Torna al sommario di Comunicazione Filosofica

Comunicazione Filosofica n. 13 aprile 2004

 

L’insegnamento della filosofia in Italia: nuove teorie e nuove pratiche

alcune riflessioni a margine del convegno della SFI

 

Armando Girotti

 

Nei giorni 27-29 novembre 2003, a dieci anni da quello di Treviso, si è tenuto il Convegno nazionale sull’Insegnamento della filosofia in Italia. Come allora i lavori si sono svolti con relazioni (al mattino) e attività seminariali (al pomeriggio).

Sotto la presidenza di Vincenza Celluprica del CNR, ha aperto i lavori il Presidente della SFI, Luciano Malusa, sottolineando la rilevanza dell'attuale tema del Convegno dedicato ai problemi concernenti la didattica della filosofia anche in riferimento alla sua ricaduta nella vita e nelle scelte dei giovani.

Questa iniziativa, coordinata dalla sezione romana della SFI, richiama alla mente il XXIII Congresso, svoltosi nel ’71, il cui centro di discussione era ancora una volta il problema dell'insegnamento della filosofia. Molta strada da allora si è fatta, sia all'interno della SFI, con la istituzione della Commissione didattica, sia all'esterno, vuoi con i protocolli di intesa tra Società Filosofica e Ministero, vuoi per le scelte di alcune università col dar vita a corsi di Metodologia e didattica della filosofia, con esiti positivi.

Il Presidente del Senato, Marcello Pera, ospite del consesso filosofico in quanto docente di filosofia della scienza, nel porgere il benvenuto agli astanti, ha rinvenuto l’importanza della figura del docente di filosofia soprattutto nella sua funzione ricercatrice; proprio attivandosi in questo impegno il filosofo si incontra con i valori e, nel mettere a nudo i disvalori striscianti, ha il dovere di additare una via alla società odierna al fine di evitarle la caduta nel relativismo, quanto mai inopportuno, specialmente per il filosofo che deve assumersi il ruolo di investigatore della verità. Il pericolo che si correrebbe con la sottovalutazione del relativismo sarebbe costituito dallo spazio che si aprirebbe per quegli “icsos” cui si riferì Benedetto Croce quando interpretò il fascismo come un'incomprensibile calata proprio di quei barbari. Gli “icsos” sono sempre pronti a sbucare non appena compaia un atteggiamento di debolezza del mondo culturale, impigrito dal relativismo valoriale. Pera, dunque, pungolando l’uditorio a non lasciarsi sommergere da questo atteggiamento perverso, consegna un messaggio agli astanti, tutti filosofi avvezzi al raziocinio: ricercare e contemporaneamente indicare la via per il mantenimento dei valori per la società d’oggi e per quella futura.

Giuseppe Bertagna, con la relazione su L’insegnamento della filosofia e riforma del secondo ciclo di istruzione e formazione ha chiarito i motivi per cui nella nuova riforma non si parla ancora dello spazio da attribuire all'insegnamento della filosofia. I lavori della Commissione Moratti (formata peraltro da 260 persone) non sono ancora giunti a questo grado di definizione dei problemi in quanto essa, preferendo invertire la tradizionale logica compositiva, ha stimato cosa migliore prima di tutto definire i problemi generali (di contesto e di significato) e solo in seconda battuta affrontare i problemi specifici, organizzativi e didattici, inerenti i singoli insegnamenti. Se finora nella progettazione di una riforma si è sempre partiti dal peso, dalla portata e dall’importanza delle discipline per poi giungere ad un loro assemblamento – con gli inevitabili conflitti dovuti alle scelte del tempo orario da dedicare ad ognuna di esse – nei lavori odierni si è innanzitutto definito il Profilo educativo, culturale e professionale dello studente in uscita e solo in seguito si entrerà nel vivo della discussione sulla determinazione del valore di ogni singola disciplina all’interno di questo profilo. Sul Profilo il relatore si è soffermato per precisare con dovizia di particolari quali siano le caratteristiche fondamentali richieste dagli otto licei previsti dalla riforma, classico, scientifico, delle scienze umane, linguistico, artistico, economico, tecnologico, musicale. La prima disillusione, per chi si attendeva un più preciso riferimento intorno allo spazio della filosofia nel secondo ciclo, era servita e per l’uditorio un altro amaro riscontro si stava preparando nella risposta al quesito su chi avesse avuto titolo per la docenza di tale disciplina, qualora fosse previsto un suo inserimento in istituti oggi non contemplati; tale possibilità non riguarderebbe più solo i docenti in possesso della classe di concorso specifica, ma sarebbe appannaggio anche di coloro che dovessero acquisire una non ben precisata preparazione filosofica; toccherebbe alle singole università farsi carico del problema. L’allargamento non consisterebbe, così, nella quantità di cattedre per i docenti di filosofia, ma nel numero di docenti filosoficamente aperti al sapere; in poche parole si dovrebbero formare all’università degli insegnanti polifunzionali che non afferirebbero più alle odierne classi concorsuali, ma ad una diversa ripartizione interdisciplinare. Al di là delle disillusioni dell’uditorio, un punto è stato chiarito: la filosofia cui si ispira il Documento della Commissione, sembra essere, vista la rivendicazione del concetto di "persona umana",  il personalismo, corrente molto attenta al rispetto delle potenzialità racchiuse nel soggetto che, in questo caso, va considerato all'interno della formazione scolastica. Soffermandosi su quest'ultima, il relatore mette in chiaro, allontanandosi dalla bipartizione di sistemi – liceale da una parte e tecnico-professionale dall'altra – che aveva animato la riforma Gentile, come in un sistema unitario abbiano pari dignità educativa e culturale tutti gli indirizzi, anche quelli che fino ad oggi sono stati sottovalutati, come ad esempio il "lavoro e le azioni umane che lo autorizzano". E così, rivendicando il carattere umanistico di tutte le attività professionali, scientifiche, tecnologiche, il relatore rapporta le tre categorie del sapere, del fare-e-agire, della riflessione critica alla razionalità teoretica, tecnica e pratica chiarite da Platone ed Aristotele quando, nel consacrare il paradigma culturale, hanno posto nella capacità critica il centro della crescita educativa. Ma per attuare questa capacità critica occorre che la categoria docente muti atteggiamento nei confronti della propria disciplina, connettendola alle altre con cui essa interagisce; perciò non è scorretta, a detta del relatore, la decisione di partire dal Profilo educativo, culturale e professionale per creare una nuova organizzazione normativa anche delle cattedre.

