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Comunicazione Filosofica n. 13 aprile 2004

Copyright 2004 prof. Francesco Dipalo

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FAVOLE

La filosofia per lo studente principiante

 

di Francesco Dipalo*

 

 

“Se la vostra mente è vuota, è sempre pronta per qualsiasi cosa; è aperta a tutto. Nella mente di principiante ci sono molte possibilità; in quella da esperto, poche.”

(Shunryu Suzuki, Mente Zen, Mente di principiante)

 

“Se un uomo ha fame non regalategli un pesce, poiché mangerà solo un giorno: insegnategli a pescare, e mangerà per il resto della vita.

(Proverbio cinese)

 

“La funzione del Maestro è stata istituita per questo motivo: l’allievo deve imparare ad imparare.”

(I. Shah, Imparare ad imparare)


INDICE:

Nota introduttiva

…per lo studente

…per il docente

Per cominciare

Il sapere disgiunto dal vivere è spazzatura (se non peggio)

Benvenuti al liceo

Siamo tutti Greci

Senza gli altri non sarei nulla

Dia-logando s’impara

Sproloqui, chiacchiere, rumori e…

Perché siamo tutti animali filosofici

La filosofia è figlia della meraviglia

Filosofare come rimedio contro il terrore della vita

È Èros a muovere il filosofo

La filosofia come “recupero” della sapienza

Dalla follia derivano i beni più grandi

La sfida mortale dell’enigma

Il mondo è una favola

Gli dèi

Della giusta ambizione (ovvero: dei fini e dei mezzi)

Imparare a pensar semplice (ovvero l’etica delfica)

Politico e idiota


Nota introduttiva…

…per lo studente

“Che hanno a che vedere favole e filosofia? La filosofia non è una materia scolastica che si studia al liceo? Mi sembrava d’aver capito che richiedesse, piuttosto, un manuale…”

Certo, questo è un libro un po’ speciale. Serve a chiarirvi le idee, anzi, visto il titolo, a confondervele. Non vi spaventate: è proprio della filosofia il suscitare dubbi ed interrogativi, il seminare meraviglia e sconcerto. E sì, perché in genere si crede che studiare la filosofia significhi imparare il pensiero dei grandi filosofi del passato, arrivare a comprendere una qualche remota verità che si nasconde tra le pagine di un volume. Le cose non stanno esattamente così. Appunti, manuali, antologie sono soltanto un pretesto. Lo scopo è un altro: imparare a pensare, a riflettere con la propria testa, a crearsi la propria immagine del mondo.

Ma anche questo, immagino lo abbiate già sentito. Non è difficile da capire. È che spesso, troppo spesso, rimane una formula vuota, un puro e semplice flatus vocis[1]. Va messo in pratica, trasformato in attività quotidiana, in sforzo costante. Altrimenti non giova, anzi. Chi pensa di cavarsela impappolando quattro nozioni il giorno prima dell’interrogazione, è come l’atleta che spera di vincere la maratona sgambettando un po’ prima della gara.

L’esempio, tuttavia, non è proprio calzante. Qui non è in gioco un trofeo scintillante, bensì la vostra vita. Da lì germogliano emozioni, sentimenti, pensieri e riflessioni e lì ritornano. Facendo filosofia vi accorgerete che il soggetto e l’oggetto del vostro studio coincidono. Siete voi, solo voi. Libri e nozioni stanno allo studente come la spada al guerriero. Bisogna averne cura, certo. Ma è il protagonista di quella meravigliosa avventura che ha nome vita il vero nocciolo della questione.

E allora, forse, avrete già intuito da soli, il senso di quel titolo, favole. Attraverso loro, da piccoli, inventiamo il nostro mondo, diamo forma alla trama di sensazioni e pensieri che s’affollano in noi. Spazio e tempo, colori e odori, viaggi interminabili in universi paralleli per giungere a quella che chiamiamo realtà[2]. In seguito, accade che molti, stupidamente, dimentichino come ci sono arrivati, gettino via la scala dopo essersene serviti.

