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Comunicazione Filosofica n. 10 - maggio 2002

 

"Metto un Delphinium, blu, sulla tua tomba"

Ludwig Wittgenstein attraverso il cinema di Derek Jarman[1].

 

La presenza curricolare del cinema nella scuola ha assunto multiformi valenze didattico educative, soprattutto se rivolto alla fascia scolare dell'obbligo. Più difficile e raro ne è invece l'utilizzo alle superiori nel rispetto delle sue specificità linguistiche: sono solitamente gli agganci tematici ad essere privilegiati, e  poco importa al docente di fare accedere gli studenti alla filosofia o alla poetica registica che, pure, non è assolutamente indifferente al messaggio visivo che viene proposto e che è determinato proprio dalle scelte semantiche e sintattiche del linguaggio cinematografico. Questo approccio è decisamente falsante rispetto ad una corretta analisi del film come di un testo da accostare con le stesse cautele ermeneutiche che invece vengono normalmente messe in gioco quando si affronta un testo filosofico, storiografico o letterario. L'esperienza della quale si da' un breve resoconto insiste invece su di un'altra prospettiva didattica: sussiste infatti un forte legame fra le tematiche filosofiche e l'espressione - non tanto tematica quanto linguistica - del cinema autoriale e questo permette di costruire dei moduli - e, grazie alla modularità, anche dei curricoli - che mettano a confronto l'espressione cinematografica con quella della tradizione della filosofia 'alta', in una modalità piuttosto nuova che vede il cinema diventare parte integrante - e non sostegno, supporto funzionale o altro - alla didattica della filosofia.

Un esempio forse risaputo ma poco frequentato  consiste nella formulazione di un modulo integrato di cinema e filosofia attorno alla figura di L. Wittgenstein - presenza filosofica emblematica del Novecento che con la sua opera complessa e multiforme ha spaziato all'interno di varie discipline, dalla logica alla matematica, dalla linguistica alla psicologia -  e di Derek Jarman - cineasta  iconoclasta, dissacrante e nel contempo capace di una profonda riflessione sulla vita.  I due condividono un inquieto spirito di ricerca che si è riflettuto nelle singolari vicissitudini delle loro esistenze: "In me c'è molto di Ludwig, nel mio lavoro e nella mia vita", così lo stesso Jarman dichiara nell'intervista rilasciata a 'Repubblica' alla presentazione del film biografico-brillante sul filosofo austriaco e in effetti ciò è ravvisabile nell'itinerario culturale condotto dai due in modo così speculare da consentire la formulazione di un efficace modulo avente forme più o meno brevi di ideazione e conduzione.

La forma più completa dovrebbe potere inquadrare la figura di Wittgenstein all'interno della feconda vivacità culturale della Vienna degli inizi del secolo e degli anni Venti in particolare. A questo scopo, risulta opportuno inquadrare 'quella' Vienna - di Schnitzler[2], di Schoemberg[3], dell'architettura funzionalista[4] e dell'espressionismo - come elemento della Mitteleuropa in dialogo con Weimar alla luce di un comune destino storico (il crollo degli imperi, il crollo delle certezze e la crisi dei valori), ma anche come luogo di stridenti contraddizioni: la fiducia nelle scienza e nell'uomo[5] accanto alla scoperta freudiana revisionata da Adler della dimensione irrazionale della coscienza, ben rappresentata dal primo conflitto mondiale; le istanze scientiste e quelle misticheggianti, il senso della fine e il bisogno di un nuovo avvio, la domanda sulla possibilità della scienza di salvare il mondo e i dubbi dell'intellettuale.

Questo tipo di approccio pluridisciplinare, che tuttavia stimola gli studenti alla formulazione di propri percorsi di ricerca,  può essere abbandonato a favore di un taglio prettamente filosofico: in questo caso, è opportuno proporre un quadro generale della 'Vienna filosofica' attraverso l'Empiriocriticismo (Mach e Avenarius), la psicoanalisi, il Wiener Kreis (Carnap, Frank, Hahn, Schlick), Popper (nel 1919-24), possibilmente attraverso le tecniche della didattica breve e la predilezione dell'approccio testuale. Wittgenstein andrebbe collocato, pertanto, al crocevia delle diverse tensioni indicate per poi concentrare l'attenzione sulla sua analisi del linguaggio.

Proprio qui entra in causa ancor più chiaramente l'opportunità offerta dal cinema di Jarman, che permette almeno due piste di lavoro. La prima, che però non intendiamo percorrere se non per brevi cenni, è quella di analizzare la biografia di Wittgenstein prodotta dal regista nel 1992 per cogliere una - o più - letture interpretative della figura del filosofo.

