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Comunicazione Filosofica n. 6 - novembre 1999

 

Martino Sgobba

DOLORE E SAPERE

 

1.1 Jung, nella sua Risposta a Giobbe (1), pone il dolore come condizione del sorgere dell’autocoscienza, della certezza del sé e della difesa del sé dai lati oscuri del se stesso. Giobbe ha ragione, infatti, di fronte a Yahwéh, perché è innocente e perché, in ultima istanza, non s’oppone alla condanna che gli è stata inflitta. Giobbe s’eleva a simbolo della Giustizia e della coerenza nella Verità, perché egli soffre ingiustamente e accetta tale sofferenza, pur sottolineandone la radicale assurdità. In tal modo, egli diventa davvero immagine di Yahwéh, ma si tratta dell’immagine di Yahwéh possibile che svela, contemporaneamente, la malattia di Yahwéh reale: l’incoerenza rispetto al suo dover essere Verità e Giustizia, l’incapacità di porre sotto controllo il proprio lato oscuro, distruttivo, incosciente. Inoltre, Giobbe indica la terapia necessaria:

La vittoria del più debole, della vittima che ha sofferto la violenza è illuminante; Giobbe era moralmente superiore a Yahwéh. L’essere creato aveva, a questo riguardo, superato il creatore […]. (2)

La sofferenza conduce Giobbe alla Verità e indica a Yahwéh il suo dovere. Aiutato dalla Sophia, Yahwéh comprende che gli tocca prendere atto d’essere il Giusto e d’essere la Verità. Tale presa d’atto deve passare attraverso la sofferenza e, quindi, Yahwéh si fa uomo e muore in croce per salvare se stesso, ripetendo la dolorosa umana sofferenza di Giobbe: l’uomo che s’era già salvato ponendosi nella Giustizia e nella Verità, reprimendo in sé ogni istinto negativo.

La Croce riscatta Yahwéh, lo rende capace di servirsi della sua stessa potenza, di disciplinarla, di controllarla. Non importa ricordare come Jung si mostri dubbioso sulla consistenza e sull’irreversibilità del dominio che Yahwéh ha raggiunto nei confronti di se stesso, in quanto fonte di ingiustificabile sofferenza. Importa sottolineare come per Jung si diventa uomini e si diventa Dio allo stesso modo: soffrendo.

1.2 Jonas sostiene che, dopo Auschwitz, bisogna parlare diversamente di Dio, perché il problema posto dalla domanda di Giobbe s’è ingigantito smisuratamente al punto che non è, in alcun modo, individuabile alcuna colpa che possa fungere da spiegazione e da giustificazione del dolore provocato dal nazismo. Dopo Auschwitz, la teodicea deve essere completamente ripensata:

[…] "Auschwitz", per il credente, rimette in questione il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato […] chi non intende rinunciare sic et simpliciter al concetto di Dio ( e il filosofo può legittimamente rivendicare il diritto a non rinunciarvi ), deve pensare questo concetto in modo del tutto nuovo e cercare una nuova risposta all’antico interrogativo di Giobbe. (3)

Jonas propone una nuova risposta esponendo quello che chiama mito ipotetico. Secondo questo mito, la creazione fu una fiduciosa rinuncia di Dio a se stesso:

In principio, per una scelta imperscrutabile, il fondamento divino dell’essere decise di rimettersi al caso, al rischio, e alla molteplicità infinita del divenire. E lo fece in modo totale, senza riserve: abbandonandosi all’avventura dello spazio e del tempo, la divinità non teme nulla per sé: nessuna sua parte rimase indenne e incontaminata, per poter governare, dirigere e da ultimo garantire dall’al-di-là l’errabonda metamorfosi del suo destino nella sua creazione. (4)

Il mondo, quale alienazione di Dio, per "interi eoni è al sicuro, affidato alle mani del caso cosmico" (5); in esso, la vita si scambia con la morte e in questo scambio, che è un’evoluzione, cresce il mondo e cresce la divinità. La situazione precipita con la comparsa dell’uomo, perché con l’uomo bene e male si separano, cessa il loro scambio produttivo, il loro essere paradossalmente al di là del bene e del male. Il gioco aperto dalla alienazione-creazione s’avvia verso il pericolo:

L’origine dell’uomo è l’origine stessa del sapere e della libertà e, grazie a questo dono estremamente ambiguo, l’innocenza di un soggetto che è pienezza di vita lascia il posto al compito della responsabilità che agisce e opera in un dominio segnato dalla separazione di bene e male. Alla buona sorte e al rischio inerenti questa dimensione ultima è d’ora innanzi rimessa la causa stessa di Dio […]. (6)

Compare l’uomo e inizia la sofferenza di Dio, il quale sente che l’esito della sua creazione, l’esito del suo progetto di perdersi per poi ritrovarsi, di Aufhebung è nelle mani della libertà umana. Dio soffre e comprende fino in fondo la rischiosità -- che poi sarebbe stata attestata dagli orrori di Auschwitz – dell’essersi negato nel mondo facendosi mondo. La sua generosità ha regalato al mondo – ma anche e soprattutto a se stesso – l’uomo e, quindi, un’effettiva libertà e questo dono l’ha depotenziato; egli prima soffre intravedendone il rischio di perdita di potenza e poi soffre perché appare evidente la sua impotenza di fronte al male.

Questo breve riferimento al testo di Jonas è sufficiente a testimoniare come anche per lui Dio riesce a far luce su se stesso mediante la sofferenza. In realtà, seguendo il filo del suo ragionamento, la domanda "perché il male?" spetterebbe più a Dio che a Giobbe.

1.3 Sia in Jung che in Jonas viene fortemente pensato il nesso fra sapere e dolore, fra la conoscenza come liberazione-salvezza e la conoscenza come fonte del male e del dolore. "Se si aumenta la scienza, si aumenta il dolore" dice l’Ecclesiaste; ma occorre integrare: la scienza non nasce senza il dolore, senza quel dolore che è l’altro volto della meraviglia, che è il lato oscuro dello stupore verso l’Essere in cui siamo e che noi siamo.

In questi due autori il suddetto nesso è sottolineato ed è attraversato con circospezione, ma anche con decisione; tal fatto probabilmente è dovuto al loro interesse, non soltanto descrittivo, per lo gnosticismo. (7) Infatti, è in quest’ultimo che la Sophia gioca un ruolo decisivo all’interno della sfera del divino e dell’umano.

