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Comunicazione Filosofica n. 8 - luglio 2000

 

Imparare il mestiere di pensare. La progettazione di un “Laboratorio di Filosofia”[1]

 di

Fulvio Cesare Manara

 

 Succede alla maggioranza dei filosofi sistematici,

riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello

e poi se ne andasse a viver in un fienile:

per conto loro essi non vivono in quell’enorme costruzione sistematica.

Ma nel campo dello spirito ciò costituisce un’obiezione capitale.

Qui i pensieri, i pensieri di un uomo, devono essere

l’abitazione in cui egli vive, ecc.: altrimenti son guai.

Soeren Kierkegaard

 

Agli occhi di chi quelli di noi che lavorano oggi nelle scuole secondarie — almeno di coloro che si interrogano sul proprio lavoro — mi sembra che sia chiaro che è urgente superare in modo definitivo un modello didattico obsoleto, centrato (più che su una presunta monomedialità) piuttosto sulla standardizzazione e ripetitività, su un atteggiamento riduttivo di fronte alla complessità delle interazioni che avvengono in classe, ed anche nel rispetto della ampiezza di opportunità offerta dalla ampia varietà di tecniche di cui la pratica filosofica si è servita nel corso della storia. È necessario comprendere che la progettazione di una attività di insegnamento della filosofia richiede di mettere in atto un sistema complesso, e che occorre pensare a tale sistema secondo criteri del tutto nuovi.

La didattica della filosofia, probabilmente, può essere più avvertita (ed anche più efficace) nella misura in cui saremo in grado di far ricorso in modo combinato al più ampio spettro possibile di approcci e di metodologie, di strumenti didattici e di modelli.

Progettare un laboratorio di filosofia significa ripensare fin dai fondamenti le pratiche filosofiche e le pratiche di insegnamento della filosofia. Infatti, la pratica filosofica, come ogni pratica umana, è attraversata da tecniche e tecnologie, che è  il caso di considerare attentamente e di riscoprire organicamente. Si tratta di ripensare la “scuola filosofica” in modo da trasformarla in un progetto in cui si possano mettere in atto ed esercitare, sulla base della possibilità di scegliere, nel più ampio e completo spettro di possibilità, le pratiche di cui la filosofia è costituita. Apprendere le “tecniche” filosofiche comporta l’idea del praticare esercizi filosofici, comporta l’acquisizione di abilità e competenze volte ad un attento utilizzo di una pluralità di dispositivi e strumenti, vecchi e nuovi, di  per poterne far uso intelligente e mirato in tempi e modi opportuni[2]. Senza questa “immersione” nella tecnica sarebbe del resto impossibile proporsi di esercitare il soggetto coinvolto nell’esercizio del filosofare anche a “distanziarsi” dal mezzo che usa, ad acquisire consapevolezza del dominio che le tecniche esercitano in lui mentre fa pratica di esse, per porre la questione del senso dell’esser soggetto alla tecnica, del praticare un metodo, ecc. Non credo che alcuna attività condotta dall’uomo possa sottrarsi a questo “sguardo filosofico”. Ma è appunto solo con l’esercizio della filosofia, che si prende coscienza di tutto questo, che si acquisisce questo “sguardo”.

 Al di qua della “reificazione” delle tecniche, occorre ritornare alla techne come esperienza e pratica viva. Un “ritorno” alla filosofia come esperienza, iniziazione, “addestramento” e “arte”: come quando si poteva connettere il termine “tecnica” a buona parte, se non a tutte, le pratiche di cui era costituito il filosofare: ad es., dialektiké techne, logiké t., retoriké t., e via dicendo.

Laboratorio di filosofia e prospettive di didattica della filosofia

Nel nostro paese, la ricerca in didattica della filosofia ha compiuto nel corso del secolo,  — sia detto a grandi linee — i seguenti sviluppi:

§         la polemica di inizio secolo tra l’impostazione “tematico/disciplinare” tipica dell’atteggiamento positivistico e quella storicista e storicistica (che suggeriva come criterio la sequela dell’asse storico-cronologico): quest’ultima venne integrata a partire dagli anni venti nei programmi di insegnamento ministeriali;

§         la polemica, molto diffusa, fra “metodo storico e metodo zetetico”, che esauriva quasi completamente i termini del dibattito negli anni del primo dopoguerra, ma che ancora era diffusa e vivace negli anni settanta: alla didattica “storico/cronologica” si contrappose l’approccio critico/problematico, alla cui base sta l’identificazione di dilemmi e problemi e la loro discussione, ma senza che questo mutasse alcunché nei Programmi Ministeriali. Nel frattempo, fin dagli anni ’50, ferve il dibattito sulla riforma della secondaria, e, di concerto, sulla modifica dei programmi di filosofia…;

§         il dibattito connesso con la pratica della lettura diretta dei testi,  “riscoperto” progressivamente a partire dagli anni settanta;

§         la scoperta della “programmazione”, e della possibilità di operare razionalizzando i percorsi in maniera più complessa rispetto alla sequela storico-cronologica; esigenza mossa soprattutto dall’introduzione del modello comportamentistico in didattica. Sempre in relazione questo modello, si è sviluppata negli anni settanta e ottanta anche una attenzione alle “abilità” ed ai “comportamenti” indicatori di apprendimento in filosofia, la quale è stata orientata in grandissima prevalenza attorno alle “abilità di lettura dei testi” — come documentano i programmi “Brocca” diffusisi agli inizi degli anni ’90;

§         la “rivoluzione” introdotta dai “nuovi media”, dalle nuove tecnologie della comunicazione e delle nuove possibilità offerte da ipertesti, multimedia e telematica — la quale ha fatto emergere la consapevolezza della inscindibilità ed interdipendenza esistente tra le tecniche dell’espressione e della comunicazione, da una parte, e attività e prodotti della mente umana, dall’altra;

§         la rivoluzione introdotta dai radicali mutamenti di paradigma generati dai risultati delle ricerche nelle odierne scienze cognitive (prima del “cognitivismo” e poi, in particolare nel cosiddetto “costruttivismo”), con la connessa “destrutturazione” dei saperi e delle pretese di “fondazione epistemologica”, nonché il rilancio di domande radicali sulla natura dei processi comunicativi, informativi, conoscitivi e di apprendimento.

Attorno alle diverse “fasi” di questo dibattito (che comportano anche permanenze significative e “fratture” epistemologiche vere o presunte) si è andato prendendo coscienza, se vogliamo, della complessità del problema dell’insegnamento filosofico in genere. È altresì chiaro che per l’analisi di questo processo due sono i possibili punti di vista di cui si deve tener conto: quello “interno” alla tradizione filosofica, e quello “esterno”, ossia quello proveniente da mutamenti in qualche misura indipendenti dalla disciplina filosofica.

Progettare un laboratorio di filosofia comporta assumere la prospettiva già da tempo diffusa nel modello della “didattica attiva”, ma non solo. Significa mettere in atto una ricerca ed una sperimentazione capaci di cogliere olisticamente e integralmente gli apporti di tutti gli “indirizzi” didattici, con occhio “comparativo”, in direzione di un vero “sistema” della didattica della filosofia. Per parafrasare Terenzio, nessuna delle pratiche filosofiche è estranea a chi si deve occupare di didattica della filosofia. E nessuna “pratica” può al contempo dichiararsi esauriente ed esaustiva, può reclamare per sé una “superiorità”.

Presupposto chiaro è che di filosofia e del suo insegnamento sono competenti e responsabili[3] prima di tutto i filosofi, e quindi che la filosofia non rinunci alla ricerca della propria identità, come identità complessa, anche aperta e in divenire, com’è ovvio[4]. Questo comporta che si tengano sotto controllo  i rischi dell’invadenza da parte di mode pedagogistiche o psicologiche, pur non escludendo un serio confronto con le teorie delle scienze umane in merito a conoscenza, apprendimento e relazione educativa. Inoltre, che si prenda sul serio la necessità di evitare con cura ogni ristretto chiuso e riduttivo punto di vista elevato a unica categoria interpretativa o progettuale. Il che implica continuare nel ripensamento delle premesse teoretiche di ogni “modello” come nella sua “implementazione” operativa, ma anche, e senza soluzione di continuità, cercare di identificare i paradigmi comuni e le domande ad essi connesse. E significa fare tutto questo “sperimentalmente”, consapevoli della presenza di “teoria” in ogni esperienza e della necessità di chiarire i contorni delle pratiche e il loro “portato” noetico e metacognitivo.

L’idea di un laboratorio filosofico

Il “Laboratorio” è prima di tutto un ambiente, in cui raccogliamo i materiali, i dispositivi, le installazioni e gli apparecchi utili per compiere esperienze tecniche o scientifiche, esperimenti, ricerche, studi. È un luogo in cui si compiono attività di ricerca e costruzione (nel nostro caso, di apprendimenti, ma non solo: del proprio stesso senso del Sé). E poi è anche un’officina: una “impresa collettiva”, fondata su una rete di rapporti e interazioni tra tutti i partecipanti al lavoro stesso; richiede un lavoro comune, collaborativo, quindi dev’essere luogo di una vera interazione comunicativa. In un laboratorio c’è chi è già pratico dell’arte (o del mestiere) e c’è chi è apprendista.