Una seconda, più originale, sta invece nel cogliere una profonda sintonia fra la poetica registica e l'evoluzione del pensiero del filosofo in merito al problema del linguaggio. Questa affinità è decisa soprattutto dalla comparazione di tre testi filmici - Caravaggio, Wittgenstein e Blue - di Jarman, il quale, come è dimostrabile, percorre un itinerario culturale analogo a quello di Wittgenstein, operando sulle immagini - che sono le 'parole' per un cineasta - il discorso che Wittgenstein conduce nel Tractatus. Si intende che il Tractatus viene offerto agli studenti non semplicemente come una 'prima' fase contraddetta da una 'seconda', ma come il tracciato di un percorso che si compie - pur con delle svolte di 'maniera', come afferma Apel[6] -  nel cosiddetto 'secondo' Wittgenstein, quello delle Richerche, come proposto nella prospettiva di C. Diamond e di J. Bouveresse. Questi, nel precisare in che senso si possa parlare di un primo e di un secondo Wittgenstein, afferma che mentre nel Tractatus il filosofo sembra ancora avere un progetto teorico, sembra cioè ancora interessato a produrre una teoria del senso della realtà  - anche se il libro si conclude poi con la denuncia dell'impossibilità di compiere una tale impresa - , nella seconda fase il filosofo non presenta più alcuna ambizione di sistematicità, e la filosofia diventa terapia[7], un lavoro di autocorrezione in dialogo con se stessi. Il Tractatus logico-philosophicus ebbe infatti un’enorme influenza sul Circolo di Vienna, sebbene sia stato almeno in parte frainteso dai suoi membri, che, nel rigettare la metafisica, assunsero come modello la scienza, ritenendo a torto che Wittgenstein la pensasse come loro. Al contrario, per il Wittgenstein del Tractatus e in particolare delle settima proposizione, la produzione di una teoria del senso della realtà è fallimentare e, pertanto, se  pure pensabile e dicibile sono equivalenti e il lavoro della filosofia consiste nel delimitare la sfera del dicibile da quella dell'indicibile, vincendo la tentazione di dire l'indicibile, allora le nozioni estetiche, etiche e religiose, risiedono proprio nell'ambito di ciò che non può essere detto, ma solo mostrato: l'accesso al 'mistico', ovvero all'indicibile, passa dunque attraverso la 'de-finizione' del 'dicibile'[8] e il suo progressivo abbandono, sino a lasciare spazio solo al 'silenzio'.

Questo è proprio quello che Jarman opera attraverso i suoi film. In Caravaggio[9], vincitore dell'Orso d'Argento al Festival di Berlino del 1987, film difficile per il grande pubblico e molto figurativo, il regista underground,  per la rappresentazione della vita del Caravaggio fa continui riferimenti pittorici inquadrando il pittore italiano entro le tensioni morali e le sue contraddizioni esistenziali. Jarman sceglie sempre figure con le quali si sente a proprio agio o con il cui travaglio - l'omosessualità in modo particolare - si sente in sintonia. Psicologico e con molte fantasie storiche, il film  - che può essere mostrato anche per sequenze significative - vede già la tendenza  visionaria e antirealistica a fare uso di un linguaggio delle immagini in una direzione di un assoluto disancoraggio da oggettività spazio-temporali o fattuali: Caravaggio veste a tratti come un personaggio di Checov, frequenta i 'femminielli' partenopei, tra rombi di motorino e ticchettii di una macchina da scrivere. Questi anacronismi sono un modo diretto di 'dire' l'indicibile: Jarman vuole infatti entrare nell'essenza umana e culturale di Caravaggio, ponendosi in ascolto di una coscienza che necessita di silenzio per potersi 'dire', o, meglio 'mostrare'. Jarman 'mostra' cioè quello che non si può 'dire' offrendo allo sguardo quello che non può essere coerente con il senso della biografia - sfondo oggettivo -, del personaggio. Non a caso anche Wittgenstein affermava che "La soluzione all'enigma della vita nello spazio e nel tempo si trova al di fuori dello spazio e del tempo". Proprio perché le parole di cui Jarman fa uso sono le immagini, si può dire che  progressivamente tenda a ridurne la portata di 'significato' -  oggettivo -  per lavorare sulla polisemia -'giochi' -  delle immagini/parole.

