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Comunicazione Filosofica n. 5 - maggio 1999

 

Armando Girotti

ALCUNI NODI PROBLEMATICI NELLA ISTITUENDA SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE

 

Dal prossimo anno accademico verrà attivata, a carattere regionale, presso alcune Università la scuola di specializzazione - prevista da una normativa a più riprese modificata - che abiliterà all’insegnamento le nuove leve di insegnanti della secondaria; si sta assistendo alla nascita, nel luogo più idoneo allo scopo, della professionalizzazione della funzione docente, fino ad oggi lasciata alla libera iniziativa di chi, con ‘buona volontà’, si accingeva per proprio conto a "provare e riprovare" (sbagliando, quindi, e risbagliando) su scolari ignari. Non si abbandonerà più quindi, da oggi, il neolaureato sulla strada dell’insegnamento, rivestito di un solido bagaglio culturale, ma nudo per quanto concerne l’approccio metodologico-didattico; sarà l’università ora a doversi prendere cura della formazione iniziale del futuro docente, avviandolo, accanto ad una preparazione contenutistico-disciplinare, da raggiungersi attraverso la chiarificazione dei fondamenti disciplinari, ad un’attività pratica, da compiersi, in forma simulata nei laboratori e in forma concreta nei tirocini. L’attenzione prestata alla preparazione da acquisirsi su tre livelli mostra, oltre alla volontà del legislatore di mettersi al passo con questa benedetta Europa di cui tanto si discute, anche la nascita di una nuova mentalità attenta alla formazione di una precisa competenza professionale dei futuri insegnanti. Sembra essersi conclusa l’epoca in cui bastava conoscere i contenuti della disciplina per essere considerati adatti all’insegnamento; l’importanza della formazione iniziale, fino ad oggi mai presa in considerazione dal punto di vista della preparazione didattica, ha fatto breccia in una mentalità che riteneva la sola conoscenza dei contenuti come sinonimo di capacità didattica; questo dato, che emergeva non solo in ambito di corso di laurea, ma anche a livello concorsuale - quando erano sondate quasi esclusivamente le conoscenze disciplinari contenutistiche escludendo dalla valutazione quelle competenze didattiche che fanno la differenza nell’attività scolastica quotidiana - sembra essere stato cancellato; per troppi anni si sono mandati in cattedra docenti giudicati esclusivamente sulla padronanza di contenuti senza che fossero vagliate le loro capacità metodologico-didattiche; d’altra parte queste capacità non potevano essere valutate in quanto mai insegnate all’interno della struttura universitaria se non dai pedagogisti, che non potevano essere considerati adatti per tutte le didattiche disciplinari, a scanso di essere incolpati di ‘tuttologia’. Occorre non solo sapere ciò che si insegna, ma occorre anche saper insegnare ciò che si insegna; la differenza sta tutta qui; è necessario acquisire una metodologia che abitui a poter trasmettere nel miglior dei modi i vari contenuti disciplinari; occorre, cioè, sviluppare competenze didattiche che la sola conoscenza disciplinare non può dare.