Lo gnosticismo pensa il male in modo molto radicale, riferendolo direttamente alla dimensione del divino. Lo gnosticismo parla della Sophia quale eone ribelle fra gli eoni emanatisi dal Dio-Abisso:

L’eone prevaricatore, detto in genere Sophia, emana una serie di eoni inferiori, uno dei quali è il Demiurgo (Jaldabaoth), il Dio degli Ebrei, dell’Antico Testamento, creatore del mondo materiale, del cosmo, della materia, del destino, del tempo, dell’uomo. (8)

Valentino narra che il mondo nasce dalla sofferenza della Sophia:

Così la terra sorse dalla sua [della Sophia] confusione, l’acqua dal suo terrore; l’aria dal consolidarsi del suo dolore; mentre il fuoco […] era inerente a tutti questi elementi […] come l’ignoranza giace nascosta in queste tre sofferenze. (9)

L’ignoranza giace nascosta in queste tre sofferenze: la Sophia ha dentro di sé la sua rovina e da questa rovina nasce il mondo e nasce il male. Lo gnosticismo attua il grande passo: il sapere non comprende il dolore, perché esso stesso — la Sophia, l’ultimo e il più giovane degli Eoni – ha oltrepassato il limite. La Sophia è limitata, perché è andata oltre il Pleroma, ne ha varcato il confine. Nella separazione la Sophia soffre, perché desiderà rientrare nel Pleroma, ma non può: il Pleroma resta inaccessibile. La Sophia inferiore, quella espulsa dal Pleroma, non può più rientrare, perché deve essere lasciata libera, pura la Sophia originaria, rimasta nel Pleroma, privata di quel Desiderio che aveva portato disordine nel Pleroma. La Sophia inferiore altro non è che l’ipostasi di quel Desiderio. L’ipostasi del Desiderio resta fuori dal Limite e vive, a seguito di ciò, "passioni [ che ] assumono la forma di stati definitivi di essere e come tali possono diventare la sostanza del mondo. Tale sostanza dunque, psichica e materiale, non è altro che la forma estraniata da sé e decaduta dello Spirito, solidificata da atti in condizioni abituali e trasformata da processo interno in fatto esterno. (10) Il mondo è dolore, perché esso è il frutto della passione smodata, della follia della Sophia. (11) In definitiva, gli gnostici giustificano il dolore e la sofferenza sistemandoli all’interno del dramma cosmico, ma anche per loro il sapere non comprende il dolore, perché la Sophia e, quindi, anche la sophia degli uomini sono passione, eros, desiderio di sapere e giammai sapere realizzato.

1.4 Spinoza, al termine della prima parte dell’Ethica, intitolata Dio, si chiede:

Se tutte le cose sono conseguite dalla necessità della perfettissima natura di Dio, donde sono sorte in natura tante imperfezioni? E cioè la corruzione delle cose fino al fetore, la deformità che suscita nausea, la confusione, il male, il peccato ecc. (13)

Così risponde:

[…] tali argomenti vengono confutati facilmente. Infatti, la perfezione delle cose deve essere valutata soltanto in base alla loro natura e potenza, né le cose sono più o meno perfette perché dilettano o offendono i sensi degli uomini, o perché giovano alla natura umana o la avversano. (14)

In questa risposta, la filosofia tocca, una volta di più, il vertice della negazione del male e della giustificazione di Dio; quel vertice che sarà eguagliato, in piena consapevolezza di ripetere il già detto, da Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia:

Ma l’unico pensiero che essa [la filosofia della storia] porta con sé è il semplice pensiero della r a g i o n e: che la ragione governi il mondo, e che quindi anche la storia universale debba essersi svolta razionalmente. (15)

Ancora una volta, la salvezza dal male si consegue mediante la Sophia: l’amor dei intellectualis, la filosofia quale "occhio del concetto" che scorge la razionalità della storia, aprendosi "la via attraverso il molteplice e variopinto groviglio delle contingenze" (16). Ma in Spinoza e in Hegel viene meno lo scambio fra il sapere e il dolore; infatti, il dolore è non sapere e non è vero che "se si aumenta la scienza, si aumenta il dolore", mentre è vero che, se si aumenta il sapere, il dolore viene esorcizzato, anestetizzato con il titolo onorifico di potenza del negativo, gratificato con il riconoscimento di una meritoria funzione maieutica. In Hegel, la processualità dell’Aufhebung conduce ad un risultato conciliante, al quale ogni momento del processo, negando e facendosi negare, ha contribuito. In Spinoza, la scientia intuitiva intende che "realtà e perfezione [sono] la stessa cosa" (17), perché "le cose sono state prodotte da Dio con somma perfezione" (18).

Spinoza e Hegel producono perfetti esempi di docta religio, ma la filosofia come docta religio non è capace di pensare (19) lo scambio sapere-dolore, dato che la filosofia religiosa, cioè la filosofia metafisica, cioè la filosofia come teologia filosofica (20), è incapace di pensare il doppio volto di Dio: il volto del giorno e quello della notte. (21)

1.5 Edipo è il simbolo perfetto dello scambio fra sapere e dolore. La risoluzione dell’enigma della Sfinge – l’enigma-uomo – gli spiana la via verso il dolore e il dolore lo conduce in vista di d’un sapere superiore, che, non a caso, viene partecipato solo a Teseo al fine di salvare Atene, la città del sapere. (22) Ma Edipo è l’eroe tragico, è soltanto il luogo dello scambio fra sapere e dolore; l’incrocio di sapere e dolore è nella volontà degli dei, è nel destino che travolge gli dei stessi. La croce di sapere e dolore è tragedia, che s’origina in cielo e si rovescia sugli uomini. Anche il titano che cerca di limitare la tragedia, il dolore, trova la sua punizione su una roccia dolorosa del Caucaso. La punizione per chi […] divise la gloria degli dei con gli uomini che passano. (23)