Su questa linea, in Wittgenstein [10] Jarman diventa ancor più visionario e nel contempo speculativo, fondendo storia e poesia in una visione crepuscolare dell'esistenza del grande filosofo: già malato di Aids, Jarman, quasi cieco, ha diretto un film di impianto teatrale, come già accaduto in Edoardo II,  ma creando un tipo di teatro al servizio del cinema. Ludwig Wittgenstein viene 'narrato' per sequenze separate da stacchi in nero attraverso i momenti emblematici della sua esistenza: dall'educazione familiare, la scuola, la decisione di vivere in povertà, le molte disgrazie familiari (suicidi e pazzie), all'arrivo a Cambridge, le sue amicizie e la stima da parte di Bertrand Russell, sino all'epilogo della sua vita[11]. "Il mio film non ritrae Wittgenstein né lo tradisce: è lì per svelare", disse Jarman accentuando la volontà di 'lasciare apparire', ascoltare la vita di Wittgenstein, e in effetti riesce a farlo non abbandonando uno stile anche divertente oltre che intelligente. Infatti, contrariamente a quanto si possa credere, la biografia del filosofo viene ideata con un profondo senso della trasgressione, dell'originalità e della lievità umoristica, a metà fra il cabaret e il teatrino filosofico: gli ambienti non esistono e lasciano il posto a sfondo nero, macchina fissa, attori e oggetti in primo piano, luci che dall'alto drammatizzano in modo forte e diretto la fisicità  -  anche turbata - dei personaggi e le loro idiosincrasie/"abiti" anche mentali.

Il film nasce da una sceneggiatura importante di un accademico eterodosso come T. Eagleton e riposa su due paradossi: quello di un regista che tenta di rappresentare - ma, come abbiamo detto, finisce con lo 'svelare' soltanto - la vita di un pensatore che ha minato con il suo pensiero ogni forma di rappresentazione, e quello di una sceneggiatura 'scritta' - opera di un critico letterario marxista -  che viene tradita nella sua trasposizione filmica da un regista la cui filosofia sta nel non avere alcun progetto nel girare un film[12], operando con i suoi attori in modo talmente democratico da costruire il film attraverso i loro stessi apporti[13]

Il taglio interpretativo di Eagleton tende a proporre il Tractatus - e il suo autore - come espressioni del modernismo filosofico: le coordinate non sono dunque Frege o Russell, ma Yojce, Schoemberg e Picasso, poiché, come molte opere moderniste,  il Tractatus  opera nel senso dell'autodistruzione: se infatti la relazione con il mondo è ineffabile, allora il suo sforzo di costruirla con il linguaggio non ha ragione di esistere[14]. La 'scala' che viene edificata conduce ad una dimensione 'altra' raggiunta la quale la 'scala' viene abbandonata alla sua inutilità[15].

Ma il modernismo di Wittgenstein traspare attraverso il film anche dall'insistenza circa l'oggetto della sua indagine: come il musicista con il suono, il pittore con il colore, lo scultore con la materia e, non da ultimo, il regista con la luce in movimento e il colore, il filosofo si ripiega su di sé per interrogarsi con il proprio medium, ovvero il linguaggio stesso: invece di cominciare dal mondo per cercarne il raccordo con il linguaggio, egli fa del mondo qualunque cosa ci dischiuda il nostro linguaggio. Anche nella visione di Jarman questo fa di Wittgenstein una sorta di asceta, di monaco, mistico e meccanico nel contempo, "che agognava nostalgicamente la simplicitas tolstoiana, un gigante della filosofia con scarso rispetto per la filosofia stessa, un autocrate irascibile con sete di santità"[16].

Lo stile del personaggio è reso in modo sottile attraverso un linguaggio obliquo, idiosincrasico e a tratti ironico: lo 'scarto' fra l'ascetico arisotcraticismo dell'uomo e della prima fase del suo pensiero e gli esiti 'behavioristici' dell'opera  - le Ricerche,  rilette da Eagleton e Jarman in senso del tutto anti- romantico, amti-imtimista -  serve al regista per riprodurre la complessità freudiana del suo essere così, apparentemente, spiazzato nella storia, nel contempo arcaico e all'avanguardia, rivolto vero l'elegia di un passato ma con lo sguardo rivolto al futuro. Jarman rende tutto ciò attraverso la mescolanza di materiale citazionista e immaginario, imprimendo molta carica drammatica alla sceneggiatura che, invece, sembra più rivolgersi alle idee che non al personaggio.