La relazione di Enrico Berti, La filosofia nel curricolo della scuola secondaria, richiamando quanto precisato dai 40 saggi sulla biforcazione dei contenuti della filosofia inerenti le questioni di ‘senso e valore’ e quelle di ‘verità’, ha evidenziato come con le prime si guardi ai problemi esistenziali, come oggi da più parti nella scuola si fa, con le seconde si vada, invece, diritti ai fondamenti epistemologici della filosofia, di quella che mira non solo a dare una spiegazione del modo di essere della persona, ma anche di quanto è proprio dell’uomo, di quella filosofia cioè che va alla ricerca di un punto fermo anche teoretico, oltre che pratico, cui agganciare quel ‘senso’ della vita. È vero che anche altre discipline trattano tali tematiche, ma se nell’affrontare i problemi di senso le letterature e la religione ad esempio puntano più sulla sfera dell’emotività o sulle credenze, con la filosofia si va oltre perché si cercano le motivazioni e le giustificazioni razionali di tali atteggiamenti (che cosa è bene, male, giusto, ingiusto, lecito, illecito) senza chiusure in risposte indagate solo per gruppi particolari; anzi i presupposti vengono analizzati da un punto di vista universale. I problemi di verità poi (che cosa significhi vero e falso, quando un ragionamento possa dirsi corretto, quale valore abbia la scienza) non sono appannaggio della sola filosofia; sono discussi anche dalle discipline scientifiche, le quali però hanno troppo spesso un uditorio di soli specialisti; la filosofia, invece, affrontando quei temi, ha come referente un pubblico più vasto e così, pensando di renderli accessibili a tutti, affinché siano controllabili nella loro consequenzialità, mentre li esamina, li rende virtualmente universalizzabili. In vista di questa doppia universalizzazione delle questioni di senso e valore e delle questioni di verità, conclude Berti, sarebbe giusto da una parte riconoscere a tutti i giovani il diritto di accedere alla filosofia, e questo lo si dovrebbe fare nella scuola, e dall’altra sarebbe corretto prevedere l’affidamento di tale insegnamento a docenti competenti, nonché dotati di formazione specifica.

Gregorio Piaia ha svolto una lezione magistrale, Centralità del testo e approccio preliminare, mostrando esemplarmente ciò che in pratica si può fare per illustrare, in maniera non manualistica ma interdisciplinare[1], quei modelli di pensiero che hanno dominato la cultura occidentale prima dell’avvento della nuova scienza sperimentale e della nuova filosofia. La relazione è risultata pregevole non solo dal punto di vista metodologico, quanto anche teorico poiché si è indicata, attraverso l'esempio, una via per oltrepassare quella vecchia diatriba legata alla polarità dell'insegnamento per problemi o secondo l'asse storico. L’avvio, a suo giudizio, dovrebbe coinvolgere la classe attorno ad un “problema partecipato” e la prosecuzione dovrebbe essere cadenzata sulla riflessione svolta nel corso della storia del pensiero attorno a questo problema, con il ricorso a documenti sia iconici sia linguistici, avendo cura di precisare le varie risposte filosofiche consegnate alla storia; la riflessione si concluderebbe poi con un ritorno al problema da riprendere in forma colloquiale con la scolaresca.