Diventato teologia e, direttamente o indirettamente, filosofia, il cristianesimo ha annullato il tragico, sostituendolo con la teodicea. Ha dissolto la tragedia, riducendo il male a privatio boni e attenuando la divinità, la sacralità del diabolico, fino quasi a non parlarne più, fino ad avere bisogno, quando è parso indispensabile, di ricordare la presenza di Satana. Per sottrarre il cristianesimo al suo vuoto destino di teologia criptofilosofica, di consolatrice teodicea, occorre riportare la contraddizione, il dolore nel cuore stesso di Dio. E’ questa l’operazione compiuta da Jung, dal mito gnostico esposto da Jonas, dallo Schelling delle Ricerche filosofiche. Si tratta dell’operazione che Pareyson cerca di moderare, attenuare, scrivendo quanto segue:

Questa concezione dell’ambiguità divina e della presenza del male in Dio permette di spiegare la non irrealtà del male e la sua persistenza al mondo umano senza per questo demonizzare la divinità. Il rischio di satanizzare Dio, inerente alla concezione della presenza del male in lui, è evitato dall’idea che il male in Dio è soltanto la possibilità del male, la quale può essere tradotta in realtà solo per opera dell’uomo, al momento della sua caduta. Per evitare la demonizzazione di Dio non è necessario ricadere nella concezione ottimistica della teodicea: si può respingere il Dio levigato della teologia, e ravvisare in Dio qualcosa di opaco, quasi un’ombra, senza perciò satanizzarlo. (24)

Pareyson parla prudentemente di opacità di Dio, ma la sostanza non muta: la tragedia è in Dio stesso, il volto opaco di Dio è pur sempre il volto di Dio, l’unico doppio volto di Dio.

Giobbe sa perfettamente la doppiezza di Dio, sa che la propria sofferenza proviene da Dio; sa che il male è in Dio – non importa se come realtà o come pura e semplice possibilità – e sa che anche il dolore è in Dio: Dio che, come vuole Jung, deve farsi uomo e soffrire per poter diventare saggio o Dio che, come pensa Pareyson, constatata l’insufficienza della sofferenza degli uomini innocenti a poter scontare la colpa del genere umano, si fa uomo per poter riscattare l’uomo e salvare la sua stessa creazione dalla corruzione causata dalla libertà umana:

"Questa è la tragedia dell’uomo: egli è immerso nel tentativo, autore del male e soggetto al dolore, marchiato dall’onnicolpevolezza e destinato alla sofferenza universale. Ma è anche la tragedia di Dio, perché la caduta umana, segnando il fallimento della creazione, colpisce l’opera sua e lo costringe a intervenire per rettificarla, ciò che Dio non può fare se non soffrendo a sua volta, perché solo col dolore si può vincere il male" (25).

1.6 Il nodo oscuro di sapere e dolore, nel momento in cui viene radicato nel terreno del Fondamento, dell’Origine, del Dio, anche soltanto eventualmente possibile, pare poter essere, se non sciolto, almeno illuminato dall’arte. (26)

Un personaggio del film di Wenders, Il cielo sopra Berlino, un vecchio che, omericamente, s’aggira per Berlino e che ne frequenta la biblioteca, si chiede, sfogliando un libro di fotografie di guerra, "perché non possa esistere un epos di pace".

Nietzsche, commentando i versi di Omero:

Questo infatti dispose il decreto degli dei e destinò agli uomini

La fine, perché ci fosse un canto anche per le tarde generazioni

ha scritto che "noi soffriamo e periamo perché ai posteri non manchi materiale" (27). Il dolore è, dunque, un presupposto della produzione estetica; l’arte come esorcismo, come giustificazione, come sacralizzazione del dolore (28). L’arte come conoscenza del dolore? Della verità del dolore? L’arte come indicazione di una risposta al dolore. Una risposta utopicamente sovvertitrice della realtà del dolore; un urlo disperato come la disperazione di Admeto, l’uomo del sovvertimento:

Ma egli ruppe la scorza del dolore
in pezzi e ne distese alte le mani
come per trattenere il dio fuggente.
Anni chiedeva, solo un anno ancora
di giovinezza, mesi, pochi giorni,
ah, non giorni, ma notti, una soltanto,
solo una notte, questa notte: questa.
Il dio negava. Gridò allora Admeto,
gridò vani richiami a lui, gridò
come gridò sua madre al nascimento. (29)

L’arte è una risposta disperata al dolore. Tale disperazione non va intesa, tuttavia, in modo assolutistico, perché è dell’essenza della disperazione l’imperfezione, il suo perdurante legame con la speranza. Sottile è il filo che separa speranza e disperazione; più sottile, ma anche più robusta, è la trama che le accomuna: il loro restare sul terreno delle risposte possibili. (30)

Al Giobbe che noi siamo vale come risposta anche la disperazione e non c’è disperazione che non sia la denuncia di un destino. Anche la speranza è una risposta: ma è una risposta che non ci sorprende. La riteniamo normale. La disperazione è una risposta che sorprende, perché sacralizza, eleva a destino il dolore. Essa è sofferenza che impazzisce, ma nel suo fondo, è pur sempre una risposta, perché trafigge e sostiene il doppio volto di Dio.

La vera disperazione, se è possibile in quanto tale, deve andare oltre la disperazione, deve essere un dolore che si folgora nell’esplosione del "perché?", senza che a tale perché s’affianchi, consolatrice, l’idea di destino. E’ dubbio che tale disperazione sia alla portata dell’uomo, se non a un uomo perfettamente nichilista, se non ad un ueber-Mensch totalmente riuscito. Ma potrebbe questo oltre-uomo ancora provare dolore, soffrire, così come noi soffriamo? Sarebbe ancora un uomo? (31) Quell’uomo che è anche e ancora Cristo quando, imperfettamente disperato, grida: "Dio mio, perché mi hai abbandonato"? (32)

In questa residuale, minima, ma decisiva, imperfezione della disperazione s’inserisce l’arte nel suo essere extrema ratio o, se si preferisce, nel suo es sere prima e oltre la ragione, nel suo poter dire il dolore, costringendolo nella forma della bellezza (33).

1.7 Questo legame fra arte e dolore è testimoniato anche e per assurdo dall’utopia marxista. Marx ha proposto un umanesimo radicale: "essere radicali significa andare alla radice e la radice dell’uomo è l’uomo stesso". (34) Si tratta di un umanesimo che pone se stesso in modo esaustivo, rifiutando di intendersi come ateismo, dato che quest’ultimo implica pur sempre una definizione dell’uomo in relazione a quel Dio che viene affermato nella negazione (35).