Così, il laboratorio di filosofia è lo spazio in cui, con la disponibilità di tutte le possibili risorse materiali (“strumenti” atti a far pensare), permetta alle risorse umane, intellettuali e scientifiche, di “autoprogettarsi” nella definizione di progetti formativi e di solidi percorsi di apprendimento, ma soprattutto di autentiche esperienze e cammini di pensiero.

Non solo luogo in cui le risorse possano dispiegarsi, ma anche luogo in cui al centro non si situano gli strumenti, bensì i comportamenti basati sul mettere in comune le esperienze individuali, le pratiche stesse dei saperi, sulla loro elaborazione critica, e quindi su un comportamento che nelle relazioni interpersonali si basi sulla cooperazione e sulla compartecipazione. Non si teme un continuo aggiornamento di metodi e di approcci.

Luogo, spazio in cui c’è qualcuno che pensa, che compie un’esperienza di pensiero attraverso la quale apprende a ridefinire, senza posa, la propria stessa autocoscienza[5].

Il termine “Laboratorio” non è forse il più adeguato, per rendere con immediatezza quanto intendo. Non lo ritengo peraltro nemmeno troppo decettivo. Certo, rispetto a quanto si desume in merito da alcuni manuali di filosofia che recentemente cominciano a far ricorso a questa espressione[6], si comprende, credo, che qui si tratta di ben altro. Non è mia intenzione rimanere ai margini della prassi didattica, definendo questa o quella operazione da compiere, predisponendo questo o quel materiale di lavoro. Per me di tratta di un ripensamento organico dell’intera gamma di problemi e prospettive della didattica della filosofia.

Nel pensare al “laboratorio filosofico” ho tenuto presente le acute osservazioni e le domande kierkegaardiane in merito alla efficacia della “cattedra” nell’avviamento al pensiero filosofico, ed alla pratica del pensiero filosofico. «Io essenzialmente — ci dice Kierkegaard — voglio esporre quella forma di comunicazione di cui vale — o incondizionatamente o condizionatamente — che non c’è alcun oggetto, ma l’oggetto è posto dialetticamente in modo che quel che vi è di dialettico, ciò che ne segue dialetticamente, è precisamente il pensiero totale di queste lezioni — io subito rifletto se ciò comincerò ad esporlo da una cattedra, cerco di esporlo, se ciò non è in contraddizione con l’argomento ch’esporrò»[7]: in filosofia un “oggetto” definito di studio non sembra esistere, e la verità della filosofia non è una conoscenza già strutturata e disponibile, in qualche modo “trasmissibile”, quanto piuttosto un’esperienza di trasformazione delle proprie concezioni e visioni del mondo, una loro radicale messa in discussione, e, se vogliamo, il costante interrogativo sulla “coerenza” fra di esse e le proprie stesse disposizioni di vita. La filosofia può offrire quei “mezzi di autoriflessione” che possono condurre infatti ciascuno a darsi conto di sé, nel senso di porsi sempre di nuovo la domanda: «come devo vivere?». E la risposta a quest’ultima domanda, tanto per gli allievi come per i docenti, si deve giocare nel prendere sul serio prima di tutto l’esperienza che insieme stanno vivendo, ossia il compito della formazione intellettuale, nonché della responsabilità nei confronti di sé e degli altri, nella comunità di chi ha preso sul serio la sfida della conoscenza (sapere aude).

Per l’allievo, il laboratorio di filosofia è un’istituzione che mira proprio a non essere “scolastica”, ossia a non finire per uccidere le intelligenze, quanto piuttosto a risvegliarle, disciplinarle e farle crescere.

Per il docente, il laboratorio è una maniera di vivere la scuola, coltivando prima di tutto per sé lucidità e autonomia di giudizio, vivacità intellettuale e culturale: una forma di resistenza sul campo contro ogni pressione diretta a ridurlo a impiegato e burocrate.

 

La questione dello “statuto epistemologico” della filosofia o lo “specifico” della disciplina filosofica

Ovviamente, per progettare tutto questo si deve riproporre senza paura la domanda sul “che cosa”, sul “quid” in questione: la filosofia stessa, la pratica filosofica. Il nostro secolo ha sviluppato talmente a fondo la destrutturazione di qualsiasi orizzonte da rendere sospetto oggi persino l’atto impegnato di chi pone l’interrogativo “che cos’è la filosofia?”, “chi è il filosofo?”. E, si badi, non è tanto il sospetto ad essere “pericoloso”: è l’atteggiamento di chi si accontenta del sospetto come di un dato, e finisce nell’indifferenza (atteggiamento quanto mai antifilosofico).

Dal punto di vista della didattica, posso per prima cosa affermare che tutto il “laboratorio” fonda il suo statuto sull’idea kantiana che non si tratta di “insegnare filosofia”, quanto di insegnare a “filosofare”[8]. Per prendere realmente sul serio questo modo di intendere la didattica filosofica, occorre anche cambiare l’idea dell’insegnamento (e in questo troviamo ampia conferma nelle scienze umane e nelle scienze cognitive). Ma dobbiamo, alla fine, anche ripensare davvero la natura della filosofia e la natura della comunicazione filosofica.

Non avendo certo la folle pretesa di dir qualcosa di “conclusivo” su questo interrogativo, avanzo però qualche nota su questo problema, che può anche essere formulato, forse più scolasticamente, come la questione dello “statuto epistemologico della filosofia”[9]. Si tratta di un problema su cui c’è insieme troppo e troppo poco. C’è troppo, se pensiamo che praticamente ciascun filosofo, in un modo o nell’altro, ha chiarito il suo atteggiamento nei confronti della risposta alla domanda “Che cos’è la filosofia?” (ma questo materiale, per quanto probabilmente enorme, è frammentario, e giace disperso nella diaspora della “biblioteca di babele” filosofica). E c’è troppo poco, se pensiamo a quanto scarsa è la bibliografia sistematicamente condotta su questo specifico problema. Si tratta di una situazione problematica, anche defatigante, colta da tutti coloro che affrontano l’iniziazione filosofica. È la classica situazione in cui ci si deve immergere nella ricerca, ma più la ricerca avanza, meno sembra verrà fuori una risposta.

Si badi bene: non si tratta di “provare” in un modo o nell’altro che si da uno “statuto epistemologico” della filosofia, o, viceversa, che esso non c’è. La faccenda è piuttosto relativa all’istanza di proporre una fenomenologia del discorso filosofico sulla filosofia e sulla sua natura, proprio nel tentativo di cogliere l’orizzonte di questo stesso interrogare.

Siamo di fronte, prima di tutto, all’incrocio ed allo scontro fra molteplici “punti di vista” filosofici (ma non ho la pretesa di richiamarli qui tutti). Per prima cosa, chi, muovendo dalla classica formulazione aristotelica, pone il problema definendo la filosofia come un “sapere”, e pertanto fa ricorso ad una nozione allargata di epistemologia (quella per cui essa non è altro che teoria della conoscenza), utilizzando a rebours la differenziazione tra la scienza antica e le scienze sperimentali moderne e contemporanee, e poi, dovendo ovviamente porsi il problema di “che cosa” e “come” conosce la filosofia, sostiene che l’oggetto specifico del “sapere filosofico” è l’intero, la totalità, e il suo “metodo” della ricerca del fondamento (sia nel momento ermeneutico che in quello più propriamente fondazionale). Fatto sta che spesso ci si dimentica che la ricerca che conduce al “sapere” non scientifico, alla sofia (sapienza-saggezza), per gli stessi greci, rappresenta una specie di “paradosso”, dato che si deve riconoscere che il filosofo non è “sapiente”, ma è solo chi ricerca la sapienza… Poi, al lato opposto, coloro che rifiutando questa identificazione della filosofia, sostengono che la filosofia non è né scienza né eminentemente conoscenza, ma lo spazio delle Weltanschauungen, ciascuna con un suo Weltbild e una sua donazione di senso. Ma se la Weltanschauung che adotto è descrivibile, comunicabile, ovvero può aprirsi al dialogo con altre Weltanschauungen, “condividendone almeno in parte le ragioni” allora vuol dire che lo spazio in cui tale confronto e dia-logo in qualche modo è uno spazio aperto e “superiore” rispetto alle Weltanschauungen stesse…

Ma c’è anche, com’è noto, chi ad es. rifiuta l’introduzione di una qualche differenza tra filosofia e scienza, intendendole entrambe nel senso proprio di episteme (conoscenza certa e necessaria).

La rosa di domande che costellano questo universo di discorso vanno così dalla ricerca dell’identità della filosofia, al suo significato, alla identificazione del suo oggetto e/o del suo fine (talvolta anche della sua fine); o ancora, dalla declinazione dei suoi “metodi” (come il “metodo” dialettico, il “metodo” fenomenologico, o quello scettico, il “metodo” trascendentale, quello analitico-linguistico, quello ermeneutico e quello dialogico-confutativo) o dei suoi principi (come il principio di non contraddizione e il principio di ragione).