Non è detto, però, che tutti gli indirizzi della scuola di specializzazione vengano attivati in ogni ateneo, per cui in alcune aree geografiche saranno presenti alcuni filoni di abilitazioni che in altre saranno assenti. Mi sembra che a questa distribuzione sottostia una logica identica a quella che regge i recentissimi bandi dei concorsi a cattedre; infatti, per l’acquisizione delle singole abilitazioni o delle cattedre di ruolo è stato previsto un numero di posti ristretto alla disponibilità di sedi nella singola regione. Se la restrizione, come si evince dalla 341/90, nasce da un ‘accordo’ tra università ed enti locali, gli ordinamenti didattici specifici, secondo la legge 127/97 che detta disposizioni in materia di autonomia delle università, dovranno invece essere adottati dai singoli atenei, tenuti in debito conto i suggerimenti e le osservazioni provenienti dal mondo scolastico, dalle apposite commissioni interne e dalla commissione mista MPI-MURST, come vuole l’art. 4 della legge 168/89. Le coordinate circa l’obiettivo formativo sono invece precisate da un recente decreto ministeriale, quello del 26/5/98 pubblicato in G.U. n.° 153 del 3/7/98; esse consistono nello sviluppo di quelle attitudini e competenze che caratterizzano il profilo professionale dell'insegnante. Le caratteristiche di questa complessa figura di docente emergono dall’allegato del D.M., che, accanto alla preparazione disciplinare, prevede l’acquisizione di un atteggiamento aperto alla pedagogia, alla psicologia dell’età evolutiva, nonché di una capacità non indifferente di progettazione curriculare, di programmazione di percorsi, di organizzazione di tempi e modi, di gestione sia della comunicazione sia dell’interazione tra studenti, di promozione innovativa dello stesso insegnamento, di valutazione e verifica attraverso i più aggiornati strumenti docimologici nella consapevolezza del proprio ruolo sociale e della necessità di un continuo sviluppo e approfondimento delle proprie competenze e conoscenze. Non si tratta di un universo in pillole, come sembrerebbe da una prima lettura, ma dell’acquisizione di un certo modo di essere; certamente non tutte queste finalità potranno essere raggiunte nel corso dei due anni di iscrizione alla scuola di specializzazione, ma importante è che l’obiettivo formativo venga esplicitato e manifestato a chi si immette nella via dell’insegnamento. Detto obiettivo, formulato in maniera generale nell’allegato della legge, dovrà in seguito essere calato all’interno degli ordinamenti didattici particolari e quindi essere specificato in termini disciplinari partendo da alcuni contenuti minimi qualificanti necessari al conseguimento delle previste finalità; questi dovranno essere cadenzati su tre livelli, sulla funzione docente (con previsione di attività didattiche sia disciplinari sia transdisciplinari o trasversali, attente alla metodologia didattica da applicare, alla genesi e allo sviluppo storico di ogni sapere, alla logica interna e alle implicazioni epistemologiche della disciplina, al suo significato pratico e alla sua funzione sociale), sul laboratorio e sul tirocinio.

La nascita di una scuola di specializzazione abilitante segna l’ingresso di una innovazione di grande portata in quanto sostituisce i vecchi esami di abilitazione, eminentemente contenutistico-nozionistici, con un corso biennale più attento alla formazione metodologico-disciplinare, più impegnato sul fronte dell’acquisizione di atteggiamenti e comportamenti fondamentali nella professione docente, più concentrato sullo sviluppo di una mentalità aperta alla ricerca costante delle innovazioni inerenti il campo professionale didattico. Se in precedenza si era dato per scontato tale conseguimento attraverso la pratica quotidiana fatta di prove in corpore vili (cosa che ha declassato la didattica a praticantato) ora, finalmente, si rivaluta la loro acquisizione in un ambito anche teorico-pratico.

Non si creda, però che siano stati risolti tutti i nodi perché molti non sembrano neppure essere stati percepiti nella loro problematicità. Uno di questi è, ad esempio, la contrazione del numero dei posti da assegnare a possibili frequentanti, da concordarsi tra università ed enti locali. In effetti è più scelta politica che formativa: si intende calmierare il numero dei futuri docenti per evitare l’insorgenza del precariato, piaga nata dalla incapacità dei nostri governanti che dal 1990 ad oggi non hanno trovato il tempo di bandire i concorsi a cattedre, come la legge, invece, prevedeva; si giunge così alla soglia del 2000 con un bacino di precari che, messi in ruolo, toglieranno ai nuovi laureati l’accesso all’insegnamento per i prossimi anni. Se nell’ultimo decennio, invece di creare un bacino di precari, si fosse ottemperato a quanto prevedeva la legge, la scuola italiana ne avrebbe avuto un vantaggio ed oggi non metteremmo due gruppi di giovani uno contro l’altro. In seconda battuta, con la decisione di calmierare i posti per gli specializzandi, si fa assumere all’università una funzione che non le compete per istituzione, quella di propaggine esecutiva di una decisione politica funzionale al posto di lavoro. Se da una parte sembra che questa decisione sia vantaggiosa, in quanto razionalizza le due componenti implicate nel posto di lavoro e cioè forze che aspirano all’occupazione e impiego, dall’altra essa cozza con la finalità dell’università che è sempre stata quella di formare chiunque desideri acquisire una professionalità. E se il numero chiuso è entrato in alcune Facoltà, ciò è accaduto perché le forze dell’ateneo erano insufficienti per far fronte alla marea di studenti che, iscritti al primo anno, poi avrebbero abbandonato gli studi; ma partorire il numero chiuso attraverso un accordo preso in funzione della occupazione è contro la mentalità che ha retto fino ad ora la formazione universitaria. La smania che ci porta a copiare società orientali, poco attente alla formazione della persona ma molto interessate alla preparazione di un lavoratore per un determinato posto di lavoro, ci porterà ad esiti poco proficui; per non parlare del meccanismo di accesso a questa scuola, tutto da inventare, e magari con le famose crocette dei quiz! Si rischia di non ammettere al corso né Dante, né Petrarca, né Boccaccio, o perché i posti disponibili sono numericamente ristretti o perché costoro non sono adatti a rispondere a domande poste con dei quiz.