L’uomo viene consegnato a se stesso, alla sua storia, alla storia del mondo; è posto alla radice del bene e del male. E’ in questa radicalità la novità dell’umanesimo marxiano. Tuttavia, in Marx non si dà traccia dell’uomo nuovo, se non nell’indicazione di un paradigma estetico, di un uomo artefice/artista. A tal proposito, è sufficiente far riferimento alle pagine giovanili, nelle quali il comunismo viene presentato come "la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane". (36) Ma ci si può anche riferire alla pagina del Marx maturo, nella quale il comunismo viene presentato come il "regno della libertà", nel quale è possibile lo "sviluppo delle capacità umane […] fine a se stesso". (37)

Questa indicazione marxiana dell’uomo artefice/artista ha trovato un’estrema formulazione in Trockij, per il quale, nell’età socialista, l’uomo Diventerà infinitamente più forte, più intelligente, più affinato; il suo corpo più armonioso, i suoi movimenti più ritmici, la sua voce più musicale. Le forme della vita quotidiana acquisteranno una teatralità dinamica. Il tipo umano medio si eleverà al livello di Aristotele, Goethe, Marx. Su questo crinale si eleveranno nuove cime. (38)

Quest’uomo, profetizzato da Trockij, sarà capace di soffrire e di giungere, attraverso il muro del dolore o facendosi spingere dalle vele della gioia, a Dio? In una pagina di poco precedente quella appena citata si legge:

Ma l’arte socialista farà rinascere la tragedia. E, naturalmente, senza Dio. L’arte nuova sarà un’arte atea. Essa farà rinascere anche la commedia perché l’uomo nuovo vorrà ridere. Accorderà tutti i diritti alla lirica perché l’uomo nuovo amerà meglio e di più che gli uomini antichi e mediterà sui problemi della nascita e della morte. (39)

Ma questa meditazione sui problemi della nascita e della morte dovrà essere una meditazione senza dolore! L’arte esprimerà soltanto la gioia, la pienezza d’essere e non sarà più l’estremo tentativo di sapere il dolore. un uomo nuovo per un sapere nuovo? Un uomo nuovo per un’arte nuova? In altre parole, partendo da Marx, bisogna necessariamente fermarsi allo spinozismo o al socratismo di Lukacs, per il quale "solo una vita di fornita senso può terminare con una morte fornita di senso"? (40) E in questa vita "fornita di senso" c’è davvero posto per il dolore? Nel "regno della libertà" resterebbe soltanto il dolore, per così dire normale, della sia pur ridotta necessità di destinare parte del tempo umano per il lavoro finalizzato a produrre i presupposti materiali della libera creatività umana. (41) Ma si tratterebbe di un dolore completamente sensato, senza alcuna eccedenza nei confronti del sapere. (42)

 

Fin qui si è parlato, dialogando con alcune voci che riusciamo ad ascoltare, della croce del dolore e del sapere e delle direzioni di questa croce che hanno condotto a pensare Dio e ad attribuire all’arte la capacità di opporsi, esprimendolo, al dolore. Ma racconta una storia Zen:

Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a trattenersi. "E’ ricolma. Non ce n’entra più!". "Come questa tazza"—disse Nan-in – "tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?". (43)

 

2.1 La ricerca del senso del dolore fa esplodere la filosofia, la conduce ad un limite oltre il quale c’è il silenzio. Larga parte della filosofia è stata esercizio di negazione di questo silenzio; quasi una raffica di rumore della ragione per coprire il fragore di questo silenzio. Non si vuol dire che le filosofie non possano, non abbiano potuto, dir nulla di sensato sul dolore: lo hanno aggredito da ogni dove, lo hanno blandito, da Eraclito a Hegel, quale creativa potenza del negativo, ne hanno bevuto virtuosamente il veleno. Ma è davvero forte l’impressione d’un girare a vuoto dei discorsi filosofici, d’un kantiano campo di lotte senza fine. E’ davvero forte la deludente constatazione che le filosofie abbiano riempito una tazza che è sempre stata soltanto da vuotare e magari da interpretare, da divinare nel suo fondo, eventualmente ricorrendo al mito. (44)

Croce ha scritto che la filosofia pone le stesse domande sollevate dal senso comune e che dà le stesse risposte espresse dal senso comune, ma anche che la filosofia interroga e risponde con più intensità. (45) Senza voler affrontare la questione del rapporto fra filosofia e senso comune, bisogna forse riconoscere che gli uomini comuni hanno saputo, sanno, magari con l’ausilio di una fede semplice – né trasudata dalla ragione problematica né accesa dai fuochi inquieti della coscienza morale – aprire e chiudere la porta del dolore. I filosofi, invece, hanno cercato, cercano, di attraversare questa porta, riuscendo, il più delle volte, a schiantarvisi contro. Nietzsche è soltanto la vittima più illustre.

2.2 La risposta del senso comune alla domanda di Giobbe è, in fondo, un poderoso e tranquillo silenzio equivalente a quello altrettanto poderoso, ma meno tranquillo, di Wittgenstein:

La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparir di esso.

(Non è forse per questo che uomini, cui il senso della vita divenne, dopo lunghi dubbi, chiaro, non seppero poi dire in che consisteva questo senso?) (46)

Il fascino delle filosofie di questo secolo sembra dipendere dal loro silenzio a riguardo della domanda fondamentale posta dagli uomini: unde malum?

Silenziosa è l’attesa heideggeriana dell’Essere; silenziosa è la filosofia di Husserl o, almeno, incapace di andare oltre la denuncia della crisi; assiologicamente silenziose sono le filosofie neopositivistiche ed analitiche; ammutolite dal fallimento del socialismo reale le voci del progetto politico marxista; mistericamente silenti le teologie; (47) loquace, ma pur sempre interprete di un silenzio destinato a non essere mai esaurito, la psicoanalisi; dolenti e a volte scomposti i silenzi degli esistenzialismi; robusti e sicuri nei loro fitti reticolati i silenzi degli strutturalismi.