A questo spirito vorrei richiamarvi mescolando filosofia e fiaba. Solo che la fiaba non è frutto di pura invenzione. È la realtà, la nostra realtà, quella che viviamo ogni giorno in classe e con la quale, volenti o nolenti, dobbiamo misurarci. In questo gioco, fantasia e razionalità sono due facce della stessa medaglia.

Quindi, fate attenzione: facendo filosofia dovrete imparare a meravigliarvi e a scandalizzarvi, ad armare le vostre passioni con la logica più ferrea e a duellare con i discorsi, coscienti che la posta in gioco non è un voto sul registro: siete voi. Vi aspetta un duro lavoro, comunque la mettiate. E ci vuole una buona dose di coraggio.

E sì. Anche perché, per prima cosa, ci applicheremo a disimparare tanti luoghi comuni, fare a pezzi pregiudizi, disfare abitudini ed atteggiamenti mentali che vi siete, più o meno coscientemente, formati in questi ultimi anni. Disimparare per imparare di nuovo, disfare per ricostruire. Tornare ad essere bambini, davvero, con la mente sgombra e lo spirito del principiante, ben disposti a giocare e a godere di un “serio” divertimento.

Chi pensa dà scandalo – ricordatevelo – perché il mondo è sempre stato, è e sarà favola (e non pubblicità). Siete disposti a pagarne le conseguenze? Leggete e lo scoprirete.


…per il docente

Motivare lo studente alle prime armi con la filosofia è impresa fondamentale e delicata. Buona parte dei successi o degli insuccessi che si conseguiranno nel successivo triennio dipendono proprio da questo. Il tempo è un fattore critico: in genere si hanno a disposizione poche settimane, al massimo un mese, tra settembre ed ottobre. Questa introduzione alla filosofia è indirizzata, principalmente, agli studenti che hanno terminato il primo ciclo delle superiori e si apprestano ad affrontare il triennio conclusivo. Può essere proposta al termine dell’a.s. scolastico precedente, come lettura estiva, oppure a settembre. Dovrebbe servire a rompere il ghiaccio, a scacciare pregiudizi e timori, a catturare l’attenzione dei ragazzi, fornendo loro stimoli concreti.

I contenuti e le citazioni antologiche si riferiscono, nella quasi totalità, agli argomenti di filosofia antica che, in genere, vengono trattati durante i primi mesi di insegnamento. Tuttavia, l’intento del libro è solo incidentalmente di carattere storico-filosofico. Il nozionismo è espressamente bandito, se non addirittura vilipeso. Qui si parla di scuola, dal punto di vista dello studente. Si cerca di penetrare nel suo mondo psicologico, di mettere a nudo mentalità, aspettative, procedure di approccio allo studio. Ma soprattutto, lo si interroga direttamente, a viso aperto e senza giri di parole, sulla sua condizione di studente, sulla vita quotidiana in classe, sul rapporto con l’insegnante e con i compagni, sui mille perché che determinano il suo orizzonte esistenziale. La filosofia è proposta e fatta vivere come metodo d’indagine, attività dialogica, istinto alla conoscenza a partire proprio da quei pro-blèmata che la condizione di studente, di giovane donna o uomo, pone all’ordine del giorno. Filosofia e vita sono collegate come un inscindibile binomio. Il procedimento didattico è quello, già sperimentato in classe, del brain-storming e della partecipazione costruttiva. Motivare significa coinvolgere, e non si dà vero coinvolgimento se non si riesce a stabilire un canale di comunicazione immediato tra soggetti umani.