Insomma, non siamo molto lontani dall’apparenza di una babele filosofica, più o meno analoga a quella di cui Kant si lamentava a proposito delle metafisiche…[10]

Dal punto di vista didattico, ossia di chi pensa alle possibilità ed alle opportunità della formazione filosofica, non possiamo però sfuggire all’opzione teoretica, e semplicemente predicare un sincretismo da “melting -pot” filosofico, o un pluralismo dottrinale che resti sulla superficie delle domande filosofiche, o peggio, conduca a confondere i problemi filosofici con i “problemi dei filosofi”. Nel momento della progettazione formativa, ossia pensando a come iniziare al filosofare le nuove generazioni, non è possibile sottrarsi ad una decisione. Mi pare possibile suggerire che nel laboratorio di filosofia di fatto possiamo trovare gli elementi per porre in atto un atteggiamento filosoficamente rispettoso dell’apertura tipica di questa disciplina, e nel contempo, capace di formare in profondità, e formare all’esercizio stesso di questa attività libera ed aperta. Forse mai come di fronte al problema dell’insegnare filosofia il filosofo è messo di fronte alle esigenze trasversali e comuni della pratica filosofica, più che a quelle del proprio specifico orizzonte conoscitivo e culturale.

E proporrei pertanto le due indicazioni seguenti.

1)      La filosofia non va intesa esclusivamente come “dottrina”, quanto come “attività”.

2)      In secondo luogo, la filosofia non va intesa come una pratica estranea alla vita di chi l’affronta, quanto piuttosto come una pratica che coinvolge la persona integralmente.

L’esercizio della filosofia quindi sarà inteso non solo e non tanto come “progetto conoscitivo” (semplicemente un sapere tra i saperi), ma “exemplum” via iniziatica alla scoperta:

a) della “questione del sapere” (coscienza teoretica): strumento non solo e non tanto per accrescere le conoscenze, quanto piuttosto per metterle a punto, e soprattutto, ristrutturarle rendendosene conto, prendendo consapevolezza dei paradigmi noetici ed epistemologici su cui poggiano (o della loro “assenza”), acquisendo consapevolezza della loro fragilità, nel senso della difficoltà ed inesauribilità della pratica di fondare adeguatamente i saperi;

b) della “questione dell’esistere” (coscienza cosmica [11]): in gioco è sempre il “vivere filosoficamente”.

La filosofia non verrà più intesa come “teoria”, ossia semplicemente come “discorso su qualcosa”. Si dovrebbe evitare che essa finisca per essere solo una teoria nella quale non si dia notizia né presenza di ciò che conta nella vita. Se essa deve garantire mezzi per l’autoriflessione, ebbene, alla fine può essere un’esperienza significativa, ossia un’esperienza capace di condurre chi la pratica ad affrontare l’essenziale quesito: come devo vivere? Essa può condurre ciascuno alla chiara consapevolezza della propria visione del mondo, così come delle proprie relazioni con gli altri e con il tutto. Mi è sempre sembrato perlomeno discutibile il pudore con cui molta filosofia contemporanea (specialmente quella accademica) ha francamente deliberato di non intromettersi nelle decisioni esistenziali individuali, insomma, di completamente “lasciare al singolo” il problema di gestire la risposta diretta ed agita alla domanda su “come debba vivere”. Ad esempio Karl Jaspers, autore certo non accusabile del “peccato sistematico” censurato da Kierkegaard, sostiene che «La visione del mondo effettiva resta una cosa di pertinenza della vita», e che la filosofia in sostanza accetta di ritirarsi da ciò che è direttamente significativo per l’esistenza: «Noi non diamo notizia di ciò che nella vita conta» [12].

Ha scritto molto chiaramente Pierre Hadot: «Non si potrebbe forse definire il filosofo non già come un professore o uno che sviluppa un discorso filosofico, ma invece, secondo la rappresentazione costante nell’antichità, come un uomo che conduce una vita filosofica? […] Ma che cosa significa vivere da filosofi? Che cos’è la pratica della filosofia? […] Essa è essenzialmente uno sforzo finalizzato a prendere coscienza di noi stessi, del nostro essere-al-mondo, del nostro essere-insieme-all’altro, uno sforzo, anche, per “reimparare a vedere il mondo”, come diceva Merleau-Ponty, per raggiungere inoltre una visione universale, grazie alla quale saremo capaci di metterci al posto degli altri superando la nostra propria parzialità»[13].

È peraltro vero, come ho accennato sopra, che qualsiasi “sapere”, e non solo la filosofia, viene oggi sottoposto ad una revisione analoga, di tipo “anti-reificazionista”, “antifisicalista”.

La costruzione dei saperi e dei percorsi di apprendimento (oltre l’“insegnamento”)

Noi così non insegniamo filosofia, e tanto meno le dottrine dei filosofi (in fondo, non si può “insegnare la filosofia” così come non si può proprio insegnare nulla, se intendiamo con “insegnare” semplicemente il “trasmettere” qualcosa): noi, se lo sappiamo fare, possiamo mettere in atto situazioni in cui permettiamo che si creino nuovi problemi per i nostri interlocutori, e ci dovremmo chiedere se riusciamo a creare nei nostri uditori, o meglio, in chi dialoga con noi, nuove intuizioni, nuovi pensieri e nuove azioni[14]. “Insegnare” va generalmente inteso come “il processo di creare nuovi processi” e non può certo essere confuso con l’elargizione (il travaso) di un bene chiamato “sapere” o “conoscenza”. L’insegnamento non può più essere inteso come trasmissione di sapere (non ha mai potuto essere tale), e l’etimo del termine “mettere segni dentro” è fortemente riduttivo e improprio, in quanto è il riflesso della reificazione dei processi informativi e comunicativi [15].

Le epistemologie “riduzioniste” hanno tutte invece in qualche modo ricondotto il sapere al modello “rappresentazionista” per cui conoscere è il render conto nella rappresentazione di un “oggetto” di un mondo, “esterno, oggettivo, misurabile”. La struttura e lo sviluppo delle conoscenze probabilmente è di natura ricorrente e circolare, e sembra che non possano esistere “basi” o fondamenti quali che siano (soggettive od oggettive) in grado di garantire una volta per tutte un certezza “fondativa” definitiva[16]. Così, il riconoscimento della circolarità inevitabile tra azione ed esperienze (del fatto che ogni azione è conoscenza ed ogni conoscenza è azione) è divenuto il punto di partenza e il filo conduttore dell’epistemologia costruttivista contemporanea[17].

Ma c’è un “rimedio” alla fuorviante metafora dell’Imbuto di Norimberga. È possibile infatti pensare alla attività didattica e formativa come la gestione dei “veicoli di potenziale informazione”. Ogni attività scolastica allora deve essere intesa come una occasione per creare situazioni in cui l’allievo possa attivare i propri processi di apprendimento e di “esercizio del pensiero”.

Il “Laboratorio” di filosofia è concepito pertanto (in analogia con quanto suggerisce Antonio Calvani[18]) come uno spazio fisico, relazionale e mentale in cui si possa disporre delle risorse, tanto materiali e strumentali quanto umane e relazionali, per creare percorsi di apprendimento, ma soprattutto di iniziazione e di formazione filosofica, in tutte le possibili forme.

La comunicazione autentica e il dialogo filosofico (significatività delle pratiche)

Se continuassimo a ritenere che il logoj della filosofia si riduca al parlare, al dire, all'esprimersi (affermare, asserire, sentenziare, discutere), commetteremmo un errore fatale. Logoj è sempre atto del legein, quindi è anche raccogliere, riunire, radunare, serbare, custodire, tenere in serbo, posare, lasciare-stare-innanzi, ecc. Il problema dell’ascolto è proprio la riscoperta dell’altra metà del legein, quella dimenticata, in vista di una “accezione integrale del logoj ”[19].

Da questo segue che nella prassi del laboratorio di filosofia la comunicazione come sistema di procedure interattive e di mezzi non può essere gestito solo tecnicamente. Serve infatti quella che Kierkegaard ha chiamato la “reduplicazione”: non solo “padronanza del mezzo comunicativo”, per cui si pensa di “dominare il mezzo che domina la comunicazione”, ma piuttosto far ”avvenire una situazione”, far accadere un evento, trasformare l’esistenza: e questo vale sia per l’attivazione dell’esperienza della “paralisi attiva” (che riguarda l’aspetto teoretico ed epistemologico della ricerca), sia per la “filosofia come maniera di vivere” (ossia l’aspetto esistenziale e morale). L’autenticità della comunicazione è una finalità da mantenere ben ferma: praticare questo laboratorio è un evento che coinvolge le persone implicate in esso, le loro opinioni, le loro visioni del mondo, e il loro modo di essere[20].

Attraverso l’attivazione di situazioni comunicative autentiche, l’allievo stesso dev’essere coinvolto nel “training” dei modelli di pensiero e di espressione, delle pratiche filosofiche e degli esercizi spirituali identificabili un fecondo dialogo con i filosofi del passato.