Pur con l'attenzione biografica, dunque, Jarman conduce avanti anche il suo personale dialogo con il linguaggio delle immagini. Infatti, nel film  Wittgenstein emerge anche la costante riflessione di Jarman sui colori, riflessione che lo accomuna ancora una volta a Wittgenstein[17] e lo porta a realizzare il suo ultimo film, Blue, appunto: l'utilizzo del 'nero' come 'stacco' fra sequenze ma anche come sfondo dell'azione dei suoi personaggi produce un effetto di annullamento di ogni forma di estetismo decorativistico per fare luccicare i suoi personaggi - come lui stesso affermò - "come nani rossi - e giganti verdi. Linee gialle e stelle azzurre"[18]. Una svolta pittorica di grande essenzialità che veicola un'ulteriore distacco dalle immagini descrittive per un linguaggio filmico ancora più 'essenziale' -  pur nell'eccedenza cromatica che rasenta lo stile High Tec - e sempre più speculativo. Lo sguardo è condotto dal visibile/dicibile all'invisibile/indicibile con immagini che, infatti, in Blue scompaiono del tutto costringendo ad un silenzioso - perché afasico di immagini - 'ascolto' del 'mistero' di una vita narrata nel suo epilogo.

Blue è infatti non solo l'ultimo film diretto da Jarman -  con il parziale aiuto di David Lewis - ma è anche l'estremo messaggio dell'autore. Si tratta di un esperimento molto radicale, monocromatico: infatti, lo schermo è completamente coperto dal colore blu mentre la voce del regista ci fa attraversare dal di dentro le tensioni di un malato terminale di Aids. È  ancora una volta una biografia, anzi un'autobiografia, ma come è nello stile del regista non manca l'ironia. Le immagini vengono gettate via, come la 'scala' di Wittgenstein, per lasciare aperto lo sguardo su immagini 'altre', indotte dalle parole ascoltate da un pubblico immerso nella 'azzurrità'[19]. Il blu, infatti, occupa per Jarman un posto speciale nei colori: come Ficino già affermava, il blu trascende la solenne geografia dei limiti umani, protegge il bianco dall'innocenza[20], trascina il nero con sé: è oscurità resa visibile (visibilità dell'invisibile)[21]".

Il blu diviene pertanto nella filmografia di Jarman l'equivalente dell'accesso al 'mistico' di Wittgenstein: "Il blu si addentra nel labirinto. - afferma Jarman stesso - A tutti i visitatori è richiesto assoluto silenzio, affinché la loro presenza non disturbi i poeti che dirigono gli scavi"[22]. Infatti, il colore blu accoglie la parola poetica, "guardava parole o frasi materializzarsi in bagliori scintillanti, una poesia di fuoco che relegava tutto nell'ombra con lo splendore dei suoi riflessi"[23].

Il blu è la conclusione - forzatamente tale anche perché di un regista ormai cieco e consapevolmente al termine della sua vita -  di un'esperienza intellettuale che ha visto Jarman rivivere, ripensare e forse ripercorrere le tappe della filosofia di Wittgenstein attraverso il linguaggio delle immagini: da immagini che 'dicono' il mondo a un 'mondo' costituito dalle immagini stesse,  sino all'accesso misterioso e 'mistico' all'impossibilità di rappresentare la verità  attraverso  le immagini.


[1] La citazione è da D. Jarman, Chroma, Ubulibri 1995, p.102. Derek Jarman, di origine danese ma inglese per adozione, ha diretto pochi film prima di morire di Aids nel 1993. Questa la sua filmografia essenziale: Sebastiane, biografico, in collaborazione con Paul Humfress (Gran Bretagna 1976), Caravaggio, drammatico (Gran Bretagna 1986), Aria, film di animazione scritto in collaborazione, fra gli altri,  conRobert Altman, Franc Roddam, Ken Russell, Charles Sturridge (Gran Bretagna 1987); La fine dell'Inghilterra, sperimentale (Gran Bretagna 1989); Il Giardino, sperimentale (Gran Bretagna 1990); Edoardo II, drammatico (Gran Bretagna 1991); Wittgenstein, biografico (Gran Bretagna 1992); Blue, sperimentale (Gran Bretagna 1993). Un filmografia in bilico fra sperimentazione e necessità di raccontare biografie  di personaggi quasi sempre sospesi fra altissime idealità e brucianti passioni della carne che ne determinano il destino.