Un secondo problema sembra non essere stato percepito dal legislatore nel momento in cui ha legiferato intorno alle scuole di specializzazione e riguarda la presenza del docente della superiore che, pur entrando nel collegio dei docenti di detta scuola, è però ancora una figura ibrida. In effetti, aver pensato ad un responsabile del tirocinio proveniente dal mondo della scuola secondaria, dimostra sì che è stato aperto uno spiraglio nella collaborazione tra due mondi culturali, ma pure che la sua utilizzazione è stata progettata più da una mentalità di tipo schiavistico nella quale sopravvive la presunzione che esistano ancora due tipi di uomini, i paria e i nobili. La normativa, infatti, mentre offre al docente della superiore la possibilità di essere esonerato dal 50%, pari a nove ore, del suo impegno di cattedra, contemporaneamente lo utilizza presso l’università; chiunque penserebbe che tale compito dovrebbe essere svolto per l’altro 50% delle ore del suo orario di cattedra; non è così; gli si chiede un impegno che andrà fino a 36 ore settimanali, esattamente il doppio di quanto normalmente costui è impegnato nella sua funzione docente; in cambio che cosa gli si offre? Una prebenda? No di certo! La mentalità del legislatore ha generato una figura più vicina al ‘galoppino’ da utilizzare per chissà quali mansioni che ad un docente con una sua professionalità; forse che l’impegno al quale lo si è chiamato non ha una grande valenza? Se si valutasse nella giusta misura questo compito, pensando alla professionalità acquisita da costui nel corso della sua vita scolastica, si valuterebbe nella giusta misura la sua presenza nella preparazione degli specializzandi; assegnandogli invece un numero di ore uguale, se non superiore, al personale non docente lo si relega ad una funzione secondaria, esecutiva e non di concetto. Costui, invece, ha una specificità propria con la quale può ben integrare le competenze accademiche; la sua professionalità non è sinonimo solo di esperienza vissuta, ma spesso di riflessione critica su ciò che è stato chiamato ad insegnare, di indagine analitica sul soggetto dell’educazione, sui suoi ritmi di apprendimento e sulla disciplina oggetto del sapere, nonché di studio delle possibilità di trasferimento dei contenuti disciplinari ad un particolare uditorio fatto di giovani, inseriti in un certo contesto che sempre più muta, anno dopo anno. Conoscere i contenuti disciplinari non basta, occorre riflettere sulle finalità e sugli obiettivi di questo insegnamento, sapere quali cadenze attuare nella scansione temporale del programma, con quali approcci e con quali esercitazioni attivare l’attenzione degli studenti; se si pensa che queste qualità professionali, queste competenze metodologico disciplinari, non siano in possesso del docente tirocinatore, ritenendolo una figura di secondo piano da aggregare al personale esecutivo, ebbene, si è compiuto un madornale errore e si è persa una nuova occasione. Occorre studiare un modo per far interagire tutte le figure che sono chiamate a preparare lo specializzando, occorre pensare che, se la finalità è unica, le azioni vanno coordinate, pianificate, strutturate insieme, in modo tale che ogni figura abbia un suo ruolo nel rispetto delle competenze di ognuno. Evidentemente il legislatore ha ancora una mentalità legata ad una arroganza che separa così nettamente il docente della superiore, praticone e poco aperto alla ricerca didattica, dal docente accademico, capace di insegnare tutto e per nulla bisognoso di figure così secondarie che possono ben lavorare 36 ore settimanali. Credo occorra abbandonare questa altezzosità che a livello accademico non esiste mentre ancora, purtroppo, emerge da normative poco attente alle competenze che devono giocarsi la loro specificità nel tavolo comune della formazione iniziale del futuro docente; tale formazione sempre più si realizzerà quanto più la professionalità delle figure che a questa preparano saranno valorizzate, quanto più le risorse culturali diverse e le competenze specifiche differenti sapranno mettersi in gioco. Occorre aprirsi ad una mentalità che operi quell’aggancio definitivo tra i due livelli di competenza. Teoria e prassi che sembravano oggi, con queste scuole di specializzazione, trovare una coniugazione corretta, hanno ancora bisogno di correzioni normative per aprire la via all’intreccio tra mondo della scuola secondaria e mondo universitario, fino ad oggi troppo slegati, ed ancora non del tutto intersecantesi.