Insomma,  la didattica nel laboratorio di filosofia ha come punto focale l’assunzione dell’orizzonte di senso e di valori degli studenti. Non si deve intendere l’ascolto semplicemente come l’attenzione prestata a chi parla, sia esso il docente oppure il filosofo antico[21]. Si deve intendere l’ascolto prima di tutto come l’atteggiamento rinnovato che chi insegna deve prestare nei confronti di chi deve formarsi. Il perno dell’attività del laboratorio è il coinvolgimento dei destinatari dell’“insegnamento” filosofico, attraverso esperienze con le quali essi prendano consapevolezza delle loro visioni del mondo, per poter dialogare con gli autori del passato, con i compagni e con il docente. Questa prospettiva intende portare al riflessione degli allievi su se stessi, sul proprio mondo, sui problemi dell’esistenza, della società contemporanea verso una trattazione più critica, matura e filosoficamente avvertita. La meta, ovviamente, è la competenza negli stili di pensiero, nella concettualizzazione, nelle strategie argomentative proprie del filosofare.

Pertanto, ogni attività condotta nel laboratorio dev’essere progettata per essere significativa. Questa “significatività” si deve intendere su due livelli: uno relativo al soggetto coinvolto, che deve sentirsi interessato, partecipe, attore e non spettatore sulla scena del laboratorio stesso; il secondo invece pertinente all’oggetto in questione (si debbono privilegiare le “domande legittime”, le questioni filosofiche, e non le “questioni dei filosofi” o le domande “illegittime”).

 

La comunità filosofica di apprendimento e ricerca

Sarebbe altresì necessario che si comprenda con precisione lo specifico del gruppo orientato all’apprendimento. Non un qualsiasi gruppo, ma una comunità di ricerca.  E non comunità di ricerca qualsiasi, ma una comunità di ricerca “filosofica”.

Dobbiamo infatti pensare a quali nuovi ambienti formativi possano essere adeguati.

L’animazione di una “comunità di ricerca” è una via sperimentata, nell’insegnamento della filosofia, soprattutto grazie alla proposta della Philosophy for Children, ma, com’è evidente, è assai significativa anche al di fuori di questo contesto particolare.

Progettare un ambiente come una “comunità di ricerca” è impresa ardua, non comune, faticosa e difficile se si continua a muoversi in un paradigma rigido ed in un ambiente straniante come quello della scuola tradizionalmente intesa. Se la scuola si affida a presunte certezze (possesso del sapere, della conoscenza) essa incarna una forma di credenza, nel senso in cui la intendeva Peirce. La ricerca, sempre per Peirce, è invece una forma di lotta, che muove dal mettere in crisi le certezze della credenza. «L’irritazione del dubbio genera una lotta per raggiungere uno stato di credenza. Chiamerà questa lotta ricerca, anche se si deve ammettere che questa non è qualche volta una designazione molto adatta»[22]. Se la credenza è simboleggiata dall’immagine della barca con le vele piegate nel porto, il dubbio è l’atto dell’abbandonare il porto e la ricerca può essere rappresentata dalla navigazione aperta, fino al limite dell’immagine di una nave in mare aperto, senza nessuno a bordo che conosca le regole della navigazione [23].

La proposta di far filosofare gli allievi, trasformando la classe in una “comunità di ricerca” non è un’avventura rischiosa per la scuola: è forse la prospettiva unica che le resta se vuole davvero rappresentare l’avventura del sapere e della ricerca per quello che sono, oggi.

E una comunità di ricerca non è un azzardo, è un’esperienza orientata (ha sempre una meta), ha sempre una direzione, il processo coinvolto è sempre quello del dialogo (come distinto dalla semplice conversazione, e da altre forme di interazione comunicativa), è la risultante di processi critici e creativi (pensiero critico e creativo lavorano in interfusione) [24].

L’ideale di una comunicazione non manipolativa, della creazione di una partnership di individui liberi ed eguali, lo stabilirsi di una relazione simmetrica, la reciproca esplorazione dell’altra individualità, la costruzione cooperativa delle conoscenze, intesa come impresa comune, sono le caratteristiche dominanti e significative di questo contesto e di questa proposta. Non c’è che dire: qualcosa di diverso dal comune “gruppo classe”. Ma non una utopia irraggiungibile.

La “circolarità delle pratiche”

Per questo, al centro del progetto del laboratorio filosofico sta il principio della “circolarità delle pratiche”. (cfr schema Tab. 2). Anziché ripetere modelli desueti (quali la pedissequa sequela del manuale, ma anche lo slogan della “centralità del testo”, ecc.) si intende il laboratorio come lo spazio fisico e relazionale in cui l’allievo potrà far pratica del filosofare, acquisendo le abilità indispensabili ad un pensiero autonomo e critico, e, proprio per questo, anche aperto al dialogo ed all’ascolto. Tutte le modalità di elaborazione del pensiero filosofico sperimentate dai filosofi nel corso della storia sono utilizzabili, con una opportuna mediazione didattica, ma nel rispetto delle esigenze di autenticità e significatività.

La progettazione del laboratorio quindi non solo farà ricorso a modelli di “lezione” i più diversi[25], ma anche svilupperà molteplici possibili forme di esercitazione (sia nel campo dell’oralità – nelle sue varie forme – che nella scrittura e nella lettura, ecc.)[26]. Essa prevederà , come si è detto, l’integrazione feconda dei diversi esercizi e delle diverse pratiche, la progettazione integrata delle attività. Il criterio della circolarità delle pratiche significa costante attenzione al fatto che non si pratica mai una attività “isolatamente” dalle altre, e che spesso esse si intersecano e si confondono, in un modello a rete, e senza che si possa pensare ad una sequenza privilegiata o ad un ordine predefinito.

Come sa chiunque abbia insegnato, non è possibile compiere attività di lettura di testi senza far ricorso ad operazioni complesse, di natura dialogica. Quand’anche ci limitassimo al modello della “lectio” originaria, tutta condotta dall’insegnante, ci rendiamo conto che in essa si integrano analisi dei testi, fornitura di parafrasi e di interpretazioni, elaborazione di un commento, gestione di un discorso frontale da parte del docente. Nello stesso momento, se tenessimo conto di quanto fa lo studente, oltre il puro ascolto silenzioso, noteremmo che la “scrittura” è coinvolta (se prende appunti). Ma si può pensare anche alla interruzione del docente con domande, e via dicendo… Molte delle pratiche in gioco in questa concreta e complessa interazione.

La “circolarità delle pratiche” è infine un criterio metodologico che lo stesso studente dovrebbe riconoscere, e di cui dovrebbe cogliere la natura, per poter acquisire migliore consapevolezza delle proprie stesse procedure di studio e di elaborazione del pensiero.

Proviamo a toccare, molto brevemente, gli ambiti più evidenti, (le macro-pratiche).

Oralità e scrittura nel laboratorio filosofico

Il tema dell’oralità ci rimanda al discorso sopra svolto sull’aspetto della comunicazione interpersonale diretta, l’unica che davvero possiamo definire “interattiva”. Credo però che, nonostante vecchie consuetudini, lo stesso spazio dell’oralità in filosofia sia ancora tutto da esplorare. Tradizionalmente infatti, nella prassi della didattica filosofica, “oralità” significava solo due cose (quelle condotte in prevalenza in classe: “lezioni frontali” e “interrogazioni”). Credo sia a tutti evidente la povertà di questo modo di considerare il problema.

Discorso, Conversazione, Discussione, Dialogo: siamo così sicuri di comprendere bene di che si tratta? Sappiamo distinguere tra queste diverse forme dell’oralità, oppure sentiamo il bisogno di una più attenta fenomenologia? Sappiamo per intuito della differenza tra la chiacchiera e la conversazione, ma forse occorre cercare di cogliere meglio le differenze che intercorrono fra una conversazione, una discussione, una disputa, e un dialogo. Forse dobbiamo pure considerare più attentamente le modalità di attuazione e gestione di queste diverse pratiche.

Tutti noi ci rendiamo conto che buone discussioni, per quanto non frequenti, producono in classe situazioni memorabili, e sono efficaci. Forse possiamo dire che si tratta dell’attività intellettiva più stimolante e memorabile a scuola. Abbiamo altresì vissuto la situazione in cui, a voler a tutti i costi stimolare un dialogo, proprio non ci si riesce. Sarebbe bene decidersi a non lasciare queste attività al caso. E per questo occorre procedere ad uno studio ed un ripensamento strutturale delle pratiche dell’oralità[27]. Pensiamo ancora, ad esempio, a come si può (e si deve) procedere nell’eventuale valutazione di una attività orale che non sia, ovviamente, il colloquio, la tradizionale “interrogazione”).

Ci sono comunque anche altri di problemi a cui è bene che ci dedichiamo con attenzione. Procedo ad una semplice identificazione: come guidare una discussione filosofica, quali strategie possono essere messe in atto, dato che c’è differenza tra una discussione qualsiasi, una buona discussione e una discussione filosofica[28]; come orchestrare una discussione[29].