Su questa esemplificazione vorrei soffermarmi per mettere in evidenza come essa raccordi quei tre modelli di insegnamento (zetetico-storico-per problemi) su cui tanto si è dibattuto a cominciare dal ministro Amari fino ad oggi, cadendo troppo spesso in fraintendimenti che hanno travisato lo stesso motivo del contendere. Con metodo storico si è introdotto surrettiziamente, a volte, un riferimento che ci riporta alle Summulae o al manuale, al cosiddetto Sommario storico promosso dal ministro Fedele, la cui introduzione obbligatoria soppiantò la lettura delle opere filosofiche, avviando contemporaneamente gli insegnanti ad una mentalità pervasa di quel nozionismo manualistico dal quale stiamo uscendo con difficoltà ai nostri giorni; si è inteso cioè 'storico' nel senso di 'cronologico' per cui la sfilza da Talete in poi è stata scambiata come ‘metodo storico’. Non mi sembra che con quella accezione si volesse intendere propriamente questo restringimento ad imbuto del termine; forse, per capirci, sarebbe più corretto allora parlare di storicità o di contestualizzazione storica della risposta personale di un filosofo ad un problema sorto nel suo tempo o da lui stesso promosso come attività di ricerca, il che farebbe allora intendere meglio il significato e il valore dei termini ‘metodo storico’; e la lezione di Piaia ha mostrato propriamente tale congruità.

Ma esiste un fraintendimento anche quando si uniforma la locuzione ‘metodo per problemi’ all’espressione ‘metodo problematico’. Non mi sembra si possano porre sullo stesso piano le due terminologie in quanto se la prima indica un modello di insegnamento che propone un approccio alla filosofia analizzata nei suoi problemi, etico, gnoseologico, politico, ecc…, la dizione ‘metodo problematico’ va oltre, si insinua là dove nasce la stessa filosofia, cioè in uno dei suoi nuclei fondanti, nella problematizzazione. È chiaro che se viene sottratta questa possibilità all’insegnamento della filosofia cadono tutti i modelli, vuoi in un inconsistente apprendimento di vuoti problemi, vuoi in una dossografia. Confondere i due piani quasi che i termini problema e problematico siano dei sinonimi assimilabili ad un unico modello porta ad espropriare il modello storico della problematicità che invece, come nucleo fondante la filosofia, le appartiene; nessun modello può espungerla dal suo insegnamento, pena la caduta in una piatta esposizione; quindi associare metodo per problemi alla dizione metodo problematico significa, a mio giudizio, accomunare ciò che è proprio della sintassi epistemologica della disciplina a ciò che appartiene alla semantica, confondendo quindi ‘nuclei fondanti’ con ‘saperi essenziali’. Nessun modello si può appropriare della problematizzazione come caratteristica esclusiva, come linea di demarcazione tra il proprio e gli altrui modelli d’insegnamento; la problematizzazione, essendo parte integrante del filosofare, va ipotizzata come esistente in tutti i modelli e da nessuno può essere espunta pena la frantumazione del modello stesso; la problematizzazione, se si vuol insegnare filosofia, va fatta emergere sia che si insegni per problemi sia che lo si faccia secondo il modello storico; e Piaia questo ha dimostrato.

Anche con l'uso del termine ‘zetetico’ esiste un fraintendimento, e nella relazione di Franco Bianco, Per una rivisitazione del modello zetetico, lo si è potuto constatare quando, a distanza di un decennio dalla sua prima illustrazione[2], ha associato tout court tale modello al ‘metodo per problemi’ o al vago interesse che dovrebbe promuovere negli studenti la riflessione problematica. Se la promozione dell’interesse nascente dall'esplicitazione di un problema regge a livello di attività pratica, non è da confondere tale metodologia con il metodo zetetico promosso da Kant. Mi sembra che l’interpretazione datane dal relatore si sia allontanata alquanto dalla lezione del semestre invernale del 1765-66. Diceva allora Kant: “il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come solevano definirlo alcuni pensatori antichi (da zetein), ossia indagativo […]. Il metodo di riflettere con la propria testa su questo o quell’argomento e di trarne autonomamente le debite conclusioni è ciò che lo studente propriamente ricerca come qualcosa di immediatamente disponibile, ed è anche il solo che può essergli davvero utile. Anche l’autore filosofico, su cui si è deciso di impostare un ciclo di lezioni, non dev’essere trattato come un criterio assoluto di giudizio, ma solo come un’opportunità di giudicare anche di lui, e persino contro di lui. […] Da un insegnante ci si aspetterà che egli formi nel suo scolaro prima l’uomo intelligente, poi l’uomo ragionevole, e solo dopo l’uomo dotto. Un tale modo di procedere presenta l’innegabile vantaggio che, se pure lo studente assai di rado riesce a raggiungere l’ultimo grado, come ci mostra la comune esperienza, ciò nonostante egli ha avuto modo di approfittare dell’istruzione, ed è diventato più esperto ed assennato, se non per la scuola, senz’altro per la vita”[3]. Kant intendeva porre l’accento più sul metodo che sui contenuti disciplinari da cui iniziare; non si proponeva di entrare nel merito dei problemi dei giovani quanto invece di porsi sul piano di una riflessione critica metodologica; e non dava un'indicazione afferente al metodo per problemi; insegnare a filosofare significava per lui affrontare la filosofia non in termini di studio, ma di indagine problematizzante nella quale il prodotto – il filosofato – si identificava con il suo processo – il filosofare – qualunque fosse il punto di partenza dell’indagine. Non indicava un metodo se non un atteggiamento metodologico critico che invitava i docenti a “fare filosofia” con gli studenti, o meglio ad attivare negli studenti quell’atteggiamento della ragion critica che potesse sviluppare in loro un processo filosofico. La filosofia, infatti, per Kant non era sinonimo di contenuto, che non può essere universalmente dato, ma di attività in svolgimento, essa c’è solo nel suo farsi; essa è un’azione libera ed autonoma della ragione che invita a far esercizio di ragione; non si tratta di un esercizio di tipo sillogistico o di logica confutativa, ma di apertura ad un giudizio da sottomettere alla ragione; non come fece Coppino quando scelse ‘una’ filosofia, quella positivista, con la quale sottomettere alla ragione tutte le altre, ma con l’assunzione della ragione critica capace di smuovere le stesse premesse su cui potrebbe essersi fondata una qualsiasi certezza, soprattutto una propria. L’uguaglianza posta da Bianco tra modello zetetico e modello per problemi forse non coglie nel segno indicato da Kant perché può far imboccare una via diversa da quella propriamente additata dal filosofo, contrapponendo un sapere statico, rappresentato dalla storicità, ad un sapere in movimento, prodotto dai problemi dei giovani. Quando nell’Antropologia Kant indicava che non si può insegnare la filosofia, ma solo a filosofare, ci suggeriva non la centralità dei problemi, quanto quella del metodo critico indagativo; è a quello che occorre guardare, non alla sua riduzione ad un semplice risveglio di interesse o alla sua corrispondenza col metodo per problemi.