Sembra che un grande silenzio essenziale sia seguito agli urlati avvertimenti di Zarathustra agli orfani di Dio insensatamente ridenti. (48) In questo silenzio riesce perfino ad aprire una porta di speranza la balbuzie, a volte generosa, a volte soltanto infantile, delle varie filosofie deboli o troppo facilmente ermeneutiche.

Nell’oscuro silenzio di questo secolo è apparsa la luce del senso comune; forse soltanto questa luce ha potuto salvarci dal dolore. Ma la debole resistenza di questa luce ha anche permesso il dominio del male, culminato nelle tenebre dell’hitlerismo.

Nel silenzio essenziale delle voci filosofiche, incapaci della loro tradizionale funzione consolatoria, il male e il dolore hanno preso la parola.

Il secolo che sta tramontando è crollato sotto il peso della libertà: libertà dalle teodicee d’ogni specie, libertà dai miti e dalla promesse del Progresso. (49) Si è realizzata la profezia dell’uomo folle annunziante la morte di Dio:

Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io. Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? […] Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? […] Non è troppo grande per noi la grandezza di questa azione? (50)

2.3 La libertà è il chiodo che incrocia l’asse del sapere con la trave del dolore. Ma la stessa libertà è disciplinata dalla croce di dolore e sapere. La libertà tiene insieme dolore e sapere e, nel contempo, essa alligna nel dolore e nel sapere e così si sottrae all’eventuale caduta nel vuoto senza centro e senza direzioni.

La funzione di mediazione fra dolore e sapere operata dalla libertà e la simmetrica produzione di libertà vigilata da parte della croce di dolore e sapere possono essere esemplificate dalle pagine di filosofia prestate – e non a caso – alla letteratura, nelle quali Ivan Karamazov racconta al fratello Aliosa la storia paradossale del Grande Inquisitore.

Nelle pagine precedenti, Ivan ha esposto la propria incapacità a conciliare la fede in Dio con la sofferenza inflitta gratuitamente ai bambini. Ogni altra sofferenza potrebbe essere oggetto di giustificazione, potrebbe offrirsi al lenitivo del sapere, della speranza e anche dell’imperfetta disperazione, ma non quella dei bambini, perché ai bambini non è concesso il sapere, non è concesso di sapere nemmeno che i tormenti loro inflitti da un aguzzino potrebbero essere un anticipo di pena per i loro futuri peccati di adulti. Si potrebbe, tuttavia, pensare anche che i bambini "sono solidali coi padri in tutti i delitti da questi commessi" (51); ad una simile ipotesi Ivan così risponde: "una tale verità non è certo di questo mondo e mi riesce incomprensibile". (52)

Ivan non rifiuta la croce di dolore e sapere. Cerca nel sapere una giustificazione del dolore, ma almeno un dolore, il dolore dei bambini innocenti, diserta il luogo del sapere, si sottrae ad ogni giustificazione. Il sapere, cioè la filosofia – Ivan è il filosofo che si confronta con il sacerdote Aliosa – alla fine tace, non produce giustificazioni e consolazioni, ammutolisce. Nelle pagine successive, Ivan compie un ultimo tentativo per cogliere il senso di questa situazione e racconta la trama del poema che non ha scritto e che avrebbe voluto comporre: il Grande Inquisitore.

A Siviglia, negli anni dell’inquisizione, Cristo ritorna fra gli uomini e rende nota la sua natura divina. Il Grande Inquisitore, spaventato dal successo di Cristo, lo fa arrestare e, in un drammatico tentativo di dialogo, gli contesta l’opportunità, la liceità della sua nuova rivelazione: "Tutto è stato da Te trasmesso al papa, tutto quindi è ora nelle mani del papa. E Tu non venirci a disturbare, quanto meno prima del tempo". (53) Ma queste parole iniziali dell’Inquisitore valgono poco, appartengono alla polemica contro il cattolicesimo. Le parole pesanti sono quelle che seguono:

Tutto ciò che di nuovo Tu ci rivelassi attenterebbe alla libertà della fede umana, giacché apparirebbe come un miracolo, mentre la libertà della fede già allora, millecinquecent’anni or sono, Ti era più cara di tutto. Non dicevi Tu allora spesso: "Voglio rendervi liberi?". Ebbene, adesso Tu li hai veduti, questi uomini ‘liberi’ […]. Sì questa faccenda ci è costata cara […] ma noi l’abbiamo finalmente condotta a termine, in nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera è compiuta. Non credi che sia saldamente compiuta? Tu mi guardi con dolcezza e non mi degni neppure della Tua indignazione? Ma sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono più che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati noi ad ottenerlo, ma è questo che Tu desideravi, è una simile libertà? (54)

Gli uomini comuni hanno rinunciato alla libertà seguendo un istinto di sopravvivenza, hanno intuito la difficoltà d’essere liberi: "Non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura che quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi". (55) L’Inquisitore attribuisce alla Chiesa il merito di aver salvato gli uomini dalla libertà, da quella libertà, sotto il cui peso si sarebbero persi, così come lo Zarathustra di Nietzsche profetizzava per gli sciocchi assassini di Dio.

2.4 La libertà da cui gli uomini vengono liberati è la libertà di comprendere il dolore e, in tal modo, sono sottratti allo scacco del sapere. Il principio d i autorità – incarnato dalla Chiesa – impedisce l’incrociarsi di sapere e dolore. Soltanto Cristo ha potuto sostenere, fino a fondersi con essa, la croce di sapere e dolore: la sua libertà non si è realizzata nella ignoranza della Giustizia della Croce, ma è iniziata e si è conclusa, confondendosi—come è normale in Dio—con la necessità, là dove finiva il suo sapere di uomo (56), cioè dove cessava quel sapere che incrocia il dolore, senza riuscire, tuttavia, ad illuminarlo. Il messaggio della Croce di Cristo è: senza l’ignoranza del dolore, senza l’eccedenza del dolore sul sapere, non si dà libertà; la libertà è la scelta di decidersi alla morte nella eccedenza del dolore rispetto al sapere.