Dovremmo inoltre riflettere sulla relazione tra dialogo e pensiero. Di solito accade proprio che la riflessione venga attivata e generata da un dialogo, piuttosto che il contrario. Consideriamo lo stimolo all’elaborazione di un’argomentazione che un contesto dialogico può fornire, ad es., solo l’attivazione e l’identificazione di domande/criterio come “cosa ha detto l’altro?” (l’esercizio della rielaborazione in forma di feed-back di un messaggio ascoltato), o “cosa avrebbe potuto dire?”, o ancora, il ripensare a cosa io in prima persona ho detto e cosa avrei potuto dire, ecc.

A tutti è noto il “metodo” del dialogo socratico: ma ci siamo mai chiesti realmente se è possibile “insegnare” socraticamente? Abbiamo tentato davvero di compiere qualche esperienza sperimentale in merito?

Nel contesto del dialogo orale, è abbastanza agevole condurre dal problema alla domanda: e guidare all’esperienza dell’interrogare radicale, che è propria della sola filosofia.

Voglio infine far cenno alla possibilità di attivazione di un dialogo movendo dalla presentazione di «dilemmi»;

alla possibilità di attuare il brainstorming “filosofico” e il dialogo clinico, al fine di far emergere le opinioni esplicite o implicite degli allievi su un qualsiasi concetto, tema o problema.

Il tema della scrittura nell’insegnamento filosofico, meno abituale in Italia, ci spinge invece a considerare come un adeguato addestramento alla pratica filosofica necessiti anche di esercizi di scrittura (nelle più diverse forme).

Questo aspetto delle tecniche della filosofia si scontra con uno dei più vieti pregiudizi della nostra tradizione italiana: la presunta, insuperabile “oralità” della disciplina filosofica. Già nei nuovi programmi Brocca si muove qualche passo in direzione utile a smantellare definitivamente questo preconcetto. Vero che la filosofia probabilmente nacque in un contesto prevalentemente orale, e che ciascuno di noi entra nell’universo del linguaggio, nasce alla parola nell’oralità, ed  ivi esercita, sotto forma di apprendistato, il “training” del suo apprendimento della lingua.

L’esercizio della filosofia, e il suo studio però, si sono invece sviluppati tradizionalmente perlopiù nel contesto della cultura chirografica, facendo ricorso alle tecnologie della scrittura (ambiente nel quale la più gran parte dei prodotti dell’attività filosofica si sono poi “materializzati”).

Pensiamo però a come la pratica della scrittura possa essere per gli allievi un esercizio spirituale: il che vuol dire semplicemente smetterla di pensare che la questione della scrittura si limiti alla previsione di prove scritte, test o composizioni filosofiche. Non vedo perché non possiamo pensare che la pratica della scrittura filosofica possa esser condotta da parte degli allievi anche per elezione, o su domande da loro ritenute legittime. È chiaro che questo comporta un lavoro arduo e complesso (inseparabile dall’esercizio delle altre pratiche del laboratorio). È altresì chiaro che l’allievo, se sceglie autonomamente, deve poi essere seguito in modo personalizzato con un “tutoraggio” individuale. Credo vada anche ricordato che la scrittura filosofica si è manifestata nella storia con una pluralità di modelli, il che rende ancora più possibile una opzione personale per il genere preferito.

Infine, ritengo sia questa una pratica necessaria per permettere a chi compie studi superiori di abbandonare definitivamente una concezione ingenua della scrittura, per coglierne le possibilità di vero esercizio spirituale, nel quale si compie un processo generativo del pensiero, più difficile e meno spontaneo rispetto alla comunicazione orale, ma che, proprio per questo, permette il venir alla luce delle tecniche che la scrittura rende esplicite e “visibili”. Insomma, scrivere aiuta a divenir consapevoli del proprio stesso pensiero in atto, e, se praticata in un contesto rispettoso del motto “provando e riprovando”, alla fine diviene un’esperienza cui non si può più rinunciare.

La pratica della lettura: testi, ipertesti, ipermedia e ricerca filosofica

Siamo in un tempo in cui circolano apocalittiche previsioni sulla “morte del libro”. Fra i profeti della società multimediale sono abbastanza diffuse infatti catastrofiche previsioni in merito al libro a stampa: Nicholas Negroponte, ad es., sostiene che il libro a stampa sia un medium obsoleto, destinato ad essere rimpiazzato da ipertesti, ipermedia e realtà virtuale[30]. Sosterrei, piuttosto, la non linearità del processo di mediamorfosi (sulla mia scrivania, vicino all’elaboratore, troviamo la penna stilografica e la matita, che non sono divenute affatto obsolete).

In un laboratorio di filosofia non è possibile che non facciano la loro comparsa, come co-protagonisti a tutti gli effetti, i libri dei filosofi. Certamente, non penso sia da escludere la possibilità di ricorrere anche alle nuove edizioni elettroniche di tali testi. Ma ritengo sia bene intendere la presenza dei testi in tutte le loro forme, e non in una esclusiva.

Non è possibile qui entrare nei dettagli illustrando le tecniche da mettere in conto per poter gestire le poliedriche possibilità dell’esercizio della lettura (ne siamo, credo, tutti consapevoli)[31]. Ma una panoramica delle “forme” della lettura può essere utile, per quanto rapida essa sia. È indubbio che sull’importanza della lettura degli autori in questi ultimi anni l’evoluzione della didattica filosofica si è accelerata molto. Ed è ovviamente un bene. Posso per prima cosa affermare che leggere un libro è cosa diversa dal navigare in un ipertesto, e altro ancora è navigare in un ipermedia: sono attività e pratiche di lettura distinte, ciascuna con la sua valenza e le sue possibilità (nonché con i suoi limiti).

Ma, piuttosto, vorrei facilitare un ripensamento critico del motto della “centralità del testo” nella didattica della filosofia. Spesso ci si adegua ad esso e lo si gestisce come uno slogan, per poi magari avallare pratiche non sempre efficaci e significative[32]. Invece, ci si dovrebbe chiedere che cosa è realmente al centro, quando si legge: il testo o la lettura? Di fatto, buona parte della linguistica contemporanea (penso soprattutto a Hjelmslev) ci suggerisce che il testo è un “processo”, e qui comincia il problema. Dicendo che al centro delle pratiche del laboratorio di filosofia c’è il testo intendiamo che si pratica la lettura filosofica. La quale è un esercizio spirituale a pieno titolo[33]. Ed è una attività i cui attori e soggetti sono i lettori. Le letture filosofiche, comprese quelle più accessibili, implicano una lettura attenta, partecipe, attiva, “con la penna in mano”. I libri di filosofia «vanno letti in controluce: come si guardano le banconote, quando uno vuole accertare la filigrana, che ne completa il disegno»[34].

Credo che riguardo a questo punto, sia necessario riformulare in modo adeguato l’obiettivo di fondo: si tratta di imparare davvero a leggere.

L’approccio diretto al testo dei filosofi rappresenta una “via maestra” al filosofare, soprattutto se si intende la lettura non semplicemente secondo il modello riduttivo “trasmissivo/rappresentazionista” cui si è fatto cenno. Ma è sempre opportuno non dare per scontato che gli allievi abbiano consapevolezza della pluralità di valenze e della complessità stratificata delle pratiche di lettura. Sarà bene provvedere a mettere in atto esercizi volti a far loro comprendere che non basta la lettura cui sono abituati, e via via permetter loro di sperimentare la poliedricità degli esercizi di lettura e comprensione: da quelli di natura analitica (identificazione dei messaggi, paragrafazione, elaborazione di schede o schemi, identificazione di parole chiave e loro definizione, ecc, fino alla possibile redazione di lessici specifici o di concordanze[35]) a quelli di natura sintetica o critica (porre “domande” al testo, identificazione del metodo di lavoro del filosofo, ricerca di passi per una rielaborazione interpretativa data, ricostruzione della sua argomentazione, riassunto, ecc.).

È talvolta anche utile, a mio parere, per suscitare una attenzione metacognitiva, non perdere l’occasione per proporre e leggere insieme agli studenti, e attentamente meditare, scritti filosofici sul libro e sulla lettura appartenenti alla nostra tradizione occidentale. Penso, giusto per fare qualche esempio a caso, a testi di Ugo di S. Vittore, Francesco Bacone, Montaigne, Schopenhauer, Romano Guardini, ecc.

Telematica e “supporto” dell’elaboratore per l’allargamento delle comunità di apprendimento e ricerca

L’aspetto più affascinante nel definire la novità del laboratorio rispetto ad una classe tradizionale è legata alle possibilità di “aprire” il gruppo classe (in direzioni diverse). Qui sottolineo almeno il cambiamento che può intervenire in direzione della creazione di interazioni comunicative con soggetti o gruppi altri, a distanza, mediante le tecnologie telematiche.

Su questo debbo dire che le prospettive segnate dalla nuova disciplina del Computer Support for Cooperative Learning sono a dir poco coinvolgenti[36].