Per centrare questo obiettivo, si è tentato di modulare un registro linguistico il più possibile semplice e diretto, utilizzando spesso formule colloquiali e modi di dire tratti dal comune parlato. La gravità e la complessità di talune argomentazioni è stata smorzata con il frequente ricorso all’ironia, al gioco, alla drammatizzazione. Né si è trascurato l’elemento fiabesco, come indicato nel titolo. Le favole, però, sono tratte dalla quotidianità della scuola (e non solo) e raccontate con metafore vere. Ogni paragrafo è titolato e rappresenta un discorso a sé. Il procedere delle argomentazioni è solo apparentemente frammentario e casuale: tutte insieme mirano a ricostruire il puzzle del vivere scolastico, reinterpretato alla luce del metodo filosofico. Si tratta, in ultima istanza, di un libro di filosofia che ha come oggetto la scuola e lo studio della filosofia.

Raccomando ai colleghi che vorranno utilizzarlo di leggerlo attentamente. Un limite che gli riconosco – è meglio metterlo subito in chiaro – è il taglio decisamente personale, se non addirittura “personalistico”. Non era possibile, né auspicabile, del resto, escludere completamente, o in parte, il soggetto scrivente dal flusso comunicativo tripolare (docente-testo filosofico-discente). Peggio ancora sarebbe stato camuffarlo con qualche tradizionale riga di autoritario belletto. Il collega che non si riconoscesse completamente nell’approccio umano e didattico proposto, potrebbe suggerirne la lettura ai suoi studenti facendo le opportune premesse e gli altrettanto opportuni distinguo.

Resta inteso che osservazioni, critiche e relazioni d’esperienze sul campo sono sempre, dialogicamente, le benvenute.


Per cominciare

Filosofia. Una parola complicata, per il primo giorno di scuola. Vi faccio subito due facili profezie e con queste vi rimando alla fine del corso.

Molti di voi studieranno con successo, impareranno tanti concetti nuovi, arriveranno a maneggiare nozioni e discorsi che ora non immaginano nemmeno e “prenderanno ottimi voti”. Sotto quella parola, apparentemente non più misteriosa, campeggerà un “bel numero”, che so, un “otto” o addirittura un “nove” o finanche un “dieci”. E la “materia” filosofia sarà una faccenda archiviata, almeno fino al prossimo settembre. Eppure, vi dico, tra quei molti pochi avranno realmente appreso a fare filosofia. Tanti bravi “studenti”, insomma, non equivalgono necessariamente a tanti bravi “filosofi”. In questo genere di faccende la matematica non funziona. E viceversa, dietro un “sei” stirato stirato, dietro una “sufficienza” striminzita, chissà che non si celi agli occhi di tutti, anche a quelli del professore, un promettente filosofo in erba.

Abituatevi a questo paradosso. Perché la verità suona sempre paradossale a chi vive nell’apparenza e di apparenza si nutre.

La seconda profezia non è da meno. Alla domanda “allora, che cos’è la filosofia?” lo “studente filosofo”, proprio lui (o lei), l’ultimo giorno di scuola non sarà in grado di rispondere con esattezza, si sentirà turbato, ma in cuor suo sarà felice di tale turbamento.


Il sapere disgiunto dal vivere è spazzatura (se non peggio)

“Cosa ci sto a fare qui? Cosa mi aspetto di vivere e di ottenere dalla mia esperienza scolastica? Come funziona, esattamente, la mia giornata tipo? Sono realmente soddisfatto? Se no, cosa posso fare, concretamente, per ottenere soddisfazione?”.

Quesiti semplici, che ognuno di voi dovrebbe essersi già posto. Filosofia è ancora un’idea oscura. Ma, se non altro, avete già imparato cos’è una “domanda filosofica”. A voi la risposta. Considerate bene: nessun professore, in genere, vi fa tali domande, o comunque, ammesso che ve le faccia, resta sottinteso che non si tratta di argomenti propriamente “scolastici” e che nessuno, mai, vi “valuterà” in base alla risposta che darete.