[2] Può essere inserito nel modulo un confronto letterario fra il testo filmico Mio Caro dottor Grasler di R. Faenza e l'omonimo testo letterario di Schnitzler: si tratta dei una vicenda di 'inettitudine' che segna in particolare un uomo di scienza, evidenziando le due 'anime' del periodo, quella aperta alla scienza come futuro dell'umanità razionale e quella che si confronta con i misteri dell'inconscio.

[3] Opportuna la proposta di ascolto di almeno un breve brano dodecafonico, inserendo l'esperienza nella lettura delle due anime della cultura viennese di cui sopra

[4] A tale proposito, è interessante proporre agli studenti le immagini degli studi  architettonici condotti da H. Finsterlin, P. Behrens, , W. Luckhardt  e Mises van der Rohe - reperibili in Esperssionismo e Nuova Oggettività, Catalogo Electa, Milano  1994 -  dai quali si evince chiaramente ancora una volta l'ansia di novità e di rigotre delle forme architettoniche a fronte di una complessità e di un'articolazione che tende a riprodurre negli edifici le misteriose forme della natura, da quella inorganica - i cristalli -  a quella organica - le viscere di un organismo umano - . Risulta molto efficace, a tale proposito, mostrare le immagini del film Metropolis di F. Lang nelle quali appaiono proprio i bozzetti degli architetti citati, a costituire l'immaginaria città che da fa scenario futuribile della fiction langhiana.

[5] In tale senso è utile proporre l'analisi del Manifesto del Wiener Kreis e di quello del Berliner Kreis, evidenziando cesure e continuità.

[6] "La ragione dell'"insensatezza" delle proposizioni su fatti in generale, su stati di cose in generale, in breve sul mondo nel suo complesso, risiede per Wittgenstein proprio nel fatto che esse pretendono di parlare sulla forma logica comune al linguaggio e al mondo(La forma logica delle proposizioni- brano tratto dal "Tractatus logico-philosophicus"). Questa posizione di Wittgenstein nel Tractatus contiene già il vero e proprio motivo fondamentale della sua filosofia successiva: il sospetto d’insensatezza nei confronti di tutte le proposizioni metafisiche. In seguito, però, nella sua seconda maniera, come possiamo leggere nelle Ricerche filosofiche, egli ha gradatamente abbandonato la presupposizione che vi sia una sola logica ideale del linguaggio in favore della concezione di infiniti giochi linguistici, che, come egli dice, sono intrecciati con le forme di vita." Cfr. Intervista a K.O. Apel, in http://www.emsf.rai.it (Sezione percorsi_tematici/wittgindex.htm). Interessanti anche le interviste - facilmente mediabili agli studenti - a  Pears e  Buoveresse.

Pears indica nell'abbandono della teoria speculare del linguaggio il tratto determinante delle Ricerche filosofiche rispetto al Tractatus. Questo cambiamento di prospettiva porta il filosofo a elaborare una diversa teoria del significato, non più come analisi, ma come uso della parola. Il gioco linguistico è definito da Pears come una parte del linguaggio usato nella vita, mentre per "forma di vita" si intende una pratica nella quale il linguaggio ha un ruolo speciale da giocare. Per quanto riguarda il linguaggio privato, questo viene criticato da Wittgenstein perché separa il linguaggio dalla contingenza, e quindi nega la necessaria connessione tra la mente e il mondo esterno. All'idea che il linguaggio implichi un'attività è collegata la nozione di regola d'uso. Secondo Pears infine il tentativo di rendere concrete questioni filosofiche astratte accomuna il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche ad alcuni motivi di Essere e tempo di Heidegger. Wittgenstein fu sempre contrario, osserva Bouveresse, al realismo matematico platoneggiante: egli era convinto che i matematici creino, non scoprano delle essenze, che vengono poi applicate alla descrizione della realtà empirica. La posizione di Wittgenstein è diversa pertanto dal logicismo di Frege e Russell, vista la sua opinione  sulla pretesa crisi dei fondamenti della matematica, sull’utilità della logica per la matematica e la filosofia e sull’intuizionismo logico. 

[7] Ibidem. David Pears spiega che la nozione di gioco linguistico in Wittgenstein è legata all'idea che il significato delle parole risieda nel loro uso e fa gli esempi dello stringere un accordo con qualcuno o della firma di un contratto: in situazioni del genere, come nel gioco degli scacchi, si può fare un numero limitato di mosse, soggette a regole determinate. Gli uomini agiscono con le parole e i loro diversi usi marcano differenti aree del linguaggio. Parlare un linguaggio è un'abilità paragonabile al gioco. Per acquisire una certa forma di abilità è necessaria un'applicazione ripetuta. Sostenere che si possa acquisire una certa perizia in un'unica occasione è un'affermazione priva di senso. I giochi linguistici in Wittgenstein sono in parte descrizioni fattuali, in parte modelli semplici che mostrano la struttura del gioco, senza darne i dettagli.