Siamo lontani dal tranquillo ragionamento di Socrate avviato alla serena accettazione della condanna a morte:

Il morire è una di queste cose: o è come essere nulla e chi è morto non ha nessuna sensazione di nulla o, come si racconta, è una specie di mutamento e di trasferimento dell’anima da questo luogo ad un altro. Se è non avere nessuna sensazione, ma come un sonno, quando si dorme senza sogni, la morte sarebbe un guadagno meraviglioso. […] Se invece la morte è come un viaggio di qui in altro luogo e sono veri i racconti che colà sono tutti i morti, qual bene, giudici, potrebbe essere maggiore di questo? (57)

Socrate, nonostante il suo sapere di non sapere, elimina ogni eccedenza del dolore; la ragione socratica annulla il dolore, non vacilla di fronte al dolore che diventa morte e non c’è nessun Padre da invocare. Socrate muore da Dio imperturbabile e Cristo, che è Dio, muore da uomo: né da filosofo né tragicamente. In Socrate, la perfetta copertura del dolore operata dal sapere banalizza la scelta di morire; questa scelta non appare il frutto faticoso e angoscioso della libertà di non arretrare di fronte all’eccedenza del dolore. In Cristo, la croce di sapere e dolore esalta la libera scelta di morire.

2.5 Ivan termina il suo racconto. Cristo ascolta in silenzio l’Inquisitore, che tremante e turbante -- egli sa di essere davvero di fronte a Cristo – gli annunzia la condanna al rogo e per risposta – ma il silenzio già rispondeva – lo bacia sulle labbra. Aliosa imita Cristo e bacia Ivan. Il bacio: ancora una volta il silenzio come risposta. Aliosa continua ad aver fede; Ivan sente bruciare le labbra, ma continua a ferirsi lambendo la roccia caucasica dell’eccedenza del dolore. Socrate gioisce gustando il succo di una vita vissuta fino in fondo. Edipo s’acceca per vedere più lontano ed esce di scena mentre il corifeo ricorda al pubblico che:

Nessun uomo puoi reputare felice fintanto che di sua vita aspetti l’ultimo giorno, bensì dopo ch’egli ne abbia varcato il termine senza patire dolori. (58)

 

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INDICAZIONI TEMATICHE, BIBLIOGRAFICHE, DIDATTICHE

 

Il saggio muove dal riconoscimento del dolore come territorio ostico alla riflessione razionale e come limite di ogni ottimismo filosofico, non necessariamente metafisico. Al tempo stesso, la comprensione del dolore è ritenuta uno degli obiettivi fondamentali, ineludibili, della ricerca filosofica, quando quest’ultima intenda se stessa non come mero esercizio linguistico-retorico, bensì come risposta ai problemi fondamentali dell’esistenza.

Gli Autori ai quali le riflessioni si riferiscono sono: Dostoevskij, Hegel, Jonas, Jung, Marx, Nietzsche, Pareyson, Schelling, Spinoza. Particolarmente approfondito è lo gnosticismo, mediante l’esame della Risposta a Giobbe di Jung. Più in generale, il saggio ha un andamento volutamente rapsodico e non lineare, perché la stessa natura dell’oggetto indagato conduce a tale esito. Il riferimento a testi letterari e poetici segna la presa d’atto della insufficienza della parola filosofica tradizionale non soltanto a dire, ma anche semplicemente a cercare di dire il dolore.

Per quanto concerne i riferimenti bibliografici, si rinvia, oltre che alle opere citate, alla rassegna esauriente, ma anche agevole, delle posizioni filosofiche sul dolore offerta dalla antologia curata da DI GIOVANNI A., Il dolore, Brescia 1988, Editrice La Scuola.

Il saggio si offre ad un’eventuale mediazione didattica sicuramente nell’ultimo anno di studio liceale della filosofia. Potrebbe essere usato come occasione di ritorno a filosofi e a temi affrontati negli anni precedenti, anche al fine di dimostrare il permanere, nel corso del tempo, di problematiche filosofiche fondamentali come quella relativa al senso del dolore.

Più in particolare, il saggio può offrire l’occasione di cogliere ben viva un’esperienza filosofica molto lontana nel tempo, lo gnosticismo, in Autori dell’Ottocento e del Novecento.

Infine, a conclusione dei tre anni di incontro con le acquisizioni, ma anche e soprattutto con le ambizioni, i sogni e le frustrazioni dei discorsi filosofici, la lettura di Sapere e dolore può condurre ad una riflessione generale sul valore e sui limiti dell’indagine filosofica.

 

NOTE

1) C. G. JUNG, Risposta a Giobbe, in Opere, vol. 11, trad. it. di A. Vigotto, Torino 1979, Boringhieri.

2) Ivi, p. 384.

3) H. JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, trad. it. di C. Angelino, Genova 1989, il melangolo, p. 23. Contro le letture -– come quelle di Jung e di Jonas -- prometeiche, tragiche della figura di Giobbe si esprime l’intervento recente di Poma, il quale, di contro, riprende l’interpretazione kantiana di Giobbe come rappresentante dell’uomo consapevole del valore oggettivo della legge morale e fiduciosamente in attesa che Dio la confermi (cfr. POMA A., Avranno mai fine le parole vane? Una lettura del Libro di Giobbe, Alba 1998, Edizioni San Paolo).

4) Ibidem

5) Ivi, p.24.

6) Ivi, pp. 26-7, corsivo nostro

7) Circa il rapporto di Jonas e Jung con lo gnosticismo, cfr. G. FILORAMO, Il risveglio della gnosi ovvero diventare Dio, Bari 1990, Laterza, parte prima.

8) Così ricostruiscono la dottrina gnostica R. FARINA e J. LEBRETON, Lo gnosticismo e il montanismo, in LEBRETON J. E ZEILLER J., Storia della Chiesa dalle origini ai nostri giorni, trad. it., Torino 1957, vol. I, p. 26.

9) Riportato in E. PAGELS, I vangeli gnostici, trad. it. M. Parizzi, Milano 1987,  Mondadori, p. 191. Sulla scuola di Valentino, cfr. Testi gnostici, a cura di L. Moraldi, Torino 1982, Utet, pp. 36-47; E. BUONAIUTI, Lo gnosticismo, Milano 1987, Fratelli Melita Editori, p. 155 e segg.

10) JONAS H., Lo gnosticismo, Torino 1995, SEI, p. 203, corsivo nostro; cfr. tutto il capitolo VII, La speculazione valentiniana, al fine della analisi più accurata del ruolo della Sophia nella generazione del mondo.