Eppure, credetemi, l’essenza della vostra esperienza scolastica, la forma più alta di conoscenza e consapevolezza che vi è dato raggiungere, per ora, è tutta racchiusa in quei cinque quesiti. È la vostra vita quotidiana a gettarveli dinanzi ai piedi, è il vostro “Io” più profondo che anela ad una risposta. È un prò-blema (dal greco pro-ballo, scaglio, getto dinanzi), una faccenda “filosofica”. La conoscenza è (deve essere) in funzione della vita reale, della vostra, di quella dell’intera umanità. La risposta ad un questione filosofica muove dalla propria persona, quella reale che vive, gioisce, soffre, spera e si dispera, ma va sempre al di là del proprio ristretto ambito personale, tende all’universalità.

All’opposto, il nozionismo fine a sé stesso, o peggio ancora, il nozionismo finalizzato all’espletamento della “pratica scolastica”, la si chiami “interrogazione”, “colloquio”, “verifica orale o scritta”, “verifica formativa o sommativa” (scegliete voi il termine che più vi aggrada), è spazzatura. Non parte dal vostro “Io” reale, non arriva a toccare la profondità del vostro essere. Può sbrogliare qualche situazione contingente (“svangarla all’interrogazione”, “portare a casa una pagella accettabile”, e via dicendo), ma non risolve il vero prò-blema, non attinge alla fonte della vita. L’esser dotti non aiuta necessariamente a viver meglio. Il saper tante cose non dà la felicità. Un fanciullo che gioca, mettendo tutto se stesso nel costruir castelli di sabbia in riva al mare, per saggezza supera il più dotto tra i dotti. A scuola, guardate la gente che avete dinanzi e considerate con attenzione e serenità quanto vado dicendo. Cercate di imparare vivendo e facendo, giorno dopo giorno. In questo senso si può parlare di un vero e proprio ginnasio, una palestra di vita.

Di Eraclito di Efeso (c.a. 540-480 a.C.), il sapiente greco del panta rei, ci è rimasto un frammento polemico che così recita: “il saper tante cose (polymathìa) a nessuno aguzza la mente (nòon ou didàskei): se no a Esiodo aguzzata l’avrebbe ed a Pitagora a Senofane pure e ad Ecateo” (fr. 40 D-K). Fustigando i dotti del suo tempo, Eraclito critica una forma di conoscenza fine a se stessa, che prescinde dalla realtà e dall’intima natura del soggetto conoscente. Di contro, a significare il suo punto di vista scolpisce due monumentali parole: “edizesàmen emeoutòn, ho indagato me stesso”. Pesano come macigni. Ancora.


Benvenuti al liceo

Siete giovani, giovanissimi. Eppure, siete anche così antichi!

Mi spiego. Non è facile definire esattamente ciò che si è. È un gioco che ho fatto tante volte in classe: “Elisa, dimmi chi sei! Suvvia, non essere timida, prova a darmi una definizione di te stessa. Descriviti, chi meglio di te potrebbe farlo!” In genere, ottengo le seguenti reazioni: stupore, arrossamento delle guance (più o meno pronunciato), risatina nervosa, e poi qualche breve riferimento all’età, al luogo di provenienza, al mestiere di papà e mamma, oppure al segno zodiacale e agli hobbies. Insomma, un misto tra dichiarazione anagrafica e settimanale d’intrattenimento per adolescenti. Ma quanto imbarazzo! Qualcosa non va. I ruoli non coincidono. “Elisa, non hai dinanzi un impiegato del comune e nemmeno un giornalista teenager! È il professore di filosofia che ti invita a parlare… non ti chiede di ripetere l’ultima lezione, ti sta semplicemente chiedendo chi sei.” Il gioco prosegue con un dibattito dagli esiti imprevedibili. Dipende dalla classe, dal periodo dell’anno, dalla tematica che si intende affrontare e, naturalmente, dalle persone che ho davanti. Ve ne accorgerete.