[8] Ibidem. Buoveresse insiste sull'idea wittgensteiniana della filosofia come attività che non produce proposizioni, conoscenze e verità  e sulla sua vocazione antimetafisica che nasce dalla rinuncia a considerare la filosofia come una forma di conoscenza. Tale convinzione lo avvicinerebbe a Kant, e solo in apparenza a Heidegger che invece continuerebbe a considerare la filosofia come una forma superiore di conoscenza. Tuttavia anche rispetto a Kant, Wittgenstein presenta delle notevoli differenze: infatti, mentre il primo conduce una critica delle capacità dello spirito in generale, il secondo compie una critica del linguaggio, interna al linguaggio stesso tra ciò che si può e ciò che non si può dire, ovvero tra ciò che è pensabile e ciò che non lo è .

[9] Interessante ampliare il discorso al cinema del maestro Ken Russell,  per il quale studiava le scenografie.

[10] Il film nasce all'interno di un ampi progetto di Channel Four relativo alla creazione di un ciclo sulla filosofia guidato da testi filmici biografici di carattere divulgativo. Dei dodici film previsti, solo le sceneggiature su Spinoza di Tarq Ali, su Locke di D. Edgar, e su Wittgenstein di Terry Eagleton furono affidate a tre registi per la trasposizione filmica.

[11] AA.VV., Wittgenstein, Ubulibri, 1993: il testo presenta la sceneggiatura curata da Terry Eagleton per la realizzazione del film.

[12] "Seguire una regola" è, secondo Wittgenstein, una prassi. Egli scrive nel paragrafo 202 delle Ricerche: "credere di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola privatim; altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola".

[13] Ibidem, p.9. La scelta di alcuni brani tratti dalla sceneggiatura e confrontati con le sequenze del testo filmico di Jarman sono davvero efficace per cogliere anche le 'deviazioni' operate dal regista rispetto alle intenzioni originarie dello sceneggiatore. Si consigliano in particolare le Scene 8, 11,13,15-17,20,22, 28 e 37. Mirabili anche le sequenze in cui, bambino, è oppresso da una famiglia con troppi soli, troppi suicidi e celebrità per casa  -  la madre suonava con Mahler e Brahms, Ravel dedicò il famoso concerto per una mano sola al fratello amputato in guerra, una sorella era in analisi da Freud etc. - ; oppure quelle in cui discute di metafisica con Russell, cerca la morte nelle trincee della Grande Guerra, tenta di andare a Mosca per fare l'operaio, dialoga con un marziano verde con il quale riesce a dipanare complesse matasse teoretiche.  Circa gli apporti alla sceneggiatura di Eagleton, si veda anche Ray Monk, Wittgenstein il dovere del genio, Bompiani 1991.

[14] "Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere"

[15] AA.VV. Wittgenstein, op.cit., p.14. Così si esprime Eagleton nella sua prefazione alla sceneggiatura del film: "Solo se utilizziamo queste proposizioni impossibili come scale gettate via a calci non appena ci si è montato sopra, vedremo il mondo nel modo giusto; e in questo senso il Tractatus si cancella in un atto di autoironia modernista…".

[16] Ibidem, p.15

[17] Le sue Osservazioni sul colore sono infatti fonte del film Blue di Jarman

[18]AA.VV., Wittgenstein, op. cit., p.114

[19] "Accendete i colori uno contro l'altro, e loro canteranno. Non in coro, ma come solisti. Che cos'è il colore della musica celeste se non l'eco del Big Bang nello spettro, che si ripete come un ritornello?". Così Jarman in Chroma, op. cit., p.111

[20] Ibidem. Risulta interessante a questo proposito il confronto con le Osservazioni sul colore di Wittgenstein e in particolare al tema del bianco assoluto: Ibidem, pp.18-25: "Lichtenberg dice che solo pochi uomini hanno visto il bianco puro. Allora la maggior parte della gente usa la parola in modo scorretto?"

[21] Ibidem, p.92: Nel pandemonio dell'immagine/ vi offro il blu universale/ Blu, una porta aperta sull'anima/una possibilità infinita/che diventa sensibile".

[22] Ibidem, p.93

[23] Ibidem