Mario De Pasquale, in qualità di direttore della Commissione didattica, si è soffermato sui Problemi attuali della ricerca in didattica della filosofia, cioè sui campi che coinvolgono non solo la razionalità dello studente, ma anche la sua formazione sociale, linguistica, iconica, emotiva, artistica, ecc.… Posto che la riflessione dell'insegnante dovrebbe essere attenta a favorire la pluralità di modi e di forme nell'insegnamento della filosofia, la relazione si è incentrata su tre problemi: sulle finalità (formazione del pensiero e formazione filosofica della persona), sui contenuti (che cosa insegnare nei nuovi curricoli di filosofia), sui metodi (come insegnare la filosofia). Per quanto riguarda il primo punto, la ricerca sembra oggi propendere verso una differenziazione tra il ‘filosofare’ e il ‘ragionare’, anche se è certo che “si apprende a ragionare attraverso una formazione filosofica”. Dato ciò, la ricerca sulla formazione della persona sembra indirizzare i docenti verso una “pratica di ricerca razionale” da svolgere con la classe attorno alle questioni di senso, di valore e di verità – messe in luce anche dalla relazione di Berti – al fine di una loro ricaduta nei contesti quotidiani riguardanti il lavoro, lo studio, nonché le relazioni interpersonali. Per quanto attiene il secondo punto, i contenuti, il relatore ha accennato ai criteri con cui la ricerca tenta di definire i nuovi curricoli di filosofia in modo da renderli sempre più rispondenti alle esigenze formative; a tal fine De Pasquale ha sottolineato la validità delle strategie di esplorazione e di dialogo riferite a quegli ambiti del sapere e dell’esperienza con cui la filosofia condivide i confini, senza per questo pensare di snaturare l’identità disciplinare, visto il rafforzamento delle potenzialità cognitive e formative cui questa offerta mira. Soffermandosi sul terzo problema, sui metodi, il relatore ha sottolineato come oggi non si intenda precisare 'un metodo' peculiare di insegnamento-apprendimento della filosofia, ma si tenda a riflettere su una forma generale di apprendimento del filosofare a partire dall’adagio “si apprende operando ricerca filosofica”, cioè saggiando se stessi mentre si affrontano i problemi reali. L’esperienza filosofica in questo modo diventa un’occasione di trasformazione mentale; lo studente infatti apprende a filosofare attraverso la partecipazione ad esperienze di filosofia svolte in una classe trasformata in comunità di ricerca filosofica, pronta ad interrogarsi su questioni filosofiche. Il relatore, rimarcando la necessità di valorizzare la pluralità di percorsi di ricerca e di strategie di pensiero, ha messo in evidenza come, oggi più di quanto non si facesse tempo addietro, si stimoli la creazione di condizioni favorevoli per lo sviluppo di una “mente a più dimensioni”; e le risorse sono plurime come codici diversi e linguaggi 'plurali', usati per abituare a mobilitare un'intelligenza elastica.