Lo sviluppo dell’aspetto dell’apprendimento cooperativo e della cooperazione in genere all’interno del laboratorio (che, come si è visto, è sua dimensione costitutiva) può proseguire anche quando il gruppo classe si apre, ed entra in relazione con altri gruppi a distanza per lavorare su un progetto comune.

È il territorio concreto in cui si può sviluppare quella “intelligenza collettiva” di cui si sostiene l’esigenza nell’era della “società dell’informazione”.

Un secondo aspetto non trascurabile di questo “supporto” dell’elaboratore nella sua funzione telematica è che cambia radicalmente la natura del fenomeno della pubblicazione dei prodotti del pensiero. La pubblicazione è prima di tutto un “pensare collettivamente in tempo reale”[37]. In secondo luogo, essa diviene ulteriormente più facile: e segnala che rispetto alle corporazioni editoriali, ora è possibile che il cittadino privato si riappropri del “potere del libro” [38].

Ma anche all’interno del gruppo di apprendimento il ricorso all’elaboratore può facilitare lo svolgimento di determinate pratiche. Se gli allievi sono sufficientemente alfabetizzati all’uso di elaboratori di testi, sarà possibile gestire per iscritto in questo modo, ad es., una attività come la “scrittura collettiva”, i cui tempi, se si procede manualmente, sono significativamente più lunghi.

La strumentazione del laboratorio

Nessuna delle tecnologie dell’espressione e della comunicazione ha soppiantato le precedenti nel corso della mediamorfosi, anzi, che si è verificato un “trascendimento evolutivo” per cui nessuna delle precedenti tecnologie è divenuta obsoleta o desueta, ma è andata integrandosi con le successive (per capirci: l’elaboratore elettronico e la telematica non rendono obsoleta la matita o il foglio di carta o la stilografica e la penna a sfera, né la lavagna).

Chi pratica il filosofare non teme alcun codice espressivo e comunicativo, né rifugge da alcuna tecnologia della comunicazione: e pratica i codici e le tecniche, a suo piacimento, senza alcuna restrizione a priori.

Il laboratorio filosofico non è centrato sugli strumenti e sui mezzi, ma sui soggetti e sulle persone, e sul loro coinvolgimento, ossia sull’attivazione di processi di elaborazione dei saperi ma soprattutto di concettualizzazione e di sviluppo dell’autocoscienza.

Nel laboratorio, prima di tutto, si tratterà di poter “costruire” i materiali di cui si dovrà poter disporre nel corso del lavoro. A questo fine è assai utile poter disporre di una serie di risorse materiali ben identificate (oltre al normale “arredo” di un’aula):

§         una biblioteca filosofica;

§         elaboratori elettronici multimediali, collegati anche in rete locale, in “intranet” e “internet”;

§         dispositivi quali lo “scanner” e i programmi per l’OCR, al fine di elaborare edizioni elettroniche dei classici (mediante scansione, OCR e relativa revisione redazionale).

Ed anche se siamo ben lungi da pensare che questi strumenti possano in qualche modo far compiere per sé conquiste filosofiche[39], quali che siano, riteniamo che se si deve provvedere ad allestire situazioni “comunicative”, o situazioni in cui sia possibile “costruire” un pensiero filosofico, sia bene poter disporre della più ampia gamma di tecnologie della comunicazione e della parola (dalla matita al libro a stampa, dall’ipertesto al videoregistratore, all’elaboratore “multimediale” con le sue periferiche, e via dicendo).

Dal punto di vista della “tecnologia degli ambienti formativi” va ribadita a chiare lettere la necessità di poter disporre e riprogettare finanche l’uso degli spazi fisici (partendo dai banchi e dalla cattedra).

Penso sia chiaro, al lettore, che questa riprogettazione della “tecnologia degli ambienti formativi” non è né deve essere centrata sulle macchine, quanto sulle pratiche e sui progetti, nonché sulle esigenze delle persone coinvolte nel laboratorio stesso. Siamo convinti che il laboratorio di filosofia potrebbe ben sussistere con la sola presenza di interazioni fra il maestro e gli studenti: da questo assunto non ricaviamo però un “rifiuto” aprioristico dei nuovi media — i quali, alla fine, come ci fa notare McLuhan, sono relativamente “neutri” dal punto di vista della loro “bontà”. Crediamo piuttosto che il pericolo, in genere, possa derivare dalla “mancanza di consapevolezza degli effetti” di qualsiasi mezzo d’espressione e comunicazione sul nostro comportamento e sul nostro pensiero[40]. Da questo punto di vista anche la semplice lettura di libri a stampa potrebbe essere attività poco “filosofica”, come ha ben notato ad es. Schopenhauer[41]. Tutto dipende da come prendiamo consapevolezza dei nostri stessi processi conoscitivi e di pensiero: da quanto ci dedichiamo a questa ricerca noetica e metanoetica.

La “produzione di materiali” non si limita ovviamente alla predisposizione (guidata prevalentemente dal docente) di testi o documenti di lavoro: si deve pensare anche alla produzione messa in atto dagli stessi allievi nel corso del loro lavoro. Quest’ultima è la vera e propria “esperienza di apprendimento”: essa riguarda la costruzione collaborativa di “sentieri” e percorsi realizzata dalla comunità di ricerca.

“Philobiblon  philosophicum”

La biblioteca filosofica come strumento, come risorsa e come ambiente di lavoro

La proposta di costituire una “biblioteca filosofica” di testi “classici” della storia del pensiero filosofico si inserisce all’interno del progetto per il laboratorio di filosofia, e non è solamente un suggerimento di ampliamento del settore filosofico della biblioteca di Istituto di cui le scuole sono normalmente dotate.

Il “Laboratorio” di filosofia è concepito infatti (in analogia con quanto suggerisce Antonio Calvani[42]) come un centro in cui si possa disporre delle risorse materiali e strumentali per elaborare percorsi di apprendimento e di formazione filosofica, in tutte le possibili forme.

In poche parole, ritengo che nel laboratorio sia non solo utile, quanto necessario rinunciare alla facoltà di adottare libri di testo, secondo la prassi consueta[43], per avvalersi della possibilità di elaborare autonomamente la costruzione di antologie mirate e specifiche di testi di autore. Dette antologie potranno ovviamente disporre, oltre che dei testi a stampa, anche di ipertesti eventualmente disponibili in edizione elettronica su supporto ottico, oppure reperiti in rete — ma detti materiali, in lingua italiana, sono ancora scarsi[44].

Così la biblioteca diviene l’ambiente nel quale i partecipanti alla comunità di apprendimento e ricerca debbono potersi muovere, ovviamente mediante una guida, al fine di costruire i percorsi di studio. Ritengo sia parecchio significativa la possibilità di “praticare” la biblioteca realizzando un incontro anche “fisico” con i testi, e con le opere di consultazione. Penso infatti che le antologie esistenti (o almeno le migliori fra di esse) rappresentino un’ottimo strumento per quanto pertiene alla loro funzione di modello nella identificazione di percorsi di lettura. Non le ritengo invece altrettanto utili come strumento di mediazione nell’incontro fra lo studente e l’autore, perché a volte mascherano le operazioni grazie alle quali esse stesse sono costruite, e ciò risulta decettivo rispetto alla consapevolezza del dialogo con i testi del passato che deve invece a parer mio essere fatto esperire integralmente agli allievi. E questo specie se esse tendono a divenire l’unico testo fornito per la lettura di filosofi.

Se gli allievi riescono a percepire che il docente è soddisfatto del proprio mestiere, o meglio, che ne è entusiasta, e lo vedono muoversi a suo agio e nel contesto della biblioteca, tirandone fuori spesso gioielli e indicando letture significative, allora può anche essere che si diffonda un atteggiamento da “Philobiblon” e che questa passione per i libri filosofici possa magari permanere e svilupparsi nei nostri allievi.

Grazie alla presenza, nell’istituto, di uno spazio appositamente ed unicamente dedicato al laboratorio di filosofia ed alla sua biblioteca, ritengo che posa risultare possibile anche la predisposizione di un progetto di una “biblioteca filosofica” di classe, praticabile concretamente. Tale “biblioteca di classe”, ricostruita di anno in anno sulla base delle opere disponibili presso l’Istituto[45], permette una grande ampiezza di possibilità di progettazione didattica, e sicuramente favorisce anche la fattibilità di percorsi di individualizzazione dei progetti di apprendimento, oltre ad una maggiore libertà di insegnamento ed una prassi didattica che veramente metta anche i testi al centro della sua attenzione.

Lo spazio della biblioteca filosofica è uno spazio di studio per il docente-bibliotecario, prima di tutto[46]. Il quale, se vuole potersi muovere progressivamente sempre più in modo autonomo, dedicherà molta attenzione e il tempo necessario all’ampliamento delle sue conoscenze degli autori.

In allegato presento una proposta di base per la selezione dei testi per la costituzione del nucleo di base della biblioteca, già in parte discussa con alcuni colleghi. Con tale proposta, è chiaro, non si esaurisce neanche minimamente il reperimento dei “classici”[47], ma sicuramente si compie un primo deciso passo in direzione di una ragionevole completezza.