Intanto, se l’esempio è chiaro, concedetemi una piccola definizione, molto generale: non è possibile sapere chi siamo, se non a partire da quel che pensiamo e da quel che diciamo. In altre parole, io sono quello che penso e quello che dico, io sono la coscienza che ho di me stesso. E aver coscienza di sé consiste nel riflettere sui propri pensieri, è pensiero di pensiero. In sostanza, l’orizzonte ultimo della conoscenza è costituito dal linguaggio, pensato o detto.

Di conseguenza, sarete d’accordo con me nel sostenere che per comprendere se stessi e tentare di risolvere il prò-blema di chi si è realmente, occorra, innanzitutto, capire quel che si pensa e quel che si dice. Come dire, la grammatica e la sintassi di pensieri e parole. Che, a ben guardare, sono la stessa cosa (non a caso, i Greci utilizzavano il termine lògos con ambedue le accezioni).

Troppo complicato? Spero di no.

Ebbene, che significa essere giovani e antichi nello stesso tempo? Per età siete giovani, ma l’essenza di ciascuno di voi è vecchia di secoli. Osservate il ritmo dei vostri pensieri, la marea delle emozioni, guardatevi mentre ascoltate, parlate, leggete o riflettete. Guardatevi vivere. La trama del vostro essere-al-mondo è linguaggio. Ogni questione che rimanda al senso dell’essere-al-mondo è una questione linguistica. Cosciente o inconscia, riflessa o irriflessa voi siete cultura. Per cultura intendiamo la totalità dei significati attribuibili al mondo nel quale ci troviamo. L’animale uomo entra in relazione con l’ambiente che lo circonda creando significati socialmente trasmissibili. L’uomo è, in ultima istanza, animale culturale. Il vostro essere-al-mondo, in quanto animali culturali, affonda le sue radici nei secoli. Dunque, voi siete, noi siamo antichi. Siamo storia, oppure non siamo. Non si dà una terza possibilità. Siamo i figli dei figli dei figli. Solo prendendo coscienza di questo potremo esser anche padri e madri. La cultura è un circolo che non può esser spezzato. Dal vecchio il nuovo. Dal seme il germoglio, dal germoglio la pianta in fiore, dal fiore che appassisce il seme. E così via, finché la razza umana popolerà la Terra. Non a caso, cultura rimanda al verbo latino colere, coltivare, allevare, prendersi cura.

Allora, siete o non siete dei liceali? Vi trovate al liceo, fino a prova contraria. Ebbene, non potreste usare questa espressione, o almeno, non le dareste questo significato, se un bel mattino di tanti secoli fa, intorno alla metà del IV secolo a.C., il signor Aristotele, il miglior allievo dell’Accademia platonica, non avesse deciso di trasferire la propria cattedra in un edificio vicino al tempio di Apollo Lìceo (cosiddetto, pare, in quanto il suo culto proveniva dalla Licia, regione dell’attuale Turchia) alle pendici dell’acropoli ateniese. Il Liceo sopravvisse ad Aristotele e, per moltissimo tempo ancora, rappresentò la principale istituzione culturale della Grecia e dell’intero mondo antico. Era un’università a tutti gli effetti: i migliori rampolli delle famiglie ateniesi e di cultura greca vi studiavano filosofia, dialettica, retorica, matematica, geometria, astronomia, musica, persino botanica e zoologia. Il Liceo era circondato da portici magnificamente eretti, sotto i quali i professori amavano passeggiare circondati dal loro codazzo di allievi, disquisendo di filosofia, di politica, di scienze. I portici assolvevano ad una duplice funzione: si poteva tener lezione all’aperto, sgranchendo un po’ le gambe (mens sana in corpore sano), ma, nello stesso tempo, ci si riparava dall’impietoso sole del mediterraneo o dai radi scrosci di pioggia. Per questo, i liceali furono conosciuti anche col nome di Peripatetici, ossia “quelli che passeggiano” (dal greco perìpatos, passeggio). In seguito, furono così detti tutti i filosofi che si ispiravano alla dottrina del fondatore. Peripatetico divenne sinonimo di “aristotelico”.