Nell'ultima mattinata ha relazionato Davide Bigalli, Dal ‘filosofo’ alla filosofia per tutti. Variazione di un’immagine, volgendo lo sguardo alla storia della filosofia, dove ha rintracciato le figure del filosofo e dell'insegnante. Nel pensiero di Gentile, posta la trasferibilità del sapere, esse si equivalgono; in effetti solo chi sa può comunicare, anzi il solo sapere diventa elemento distintivo che permette la sua trasmissibilità. Se per Gentile questa corrispondenza tra sapere e comunicazione della conoscenza poteva reggere in quanto per lui la filosofia la si sa quando la si fa, oggi non è più concepibile una tale armonia tra le due attività; oggi è mutato il modello del sapere tanto che, ponendolo in relazione con la spinta promossa dalla prassi odierna, ci si trova di fronte alla nuova immagine di filosofia che si apre a tutti; su questo quadro va innestata allora la proposta didattica odierna che, divergendo dalla filosofia neoidealistica, cerca nuove strade per porgere il sapere in modo meno dipendente da 'una' filosofia. Per di più se con Croce e Gentile il sapere filosofico giocava un ruolo dominante su quello scientifico, oggi l'industrializzazione, l'evoluzione economico-politica, l'incertezza della cornice nella quale inserire le professionalità specifiche, nonché la caduta delle ideologie pongono inevitabilmente nuovi interrogativi che non possono non evidenziare la nuova immagine di una filosofia che, perdendo la sua centralità, è diventata forse una semplice "aspirina spirituale" per tutti coloro che le si avvicinano. Sembra che la filosofia, nella relazione, assuma la configurazione di vuoto sussidio utile all'uomo al fine di non farlo crollare nel nichilismo, quasi essa abbia la semplice funzione di lenimento della delusione legata ad un tracollo terminale.

Per contro Mauro Di Giandomenico ha sviluppato un positivo quadro sul Ruolo sociale della filosofia, mostrando come il filosofo incida e possa tener desta l’attenzione per l'analisi dei valori anche in un mondo che è cambiato, e di molto, da quando la filosofia considerava le altre scienze come proprie ancelle. Se ci si guarda attorno, l'epoca contemporanea ci mostra quale sia la grande differenza tra la centralità della filosofia dell'epoca passata e quella delle scienze emergenti dell'oggi; la situazione sembra essersi rovesciata e se il ruolo centrale della filosofia oggi è stato acquisito dalle scienze e dalle tecniche, non è detto che si debba rinunciare alla riflessione filosofica o che si debba considerarla come un sedativo; anzi, sono i nuovi saperi a porre nuove domande alla filosofia tanto da farle rivedere il suo stesso ruolo consolidato dalle filosofie neoidealistiche. Se si pensa, ad esempio, alle tecnologie legate al bios o a quelle legate al mondo informatico e virtuale, si comprende quanto sia importante che la filosofia ponga la domanda – essenziale per la sua stessa esistenza – della propria funzione. Se con Gentile era sembrato che fosse compito precipuo della filosofia certificare o meno il valore delle scienze, oggi essa, tralasciando questa responsabilità che non le compete, può ben assumere un ruolo sociale, fornendo all'uomo contemporaneo gli strumenti atti a dare nuove risposte alle domande pressanti, entrando quindi nel campo antropologico, logico, etico, risposte tutte funzionali all'uomo dell'oggi.

Anna Escher Di Stefano ha trattato il tema che va dalla Filosofia verità alla crisi dell’insegnamento e, soffermandosi molto sulla prima parte del contenuto, ha affrontato il concetto teorico di verità alla luce del pensiero gentiliano; in questo ha riscontrato la guida per le generazioni di insegnanti che si sono avvicendate nel corso di buona parte del secolo andato, avendo "la stagione dell'idealismo – nel bene e nel male – adempiuto un suo ruolo nella formazione del cittadino e nella costruzione di una cultura nazionale". Posto che col dopoguerra e con la crisi dell'idealismo sia comparsa l'idea della crisi della filosofia, la domanda che occorre farci oggi è se ora, visto che la scuola si sta modificando, sia da ricercarsi un nuovo punto di riferimento oppure si debbano lasciare liberi i docenti di seguire strade difformi, senza l'appoggio di una filosofia forte che regga le loro scelte. Coll'avvento del postmoderno si è inserita l'idea di una ragione plurale, in chiaroscuro, anche nella scuola; una ragione discontinua ha preso il posto della ragione unitaria e compatta dei cosiddetti modelli classici di pensiero; in questo contesto la nuova ragione è più sensibile ad un reale a più livelli, stratificato, frammentato che ad uno compatto, coeso, armonico e perciò è propensa a considerare quel reale come fosse frazionato invece di immaginarlo unitario; perciò, attraverso queste lenti, lo legge quasi non-più-componibile. Data questa situazione e posto che il valore della filosofia consista nel dare senso alle cose, significandole a partire dalla domanda che l'io pone al mondo, la scuola ha il dovere di far scaturire queste domande di verità, invitando l'io dell'uomo a farsi soggetto inquirente, cioè a farsi soggetto e oggetto del domandare. Sempre centrale deve rimanere il ruolo del soggetto che ha l'obbligo, oltre che la libertà, di ritagliarsi uno spazio per il proprio cammino per cui nella scuola non serve insegnare "un modo di guardare il mondo", alla Rorty per intenderci, ma occorre insegnare a costruirsi quel mondo che noi tutti siamo, l'io.

