempre sotterraneo tra la dimensione propositiva dell’insegnante e le istanze – o la loro mancanza – che provengono dai soggetti sociali che si hanno di fronte, con le loro storie, i loro vissuti ed i propri contesti di esperienza. E sopratturro su quale fosse il destino della filosofia in questo rapporto e su quale posizione occorresse prendere, come insegnante, di fronte ad esso.

[1]Si cf. S. RESTELLI, La didattica della filosofia e la riforma della scuola secondaria superiore, in S. RESTELLI (ed.), La filosofia e le altre discipline. Percorsi didattici multidisciplinari per la scuola superiore, Franco Angeli, Milano 2000.

[2]Ivi, p. 14.

[3]L. S. VYGOTSKY, Pensiero e linguaggio, (1956), tr. it. Laterza, Roma-Bari 1990; ID., Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, (1960), tr. it. Giunti Barbera, Firenze 1974.

[4]P. HIMANEN, L’etica hacker e lo spirito nell’età dell’informazione, (2001), tr. it. Feltrinelli, Milano 2001.

[5]M. FOUCAULT, Polemica, politica, problematizzazioni, (1984), tr. it. in ID., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 3. 1978-1985 Estetica dell’esistenza, etica, politica, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 240-247.

[6]E. MORIN, Introduzione al pensiero complesso, (1990), tr. it. Sperling & Kupfer, Milano 19932.

[7]Ivi, p. 2.