11) Così Jonas ricostruisce l’errore della Sophia: "In verità Tutto [il mondo degli Eoni = Pleroma] era alla ricerca di Colui dal quale essi provenivano. […] L’ultimo e il più giovane (e perciò il più esterno) degli Eoni, la Sophia, si slanciò più lontano […]. Tale passione era diventata e si era diffusa per la vicinanza della Mente e della Verità, ma colpì ora la Sophia e penetrò in lei cosicché essa andò fuori di mente, in apparenza per amore, ma di fatto per follia o presunzione, perché non aveva la medesima comunione col Padre quale l’unigenita Mente" (op. cit., p. 198).

12) Di Giovanni così distingue fra dolore e sofferenza: "Dolore è ciò che fa soffrire. Il dolore di cui doliamo indica qualcosa di più passivo, in noi, su cui reagisce – più attivamente quindi – il nostro soffrire. Il male, presente, arreca dolore, il dolore fa soffrire" (DI GIOVANNI A., Il dolore, Brescia 1988, Editrice La Scuola, p. 6). Tale distinzione è da noi accettata ed è implicitamente presupposta dalla nostra analisi.

13) SPINOZA, Etica, a cura di E. Giancotti, Roma 1988, Editori Riuniti, parte prima, Appendice, p. 122.

14) Ibidem.

15) G. W. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it. di G. Calogero e C. Fatta, Firenze 1975, La Nuova Italia, p. 7.

16) Ivi, p. 11.

17) SPINOZA, op. cit., parte seconda, Def. VI, p.124.

18) Ivi, parte prima, Scolio II, p.113

19) Il problema di pensare il dolore è stato oggetto di un Convegno Nazionale della Società Filosofica Italiana (Matera, 1991), i cui atti sono in Filosofia del dolore, Matera 1991, Quaderni della Biblioteca Provinciale di Matera. Fra gli interventi, segnaliamo, per la vicinanza alla nostra riflessione, la comunicazione di ANDRISANI M., La sofferenza im-pensabile, pp. 153-60. Per una puntualizzazione della riflessione teologica su Giobbe, segnaliamo l’intervento di MILANO A., Per un’interpretazione teologica del dolore, pp. 99-150.

20) Circa il concetto di teologia filosofica, cfr. W. WEISCHEDEL, Il Dio dei filosofi, vol. I, trad. it., Genova 1988, il melangolo, pp. 29-62.

21) Uno dei vertici più drammatici toccati dalla filosofia, quale teologia filosofica, nel tentativo di cogliere la duplicità e la doppiezza di Dio, è, a nostro avviso, quello cui giungono le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana di Schelling (su tale argomento ci permettiamo di segnalare il nostro Libertà e impotenza della ragione in Schelling, in "Paradigmi", n.15, 1987, pp. 509-32, poi inserito in SGOBBA M., Le misure dell’uomo. Studi di filosofia, Manduria 1989, Lacaita, cap. II).

22) Cfr. SOFOCLE, Edipo a Colono. Su Edipo come uomo tragico, precedente la filosofia, cfr. RELLA F., L’enigma della bellezza, Milano 1991, Feltrinelli, pp. 13-23.

23) ESCHILO, Prometeo incatenato, in Le Tragedie, trad. it. di E. Mandruzzato, Firenze 1989, Sansoni, pp. 143.

24) PAREYSON L., La filosofia e il problema del male, in "Annuario Filosofico", 2 1986, Mursia, p. 32. Questo scritto è stato poi inserito nella raccolta postuma, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995, Einaudi.

25) Ivi, p.42.

26) Le Muse della poesia stavano consolando Boezio e all’improvviso apparve la Filosofia. Così Boezio descrisse l’arrivo della Filosofia: "Come vide attorno al mio letto le Muse della poesia che suggerivano parole al mio pianto, si turbò lievemente e con una luce cupa negli occhi, esclamò: Chi ha permesso che si accostassero al malato queste sgualdrinelle da teatro che non solo non possono offrire alcun rimedio ai suoi dolori, ma anzi con i loro dolci veleni li alimentano? […] Andatavene, Sirene incantevoli e lasciate che siano le mie arti a prenderlo in cura e a guarirlo" (La consolazione della filosofia, I, 1, Milano 1998, Fabbri, p. 59). Possiamo ancora permetterci di rifiutare l’aiuto dell’arte?

27) NIETZSCHE F., Umano, troppo umano, vol. II, trad. it. di S. Giametta, Milano 1986, Adelphi, § 189, p. 76.

28) Il riferimento obbligatorio è ovviamente alla nietzscheana Nascita della tragedia. Sul rapporto arte-dolore, cfr. S. NATOLI, L’esperienza del dolore, Milano 1986, Feltrinelli, p. 82 e segg.

29) RILKE R. M., Alcesti, in Poesie, trad. it. di G. Pintor, Torino 1989, Einaudi, pp. 25-6.

30) Circa il legame fra speranza e disperazione, proponiamo un’osservazione di Rensi, che nel 1937 così scriveva: "la speranza è una forma di ragionamento, e più propriamente una forma di induzione […] un’induzione che da ciò che non è ricava che ciò che non è sarà, che da ciò che non accade ricava che ciò che non accade accadrà. Ed è un’induzione che procede in tal guisa con tanto maggior slancio e sicurezza, quanto più l’attuale non è, il presente non accade, è chiaro, indiscutibile, implacabile" (RENSI G., La filosofia dell’assurdo, Milano 1991, Adelphi, p. 32). Sul rapporto speranza/disperazione ci permettiamo di segnalare anche il nostro La fondazione debole, in "Paradigmi", n. 19, 1989, pp. 75-93, poi inserito in Le misure dell’uomo, op. cit.

31) A tal proposito, è potente la suggestione delle seguente riflessione di M. Sgalambro ( Anatol, Milano 1990, Adelphi, p. 138 ): "Ascolta, la tenera autocoscienza finisce quando proprio l’ultima domanda sul dolore ha avuto risposta e ormai se la ride. Ma, nello stesso tempo, è già appesa a un filo. E’, in effetti, l’ultima domanda di rilievo che fa un uomo prima di trasformarsi in belva. Senza questa domanda e la risposta, ancora umana, non apparirebbe ciò in cui scompare. Nell’ultima domanda sul dolore quest’ultimo è ancora presente, ma è il minimo indispensabile affinché, dopo la risposta, scompaiano entrambi. Ciò che resta è cosa da bestia feroce giunta al massimo di civiltà".