L’uso della biblioteca di istituto può infine anche essere, per lo studente, una buona maniera per avvicinarsi anche all’uso delle altre biblioteche del territorio (sia di quelle genericiste che eventualmente di quelle di conservazione). Non escludo che a volte si possa prevedere la possibilità di ricorrere a testi che, non essendo disponibilità nella Biblioteca di Istituto, debbono essere reperiti in altre biblioteche.

Nella Biblioteca del laboratorio di filosofia fanno parte integrante anche i manuali attualmente in distribuzione[48], per prevedere la possibilità di consultazione da parte degli allievi, ma appunto in un contesto in cui sia possibile anche una ampia varietà di proposte.

E inoltre, si dispone di strumenti quali Dizionari e opere di consultazione (Enciclopedie, ecc.): ma su questo piano va detto che anche in rete si vanno offrendo enormi e innovative possibilità[49].

In conclusione…

Ho tentato di suggerire, in questa sintetica relazione, quali sono le direttrici lungo le quali sto operando, in una sperimentazione didattica, e nello stesso tempo in una ricerca teorica. E spero di aver reso in modo perspicuo tanto i presupposti teoretici quanto le modalità pratiche di questa mia attività, che è insieme, ripeto, ricerca teoretica e pratica didattica. Mi rendo conto della pochezza dell’esperienza condotta sinora, e della necessità di proseguire nello studio e nell’indagine. Molti interrogativi sono aperti[50], le domande a volte aspre e defatiganti, le esperienze talvolta falliscono. Ma la ricerca continua.

Voglio però concludere con una citazione cara al grande maestro Hadot, perché essa manifesta con forza, al di là di riduzionismi e rinunce varie, l’atteggiamento di chi, pur non essendo “filosofo”, ha preso sul serio le possibilità della filosofia come attività, come pratica e come maniera di vivere. E, in fondo, il laboratorio di filosofia, nel suo piccolo, è per me una scuola di vita, un’avventura quotidiana, in cui esercitare il mestiere di pensare, in cui sono in gioco e come persona, e nella mia professione, ma soprattutto in cui, mi rendo conto, sono formato ed imparo dai miei allievi. E non cambierei la mia professione con alcun’altra.

«Spiccare il volo» ogni giorno! Almeno per un attimo anche se breve, purché sia intenso. Ogni giorno un «esercizio spirituale» - soli o in compagnia di un uomo che voglia anche lui migliorarsi. Esercizi spirituali. Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliare le proprie passioni, le vanità, la smania del rumore intorno al tuo nome (che di quando in quando ti prude come un male cronico). Rifuggire dalla maldicenza. Spogliare la pietà e l'odio. Amare tutti gli uomini liberi. Rendersi eterni superando se stessi. Un simile sforzo su se stessi è necessario, una simile ambizione, giusta. Molti sono coloro che si immergono totalmente nella politica militante, nella preparazione della Rivoluzione sociale. Rari, molto rari, sono coloro che, per preparare la Rivoluzione, intendono rendersene degni [51].

 

 

 

 

Bibliografia

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Tab. 1 Il laboratorio di filosofia nell’“iperscuola”

Tab. 2: La circolarità delle pratiche


[1] Questo breve saggio riprende ed ampia le note già da me pubblicate nel § 4 del testo Per un laboratorio di filosofia, in Mario De Pasquale (cur.), Filosofia per tutti, Milano, Angeli, 1998, quello appunto dal titolo “Progettare un laboratorio di filosofia”, pp.121-129. Il mio intento qui è fornire una sintesi un po’ più adeguata delle mie ricerche e della mia sperimentazione didattica — per quanto sia alla fine una sintesi che resta affatto incompleta, rispetto al complesso dei risultati della stessa ricerca sperimentale condotta ed alla mole del materiale di studio e documentazione raccolto in questi ultimi due anni. Spero nella possibilità, nell’immediato futuro, di poter pubblicare un’opera organica e completa al riguardo.

[2]  V. anche A. Calvani, Iperscuola, Padova, Muzzio, 1994, p.10. Riporto in Appendice la Tabella 1, dalla quale si desume il  profilo del laboratorio di filosofia così come lo ha ipotizzato lo stesso Calvani.

[3]  O debbono diventarlo…

[4]  Il che comporta, come mi sembra sempre più chiaro, la necessità e l’estrema urgenza di tornare (o insistere) sul problema dello “statuto epistemologico” della disciplina (spesso ignorato, o accantonato, per la sua complessità apparentemente irriducibile).

[5]  A. Calvani, Iperscuola, cit., p.119, definisce il laboratorio di filosofia come “laboratorio di autocoscienza”, come lo spazio in cui si elabora la propria consapevolezza epistemica.

[6]  Si v., per fare un es., il Laboratorio a corredo della nuova edizione di Protagonisti e testi della filosofia, di Abbagnano-Fornero, Paravia, a cura di Margherita Gagliasso, dove in sostanza si presentano una serie di prove formative di varia tipologia (lavori in corso, analisi di un testo, approfondimenti sui testi) e si intende il “laboratorio” appunto come un insieme di materiali e strumenti di “tutoraggio” per lo studente, che si affianca al “normale” lavoro del docente. Nella mia maniera di intendere l’insegnamento filosofico, sono molto lontano dal pensare che si tratti di svolgere un lavoro puramente e pedissequamente “imitativo/applicativo”, tutto centrato sulla sequela di qualsivoglia manuale (o antologia), per quanto ben fatto, o sulla pratica “amministrativa” consistente nella attuazione distributiva di attività progettate da altri, con relativa somministrazione di esercizi, prove già strutturate e predisposte, schede di verifica preconfezionate.

[7]  Soeren Kierkagaard, La dialettica della comunicazione etica ed etico-religiosa, tr. it di Cornelio Fabro, in Studi Kierkegaardiani, a c. di C. Fabro, Brescia, Morcelliana, 1957, Appendice I, p. 399.

[8] L’allievo «non deve imparare dei pensieri, ma deve imparare a pensare» e l’insegnante «non deve portarlo, ma guidarlo, se si vuole che in futuro sia in grado di camminare da sé» Immanuel Kant, Relazione introduttiva al proprio insegnamento nel corso del semestre invernale del 1765-66, in Fulvio C. Manara (cur.), Filosofi in cattedra, Bologna, Calderini, 2000.

[9] Soprattutto se si muove dall’esigenza di identificare i profili dei “saperi” o, ancora, i loro “contenuti essenziali”, o lo specifico disciplinare.

[10]  Ho tenuto presente, per questa “panoramica”, il volume collettaneo Lo statuto epistemologico della filosofia, Morcelliana, Brescia, 1989.

[11] Sia nel senso dato a questo concetto dagli antichi che in quello ad esso attribuito da Kant. Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Tornio, Einaudi, 1986, p. e Idem, Che cos’è la filosofia antica, Torino, Einaudi, 1998, pp.256-58.

[12]  Psicologia delle visioni del mondo, Roma, Astrolabio, 1950, p.9.

[13]  Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, cit.,  p.264.

[14] Cfr. Heinz Von Forster, Sistemi che osservano, Roma, Astrolabio, 1987, pp.119-120.

[15] Ibidem, p.119-20: «Non c’è da meravigliarsi che un sistema di istruzione il quale confonda il processo di creare nuovi processi con l’elargizione di un bene chiamato ‘sapere’ o ‘conoscenza’ possa causare qualche delusione negli ipotetici destinatari, in quanto, semplicemente, non viene loro trasmesso alcun bene: di beni non ce ne sono. Storicamente, credo, l’equivoco per il quale si attribuisce alla conoscenza una realtà sostanziale nasce con un volantino umoristico stampato a Norimberga nel sedicesimo secolo. Esso mostra uno studente seduto; in testa ha un buco, nel quale è inserito un imbuto. Accanto a lui è ritto in piedi il maestro, che versa nell’imbuto un secchio pieno di ‘conoscenza’, ossia di lettere dell’alfabeto, numeri e semplici equazioni. Mi sembra che l’Imbuto di Norimberga abbia fatto per la pedagogia ciò che la ruota ha fatto per l’umanità: adesso possiamo scendere la china molto più in fretta».

[16] Per cui, per dirla con Aldo Gargani, «Un osservatore, mentre descrive un mondo, sta contemporaneamente descrivendo se stesso che descrive quel mondo», cit. da Mauro Ceruti, La danza che crea, Milano, Feltrinelli, 1989, p.49.

[17] Cfr. M. Ceruti, op.cit.,  passim. Secondo Antonio Calvani, «I concetti principali che caratterizzano l'attuale costruttivismo possono essere ricondotti a tre; la conoscenza è prodotto di una costruzione attiva del soggetto, ha carattere “situato”, ancorato nel contesto concreto, si svolge attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale. In primo piano viene posta la “costruzione del significato” sottolineando il carattere attivo, polisemico, non predeterminabile di tale attività», Costruttivismo, progettazione didattica e tecnologie.