Considerate bene quanto vi ho narrato: siete appena giunti al Liceo, giovanissimi. Eppure il senso del vostro giungere, del vostro stare qui ed ora, affonda le sue radici nel passato remoto. La prossima volta userete la parola “liceo” con maggiore consapevolezza. Non è molto, me ne rendo conto. Ma chissà che non vi sia d’aiuto per aggiungere un tassello di significato al mosaico della vostra quotidianità.


Siamo tutti Greci…

…checché ne dica la nostra carta d’identità. Lo stato nazionale, il comune che ci ha rilasciato il documento sono, tutto sommato, un’invenzione recente. In questo senso, possiamo contare, al massimo, cinque o sei generazioni di “italiani”, a partire dal 1861, anno di nascita del Regno d’Italia (una generazione = 30 anni c.a.). La nostra identità culturale, ossia il complesso insieme di discorsi (in greco lògoi), tradizioni, usanze, atteggiamenti mentali, attitudini psicologiche, in poche parole quello che noi siamo, è molto più antica. Si è formata nei secoli, una generazione dopo l’altra, è storia (la storia siamo noi!). Ma possiamo, in qualche maniera, individuarne le coordinate temporali e spaziali della genesi: c.a. VII-VI secolo a.C., mediterraneo orientale, penisola ellenica, ovvero l’attuale Grecia (la parola è latina: i greci dicono Èllas).

Studiare la cultura greca antica, la letteratura, l’arte, la filosofia, insomma, è un po’ come sfogliare un vecchio album fotografico di famiglia. Siamo noi e non siamo noi nello stesso tempo. Sfido chiunque a ricordare con esattezza cosa pensava e provava da piccolo[3]! I ricordi si mescolano sempre ad altri ricordi, anzi vi si sovrappongono strato dopo strato, come un muro al quale si danno tante mani di vernice nel tempo.

Per sfogliare questo album e ricavarne qualche impressione, tuttavia, occorre prendere coscienza di un fatto: le foto sono impresse in caratteri greci, la loro trama ha una sintassi ben precisa. Per ricordare occorre “decifrare”. Come in una vecchia fotografia riconosciamo un volto a partire dall’immagine presente, intuendo le modificazioni che ha subito, il colore dei capelli, la larghezza degli zigomi, la distanza tra gli occhi, le eventuali rughe, ecc., così possiamo “decifrare” quel che ci è giunto dal passato a partire dal linguaggio che utilizziamo tutti i giorni. Curioso: forse non ce ne rendiamo ben conto, eppure quotidianamente, nelle faccende più banali come in quelle più importanti, ci serviamo di veri e propri “reperti archeologici”. Parliamo archeologicamente. Se per comprendere la nostra identità culturale (ossia, la risposta alle domande: chi sono? da dove vengo? dove sto andando?), è necessario afferrare quel che pensiamo e diciamo, allora dobbiamo farlo a partire dalla lingua greca.

Il nostro linguaggio, come sappiamo, è essenzialmente un misto di latino e greco, decantato nel tempo storico (proprio come un buon vino!) con una serie di contaminazioni di provenienza celtica, germanica, slava e araba. Sfogliate un buon vocabolario della lingua italiana e vi troverete tutto questo. Accanto al vocabolo, in genere, è segnalato il cosiddetto “etimo”, ossia “il vero significato di una parola”, la sua “forma originaria”. Si tratta, manco a dirlo, di un termine greco (étymos) che, insieme a lògos, discorso, dà luogo ad “etimo-logia”, lo studio dell’origine delle parole.