32) Sull’umanità di Cristo, cfr. ultra, n. 56.

33) Su come l’arte -– in particolare, l’arte dell’immagine – dia forma di bellezza al dolore, mi sembrano esemplari le pagine di Ceronetti G., Dolore-Tempo-Thanatos: la donna in tre immagini, in L’occhiale malinconico, Milano 1988, Adelphi. pp. 35- 61. Ceronetti considera una litografia -– Sorrow -- di Van Gogh, un’acquaforte – Donna accanto alla stufa – di Rembrandt, una fotografia di archivio della polizia presa all’obitorio di una città e raffigurante una prostituta assassinata.

34) MARX K., Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in Scritti politici giovanili, a cura di L. Firpo, Torino 1950, Einaudi, p. 404.

35) Sulla critica di Marx all’ateismo come atteggiamento intellettuale ed esistenziale ancora nostalgico di Dio, cfr. Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Roma 1977, Editori Riuniti, pp. 235.

36) Ivi, p. 229; ma è decisiva l’intera sezione intitolata Proprietà privata e comunismo.

37) MARX K., Il capitale, libro terzo, Roma 1980, Editori Riuniti, p. 933.

38) TROCKIJ L., Letteratura e rivoluzione, trad. it. di V. Strada, Torino 1974, Einaudi, p. 226.

39) Ivi, p. 217, corsivo nostro.

40) LUKACS G., Ontologia dell’essere sociale, trad. it. di A. Scarponi, Roma 1976, Editori Riuniti, vol. I, . 77.

41) "Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione", scrive Marx nella stessa pagina dove appare il "regno della libertà". Cfr. supra, n. 36.

42) In una prospettiva marxista e, più in generale, radicalmente laica, la sofferenza non può non avere il senso produttivo di stimolo ad affrontare più efficacemente i limiti della condizione umana. Questa è la posizione espressa con grande rigore da Zanardo nel suo intervento al Convegno Nazionale di Matera; cfr. ZANARDO A., La sofferenza: senso del limite e occasione, in Filosofia del dolore, op. cit., pp. 57-68. E’ superfluo notare come la concezione laico-marxista del dolore finisca col coincidere con quella hegeliana, qualora le si intenda entrambe sotto il segno della dialettica come produttiva pedagogia del negativo. A tal proposito, giova ricordare una lontana opera del 1936, nella quale si distinguevano, a proposito del male, e, quindi, anche del dolore, due concezioni fondamentali: quella dialettica, sopra descritta e quella agonica, tipica dell’umanesimo cristiano, che scorge nel male qualcosa di reale, ma da contrastare, da vincere. Cfr. LAZZARINI R., Il male nel pensiero moderno. Le due vie della liberazione, Napoli 1936; abbiamo trovato notizia e commento di quest’opera in ROGNINI G., Metafisica e sofferenza. Un itinerario critico con Italo Mancini, Verona 1983, Casa Editrice Mazziana, p. 85 e segg.

43) Cfr. 101 storie di Zen, trad. it. A. Motti, Milano 1989, Adelphi, p. 13.

44) Sulla difficoltà della filosofia a pensare il male, il dolore e sulla necessità di ricorrere al mito, "nel senso profondo e intenso del termine, cioè nell’arte e nella religione […], cfr. PAREYSON L., op. cit., p. 11 e segg.

45) Cfr. CROCE B., Breviario di estetica, Bari 1974, Laterza, pp. 11-2. Croce scrive anche che "col vantaggio della maggiore intensità, le domande e le risposte del filosofo recano con sé anche il pericolo del maggiore errore, e sono di frequente viziate da una sorta di mancanza di buon senso, che, in quanto appartiene ad una sfera superiore di cultura, ha, pur nella sua riprovevolezza, un carattere aristocratico, oggetto non solo di sdegni e di dileggi, ma anche di segreta ammirazione e d’invidia".

46) WITTGENSTEIN L., Tractatus logico-philosophicus, trad. it. di A. G. Conte, Torino 1974, Einaudi, prop. 6.521, p. 81.

47) Silenzio che si fa estremo nella teologia della "morte di Dio", nella quale si rinuncia definitivamente a dare risposta alla domanda sul male: "Se Gesù si poteva domandare se non era stato abbandonato da Dio, dovremo essere rimproverati noi, se non lo facciamo?" (HAMILTON W., La nuova essenza del cristianesimo, 1961).

48) Cfr. NIETZSCHE F., La gaja scienza, trad. it. di F. Masini, Milano 1986, Adelphi, § 125. L’uomo folle, pp. 129-30.

49) Sulla crisi dell’idea di progresso, cfr. SASSO G., Tramonto di un mito. L’idea di "progresso" fra Ottocento e Novecento, Bologna 1984, il Mulino.

50) NIETZSCHE F., op. cit., ibidem.

51) DOSTOEVSKIJ F., I fratelli Karamazov, trad. it. di A. Polledro, Milano 1974, Garzanti, p. 261. La medesima logica giustificazionista porterebbe a retrocede fino al peccato originale. A tal proposito, Rognini così scrive: "La risposte tradizionali [alla sofferenza] si basarono sull’aspetto pedagogico del dolore, ripresa dell’antico tema della prova iniziatica, sul seme divino che è nell’uomo come promessa d’un altro regno (l’orfica anima prigioniera); ma quella principale, nell’ambito dell’Occidente, fu il peccato originale: la moralizzazione della sofferenza" ( op. cit., p. 92).

52) Ibidem.

53) Ivi, p. 267.

54) Ivi, p. 268.

55) Ivi, p. 270.

56) Qui è il mistero di Cristo: è un uomo che soffre ed è un Dio che comprende – come a nessun uomo è concesso – il senso della sofferenza. Qui il nostro sapere può soltanto intendere Cristo come Altro.

57) PLATONE, Apologia di Socrate, in Dialoghi filosofici, vol. I, a cura di G. Cambano, Torino 1970, p. 81.

58) SOFOCLE, Edipo re, in Le Tragedie, trad. it. di M. Valgimigli, Firenze 1989, Sansoni, p. 185.