[18]  Antonio Calvani, Iperscuola, cit. Al laboratorio di filosofia in questo contesto viene attribuita la funzione di  favorire la consapevolezza epistemica mediante la messa in evidenza di alcuni problemi esistenziali (conoscitivi e morali) — difficilmente sostituibile in una “scuola tecnologica” e relativa al rapporto umano diretto —.

[19] Gemma Corradi Fiumara, Filosofia dell’ascolto, Milano, Jaca Book, 1982.

[20] V. almeno Mario De Pasquale, La relazione educativa nell’insegnamento della filosofia, in «Bollettino della SFI» n.161, maggio-agosto 1997, p.111-131.

[21]  Ma anche qui, oggi che si parla molto di lettura dei testi dei filosofi, si dovrebbe mettere in guardia nei confronti di una lettura che risulti indigesta, e che allontani dall’autore letto, inducendo disaffezione all’ascolto del pensiero altrui.

[22] Charles S. Peirce, Fixation of Belief (1877), in Writings of Charles S. Peirce. A Chronological Edition, vol. 3 (1872-1878), ed. C.J.W. Kloesel, Bloomington, Indiana University Press, 1993, p. 247.

[23] Ibidem, p. 246.

[24] Una presentazione articolata di questa proposta sta in Marina Santi, Ragionare con il discorso, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp.87-95.

[25] Ben oltre la lezione “ex cathedra”: tanto per citarne alcune, la lezione euristico-dialogica (o “socratica”), basata sul problem-solving e/o sulle “domande legittime” (problem-setting), la simulazione, la pratica della “scoperta guidata”, l’esperienza di laboratorio, ecc. ecc. ecc.

[26] Esercizi filosofici: su questo v. almeno Mario Trombino, Didattica empirica della filosofia, Bologna, Calderini, 2000.

[27] Un eccellente lavoro introduttivo è senz’altro quello, già citato, di Marina Santi, Ragionare con il discorso, al quale rimando senz’altro.

[28]  Su parecchi degli interrogativi che ho posto qui, oltre al testo di M. Santi citato alla n. precedente, suggerirei la considerazione del notevole Matthew Lipman, Thinking in Education, Cambridge University Press, 1991, in part. il cap. 14, Thinking in community, pp.229-243.

[29] Su questo punto, fra tutti, mi soffermo per far notare, a mo’ di esempio, che nel guidare una discussione si può far ricorso al “raggruppare le idee”, oppure suggerire linee divergenti o convergenti, o ancora muovere la discussione verso più alti livelli di generalità…

[30] Nicholas Negroponte, Essere digitali, Milano, Sperling & Kupfer, 1995.

[31]  Qualche osservazione ho svolto sull’utilizzo di ipertesti ed ipermedia altrove (cfr. bibliografia).

[32]  Come ho già detto nella n. 19, si deve essere assai guardinghi al fine di evitare una comune eterogenesi dei fini. Il docente sogna di far amare i testi dei filosofi, e fa bene. Ma occorre una messa in opera di attività in classe di lettura di testi che non conduca piuttosto gli allievi a disamorarsi della lettura e dei libri dei filosofi, ad annoiarsi, o che li lasci del tutto indifferenti.

[33] Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi,1988, pp. 58-68.

[34] Massimo Baldini, Contro il filosofese, Laterza, Bari, 1991, pp. X-XI.

[35]  La disponibilità di versioni elettroniche dei testi rende possibile e praticabile anche per studenti giovani questo tipo di indagine raffinata, magari di un autore cui si fa ricorso anche al testo originale (non è impensabile che studenti che studiano, poniamo, francese o inglese possano confrontare le traduzioni italiane dei testi che stanno leggendo di Cartesio o di Hume con gli originali). Si deve ovviamente porre attenzione a che questi esercizi corrispondano a domande realmente significative, sulle quali è bene aver coinvolto in precedenza gli allievi.

[36] Mi preme rimandare almeno  ad alcuni siti in cui (ovviamente in rete) si possono trovare informazioni adeguate e di prima mano: v. pertanto: http://www.scintille.it/cl/CoopLearning.htm: il sito della rivista on-line “Apprendimento cooperativo”; Vittorio Midoro, Per una definizione di apprendimento cooperativo, in «Tecnologie didattiche», n. 4 (autunno 1994), ed in rete all’URL http://paradiso.itd.ge.cnr.it/td/td4/apprendfr.htm; G. Olimpo, G. Trentin (ITD), La telematica nella didattica: come e quando, in «Tecnologie didattiche», n.2 (autunno 1993), e all’URL http://paradiso.itd.ge.cnr.it/td/td2/td2oltr1fr.htm

http://paradiso.itd.ge.cnr.it/td/td2/td2oltr2.htm;

[37]  D. De Kerkhove,  La mente umana e le nuove tecnologie della comunicazione, intervista della Biblioteca di MediaMente, all’url: http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/d/dekerckh.htm, domanda 8.

[38]  Ibidem, dom.2-3.

[39]  Il “pensiero” o la “conoscenza” non si trova certo nei libri (quanto, semmai, in certe pratiche e processi di lettura) né tantomeno le “conoscenze” sono depositate nelle memorie di elaboratori elettronici…

[40] Marshall McLuhan, La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, a  c. di G. Gamalieri, Roma, Armando, 1976 (V rist., 1995), pp. 325-6.

[41]  Cfr. il noto saggio di Arthur Schopenhauer, Del leggere e dei libri, in Parerga e paralipomena, ed. it. a cura di Mario Carpitella, Milano, Adelphi, 1983, pp. 748-762.

[42]  Antonio Calvani, Iperscuola, cit, p. 119.

[43]  Con “libri di testo” intendo qui i classici “manuali” di Storia della filosofia e le antologie, e non i testi degli autori, ovviamente.

[44] Fatta forse eccezione per Platone, di cui disponiamo ora addirittura di due edizioni elettroniche (a dire il vero molto diverse e di qualità altrettanto disuguale): quella edita da Laterza: Platone, Opere complete, con il testo greco. CD ROM a cura di G. Iannotta - A. Manchi e D. Papitto, Bari, Laterza Multimedia, 1999; e quella edita da Rusconi: Platone. La vita,. il pensiero, le opere del più grande filosofo dell’Occidente, con  un CD ROM Interattivo, Testi di G. Reale, a cura di R. Radice, Milano, Rusconi, 1999. Nella biblioteca di un sito come Liberliber (www.liberliber.it) i testi in italiano di filosofi si contano sulle dita di una mano. E la scarsità di testi italiani di filosofi si può constatare con mano nelle eccellenti pagine dello SWIF (Sito Web Italiano per la Filosofia), ISSN 1126-4780, dedicate a Filosofi & Classici, a cura di Davide Fasolo, all’url: http://lgxserver.uniba.it/lei/filosofi/filosoficlassici.htm.

[45]  E del progetto di azione didattica appositamente ideato anno per anno dal docente, o meglio, elaborato in itinere, anche secondo gli interessi degli studenti.

[46] Non vorrei che queste proposte sembrassero denotare una prospettiva in qualche modo “individualistica” (anche se nella mia esperienza mi sono mosso sinora proprio in questa dimensione individuale): non penso che sia un argomento contrario la prospettiva ipotetica di scuole con numerose classi, e quindi con alto numero di docenti di filosofia: penso che si tratti semplicemente di gestire con flessibilità un problema puramente logistico. Del resto, si consideri che la mia prospettiva è anche quella di non considerare più il gruppo classe come riferimento univoco. Pertanto si può capire anche che nella gestione ed elaborazione del laboratorio si possa (e in qualche misura si debba) pensare al lavoro di équipe ed al modello “modulare” di organizzazione dei curricoli. Inoltre, sono convinto della praticabilità (e della necessità) di laboratori di filosofia anche nelle università…

[47]  Si nota infatti l’assenza di testi del pensiero contemporaneo, di autori medievali, di testi del pensiero non europeo-occidentale, ecc. ma rammentiamo che si tratta di una bozza, del tutto provvisoria e necessariamente integrabile. Si tenga conto infatti che nel giovane Liceo in cui insegno praticamente non esisteva alcuna biblioteca filosofica, e si è trattato di procedere dal nulla. Ad una stima abbastanza attendibile si è anche calcolato il costo complessivo di una biblioteca di questo genere, che si aggira fra gli otto e i dieci milioni.

[48] Magari messi a disposizione degli studenti in più copie.

[49] Rinvio di nuovo alle pagine dello SWIF (Sito Web Italiano per la Filosofia), ISSN 1126-4780, dedicate a Dizionari ed enciclopedie, a cura di Daniele Didero, all’url: http://lgxserver.uniba.it/lei/dionari/dizcoll.htm .

[50]  Non si fraintenda il tono a volte apodittico con il quale affronto certi passaggi: essendo questa una sintesi, non problematizzo con evidenza tutto ciò che è ancora oggetto di ricerca e di studio.

[51] Georges Friedmann, La puissance et la sagesse, Paris, Gallimard, 1972, p. 359.