Erano stati invitati come esponenti di altre associazioni Mario Trombino, Presidente di ‘Athena-forum per la filosofia’, organismo che si interessa esclusivamente di didattica della filosofia (che ha relazionato sugli scopi del fare filosofia in classe) e Gérard Malkassian per l’Associazione francese ACIREPH (che ha partecipato alla sessione pomeridiana di lavoro sul testo filosofico condotto da Anna Bianchi). Trombino ha esposto come tale associazione non si ponga in alternativa alla SFI, anzi debba essere vissuta come sodalizio collaboratore nella formazione dei docenti in quanto si interesserebbe di settori cui la SFI non è chiamata per statuto. Lo scopo formativo intende soddisfarlo attraverso un impegno da svolgersi sia nella scuola sia nel mondo del lavoro con progetti di ricerca e di formazione in settori di iniziativa quali la formazione professionale, l'editoria, l'allargamento della filosofia a tutti. Al suo attivo ha già un passato, essendosi impegnata in corsi di formazione (di cui si trova traccia nella home page del suo sito www.athenaforum.org), e nel presente si sta adoprando nella strutturazione di un Dizionario di didattica della filosofia (repertorio che a tutt'oggi non esiste né in forma cartacea né telematica) nonché nella schedatura e catalogazione di articoli specifici sulla didattica della filosofia. Da ultimo il relatore ha ricordato come tale associazione abbia rivitalizzato la rivista "Insegnare filosofia oggi" mantenendo gli stessi intenti di formazione previsti nella precedente, considerata anche la presenza nella redazione dello stesso gruppo di docenti.

Alle relazioni mattutine sono seguiti quattro laboratori-seminari, risultati di interessante attualità e metodologicamente importanti in quanto hanno permesso prima l’analisi sfaccettata delle ultime proposte didattiche, poi una riflessione sulle stesse, animata da diversi contributi e da vivaci dibattiti.

Il gruppo di lavoro condotto da Fulvio Cesare Manara ha trattato il tema delle Tecnologie informatiche nella didattica della filosofia; con l’occasione sono state presentate due esperienze, una multimediale condotta da Emidio Spinelli, basata sulla costruzione di un ipertesto semantico, a partire dal volume I presocratici edito da Laterza con prefazione di Giannantoni, ed una su ‘cinema e filosofia’ presentata da Carla Poncina ed Eddy Carli. Con l'ipertesto si è mostrato come si possa fare ricerca filologica in filosofia per mezzo della tecnologia, con la quale i giovani hanno maggior dimestichezza dei loro insegnanti. La ricerca può partire da qualsiasi proposizione o da qualsivoglia termine in quanto i links rimandano, con dovizia di particolari, all'uso e ai vari significati di quel lessico. Con la comunicazione su Proiettare la filosofia si è inteso allargare il concetto di filosofia al di là dell'attività propria dello spirito per immergerla nel concreto agire esistenziale. I due esempi introdotti, la domanda sulla felicità a partire da Mary Poppins e la complessità del rapporto tra illusione-realtà e mente-corpo a partire da Matrix, richiamandosi allo stupore e alla meraviglia da cui parte l'interrogarsi filosofico, hanno messo in evidenza come anche nella cinematografia ciò non venga trascurato. Le immagini, fissandosi in un tempo sospeso, divengono in molti casi simboliche ed emblematiche di particolari situazioni esistenziali; questa condizione induce lo stupore filosofico che invita a porre domande sul senso del proprio vivere. Quelle vicende non sono di certo la rappresentazione della realtà storica, né pretendono di esserlo, anzi simboleggiano lo scorrere quotidiano della vita; perciò, dando credito all'Aristotele della Poetica per il quale la tragedia è più filosofica – philosophoteron – della storia, in quanto dotata di maggior universalità, si può ben interpretare il film alla stregua della pièce teatrale greca e quindi pensarlo come racchiudente più varietà veridica di quanto non sia racchiusa nella fedele realtà effettuale. La possibile relazione tra cinema e filosofia, dunque, va colta nella natura stessa del mezzo, cioè nella sua capacità di stupire, nella fecondità mitopoietica senza trascurare il fatto che oltretutto può ben la cinematografia essere considerata come un grande sistema di produzione del nostro pensare collettivo.

Il gruppo di lavoro condotto da Anna Sgherri Costantini, Dalla scuola attiva all'istruzione, si è attestato sul fronte dell’evoluzione dell'aggiornamento avvenuto negli ultimi anni, i cui punti nodali riguardavano principalmente l’impianto organizzativo e metodologico dell’insegnamento filosofico, i criteri di selezione dei contenuti, gli spazi di facoltatività e di opzionalità. L'intenzione della coordinatrice, di analizzare e catalogare le proposte di aggiornamento formativo maturate nella scuola militante, ha avuto riscontro positivo in quanto i partecipanti hanno contribuito a mettere a confronto varie esperienze richiamantesi al ruolo della filosofia nei confronti delle altre discipline, degli altri saperi, delle scienze. Non sono mancati anche interventi a chiarimento della formazione della classe docente nei confronti del possibile trasferimento di tale insegnamento nei luoghi ancora non previsti per tale disciplina, cioè nella scuola dell'obbligo; a tal riguardo i corsi di formazione dovrebbero interessare sia l'aspetto metodologico sia quello epistemologico, nonché l'uso delle nuove tecnologie a sostegno della prassi odierna legata al documento scritto.

Nel gruppo di lavoro coordinato da Anna Bianchi su Funzione, valore e utilizzo del testo filosofico nell’insegnamento la conduttrice ha invitato ad una ripresa della riflessione intorno alla centralità o meno della lettura del documento testuale dei filosofi. Due tendenze sembrano essere presenti, quella sottolineata dal saggio di Domenico Massaro[4] e l’altra legata alla riflessione di Allotto-Trolli[5]; dieci anni le separano e, mentre la prima consente di ricostruire il modello didattico complessivo progettato dalla Commissione Brocca come orizzonte di riferimento per ‘fare filosofia’ attraverso i testi, il secondo è una severa critica al ‘dogma della centralità del testo’ che dia per scontate quelle capacità che invece dovrebbero essere acquisite nel ‘fare filosofia con il metodo critico-argomentativo’. Se i programmi d'esame della riforma Gentile avevano abbandonato la prospettiva legata all'utilizzo del manuale come fonte primaria dell'insegnamento e avevano comunque assunto il metodo storico come itinerario didattico, con i Programmi Brocca si è superata l'alternativa tra metodo storico e metodo per problemi in quanto la lettura del documento filosofico ha costretto, i docenti prima e gli studenti poi, a confrontarsi con i problemi discussi dal filosofo; ma siccome tali problemi non potevano essere estrapolati dal contesto nel quale agiva il pensatore in questione, l'uso del testo, così come era visto dal progetto Brocca, ha permesso di superare quella doppia opzione, facendo risaltare sia la tradizione di pensiero sia il contesto storico dal quale tale problema era sorto. Un primo risvolto positivo di questa centralità è stato messo in luce dal dibattito che ha sottolineato il crescente interesse per la scrittura filosofica in classe. Tale produzione, infatti, ha costretto gli studenti al rigore nell'uso del linguaggio specifico, nella precisazione dei concetti, nell'elaborazione delle argomentazioni; e non sono rimasti insensibili né il Ministero, che ha incluso tra le tracce della prima prova scritta all'esame di Stato il 'saggio breve', né la SFI che, sponsorizzando le Olimpiadi di filosofia, premia i migliori componimenti degli studenti a livello nazionale. Il problema, dunque, è sembrato non consistere tanto nell'uso del testo quanto nella scelta delle opere o dei passi da consegnare all'attività didattica per cui l'esigenza sentita dai partecipanti si è concretizzata nella richiesta di circolazione e diffusione delle esperienze di scrittura filosofica realizzate nelle scuole.

Il quarto gruppo di lavoro condotto da Armando Girotti si è interessato della Formazione iniziale e in servizio del docente di filosofia. Oggi la formazione iniziale, se si pensa alla legislazione vigente, può ben essere definita come formazione in ingresso; in effetti, dando credito alla normativa, che anni addietro ha aperto ai futuri insegnanti la possibilità di frequentare le Scuole di Specializzazione per gli Insegnanti della Secondaria (le SSIS), solo coloro che avessero acquisito tale titolo avrebbero potuto accedere ai concorsi a cattedra. Che cosa succedeva negli anni ’80 circa la formazione in ingresso? Ogni docente, gettato nella mischia dell’insegnamento da un titolo (fosse esso la semplice laurea, o la specialistica abilitazione, oppure il professionistico titolo conseguito nei concorsi a cattedra), si trovava sfornito di qualsiasi preparazione metodologica derivante da una riflessione teorica e così si formava sul campo a seguito di “prove ed errori[6]; oggi non si intende lasciare all’inventiva del neolaureato o del neoabilitato tale prerogativa, ma si esige che da chi ha il dovere di formare le giovani leve venga data un’effettiva preparazione metodologica e didattica per quanto attiene sia il campo teoretico sia quello pratico (inserendovi pure il tirocinio guidato). Resta però aperto un problema col quale si è obbligati a commisurarsi, se sia corretto pensare ad 'un' modello unico di formazione iniziale – e quindi se basti progettare uno standard cui conformare il neolaureato – oppure se non sia più conveniente caldeggiare un’operazione diversa, più a vasto raggio, rivolta alla promozione di un’autoconsapevolezza critica.

Per quanto concerne la formazione in servizio, se un tempo era il modello deduttivista a regolare la formazione in servizio, lasciando al singolo docente la scelta dei corsi di aggiornamento da seguire – che a proporli fosse l’università o un altro soggetto a ciò costituito – dalla fine degli anni ’90 il modello relazionale ha preso il posto di quello deduttivista. La diversità non sta solo nel nome, deduttivista o relazionale, ma riguarda principalmente il fatto che con il primo si apprendeva dall’esterno in funzione dell’interesse del singolo docente, col secondo dall’interno in funzione delle scelte del singolo istituto al quale si chiede di mettere in gioco non solo le sue capacità di progettazione nel diventare fonte di sapere, ma anche quelle di programmazione delle risorse a vantaggio dei suoi docenti in servizio.

Oggi più che mai la proposta di una formazione che si avvalga del modello relazionale potrebbe essere attuata anche all’interno della contestata riforma delle pensioni, con la quale si prevede che il lavoratore (sembra anche quello statale) possa rimanere al suo posto anche dopo il raggiungimento dell’età pensionabile. Se il progetto governativo presuppone un vantaggio economico da parte dello stato ed uno svantaggio per i soliti docenti in attesa di posto – che si troverebbero ad aspettare ancora degli anni prima di entrare in servizio definitivo – perché non "riutilizzare", si è chiesto il relatore, quel personale, in possesso di una professionalità acquisita sul campo con tanti anni di servizio, e magari nobilitata da una riflessione teoretica sulla metodologia didattica disciplinare specifica? Perché non prevedere per questo docente un tutoraggio a vantaggio delle nuove generazioni? Questa ‘dinamica circolare’ di tipo miglioristico, quasi spirale sempre aperta, potrebbe originare una riflessione sul valore delle pratiche e sulla funzione della rete educativa. Quel che manca al corpo docente, oggi come ieri, non è tanto la ricerca, molti la fanno, ma l’agevolazione da parte del datore di lavoro che non ha mai favorito, né favorisce oggi e neppure concede visibilità a questa ricerca; e così l'elevazione a teoresi viene ancora una volta compiuta solo grazie alla buona volontà del singolo. Questa apertura, dalla quale ogni ministero si è sempre defilato, che sia possibile? Visione futura? No, solo futuribile, forse utopica, ma non assurda per chi avesse in animo il miglioramento della scuola italiana.


 


[1] I testi scelti, di natura filosofica, letteraria, poetica, iconografica hanno richiamato passi di Ugo di San Vittore e di Agostino; dal Petrarca sono stati scelti brani del De sui ipsius et multorum ignorantia e dei Trionfi; di Dante una sezione del canto IV dell’Inferno, di Boccaccio L’Amorosa visione; si è fatto ricorso ad un brano poetico di Antonio Conti (fine sec. XII), quindi all’affresco di Raffaello, la Scuola d’Atene.

[2] Per un’analisi sul metodo zetetico si veda quanto scriveva F. Bianco, Insegnamento della filosofia: metodo ‘storico’ o metodo ‘zetetico’?, «Paradigmi», n. 23, 1990, pp. 391-410; lo stesso articolo si trova anche in una raccolta curata da R.M. Calcaterra, L’insegnamento della filosofia oggi. Prospettive teoriche e questioni didattiche, Schena, Fasano 1994 che riporta saggi e interventi apparsi su «Paradigmi» negli anni che vanno dal 1990 al 1993. Bianco parte dalla considerazione esibita da Kant che non si possa insegnare la filosofia ma solo a filosofare, cioè che nell’insegnamento della filosofia non sia importante apprendere un patrimonio di conoscenze già date, ma sia fondamentale l’esercizio del nostro stesso raziocinio. L’autore conduce anche una disamina sul metodo storico che da Hegel e da Gentile prende le mosse per poi sottolineare che l’interesse nell’insegnamento non può ridursi a vedere ‘come sono andate le cose’, ma deve legarsi all’interesse filosofico che scaturisce dalle questioni che si incontrano nella vita. Compito del docente quindi dovrebbe essere quello di sollecitare con l’utilizzo del metodo zetetico – che, secondo l’estensore dell’articolo, diventerebbe in questo caso sinonimo di insegnamento per problemi – il suo uditorio all’esplicitazione degli interessi legati all’esperienza di ciascuno e ai problemi a quella connessi. Analizza tre ordini di difficoltà che si presentano al docente che volesse istituzionalizzare tale tipo di insegnamento e conclude che ogni reale avvicinamento al passato, ogni domanda che venga ad esso posta, non può che essere mediata dai problemi del soggetto che si avvicina alla filosofia.

[3] Si vedano le Note sull’organizzazione delle lezioni nel semestre invernale 1765-66, rinvenibili in internet all’indirizzo www.sfi.it/cf/articoli/Kant.pdf. Ma i riferimenti richiamano anche considerazioni svolte nella Dottrina del metodo e nell'Antropologia.

[4] Domenico Massaro, Storicità e centralità del testo nei nuovi programmi di filosofia, «Paradigmi», X, n.29, maggio agosto 1992, pp. 439-457.

[5] Pietro Allotto – Roberto Trolli, Dalla centralità del testo alla centralità del metodo critico-argomentativo, «Comunicazione filosofica», n. 10, maggio 2002

[6] Dando credito alla ricerca commissionata dalla SFI a Luciana Vigone e a Clemente Lanzetti, negli anni ’80 lo “svolgimento della lezione procedeva con un metodo di tipo tendenzialmente ripetitivo e passivamente recettivo. […] L’atteggiamento innovativo – parole degli estensori – è direttamente legato al livello di preparazione acquisito anche con un certo numero di anni di insegnamento, probabilmente attraverso un meccanismo di prove ed errori (trials and errors) […] e attraverso l’esperienza in corpore vili. [In questo modo i docenti] hanno costruito parte della professionalità che gli organismi formativi non avevano offerto” (L. Vigone–C. Lanzetti, L’insegnamento della filosofia. Rapporto della SFI, Laterza, Bari Roma 1987, p. 32.