Vi assicuro che, anche in questo caso, non si tratta di una questione di pura e semplice erudizione, non consiste semplicemente nel far mostra di un sapere inutile e libresco. Per qualcuno può anche esser così, ma è una sua scelta. Noi siamo partiti da un altro presupposto: comprendere chi siamo realmente, riuscire, per quanto possibile, a vivere con consapevolezza, porre come obiettivo della nostra indagine la quotidianità e i mille problemi che essa solleva. “Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta” – questo è il vero spirito filosofico a detta di chi, la filosofia, l’ha inventata: l’ateniese Socrate. E cosa significa esattamente “ricerca”? Interrogare, in modo vivo e vitale, i mille lògoi che costituiscono la fitta trama del nostro essere culturale. Si torna sempre al punto di partenza: noi siamo linguaggio oppure non siamo (poiché la pura e semplice naturalità istintiva, che so, quella del gatto, non si pone domande sul vivere, bensì vive e basta).

In questo senso, voi ragazzi del duemila avete mille anime diverse, ma, in fondo in fondo, siete greci (e latini). Come dire, mille timbri diversi sul passaporto della storia, da inveterati crono-nauti (nauta marinaio, da nàus nave, e crònos tempo), ma con una sola patria alla quale far ritorno: Èllas. Non a caso, la metafora poetica e umana nella quale si riconosce l’Occidente europeo è quella di un grande navigatore ellenico, lo splendido, astuto Odisseo, l’eroe che fece della sua vita ricerca e della ricerca vita. Fuor di metafora, il primo viaggio che farei, fossi in voi, non appena ne avessi la possibilità, sarebbe proprio in Grecia (e, vi garantisco, non ho ricevuto alcun compenso sottobanco dall’ente del turismo ellenico)!


Senza gli altri non sarei nulla…

…a casa, a scuola, in famiglia, in giro per strada, nel mondo reale, quello di tutti i giorni. È ovvio, direte voi. Abbiamo realmente bisogno degli altri! Genitori, parenti, amici, compagni. Finalmente si capisce chiaramente, sin dall’inizio, dove vuole andare a parare questo strano professore! Che bisogno c’è di farci intorno della “filosofia”? Mi ricorda tanto, soggiungerebbe uno studente in vena di citazioni, quel filosofo di cui parla il poeta romanesco Trilussa: “Il professore, tra i tanti guai, magnava poco e chiacchierava assai” e “er sole è tondo, ma si fosse ovale, sarebbe tale e quale”. E giù, battutacce del genere.

E mi starebbe anche bene, dopotutto, anche perché la natura del libro scritto è tale da lasciar parlare soltanto una persona, lo scrittore, e da non ammettere repliche dirette. Certo, il lettore è libero di interrompere la lettura quando preferisce, di riavvolgere il nastro o di spostarlo in avanti, scorrendo le pagine, di annotare, mentalmente, riflessioni e critiche, senza considerare che il lettore-studente, l’indomani a scuola, potrebbe effettivamente interloquire con il prof. Eppure, nella migliore delle ipotesi, si tratterebbe di un intervento “in differita” (vuoi mettere “il bello della diretta”!), o quanto meno, di un dialogo a distanza, inevitabilmente viziato da una serie di ingombranti formalismi (a scuola non si sta esattamente come a casa!), di interruzioni, di faccende più urgenti da sbrigare al suono della campanella. O ancora, semplicemente, l’ispirazione se ne è andata a quel paese e… pace.

Quello che sembrava ovvio, dopo questa lunga premessa, si è decisamente confuso. Ma, insomma, dove vorrà andare a parare? Vi accontento subito e prometto di essere brevilineo.

A supporto della tesi d’apertura, vorrei sottoporvi le seguenti argomentazioni:

1)    la nostra identità culturale, quello che ciascuno di noi è, ha una valenza collettiva e sociale, si è generata (e continua a generarsi) dal rapporto con gli altri all’interno di una (o più) comunità (famiglia, classe, comitiva, quartiere, paese, città, stato, ecc.);

2)    il linguaggio, dunque, non mi appartiene in quanto singolo, bensì in quanto animale sociale;

3)    se io mi pongo domande sull’esistenza ed esprimo la mia visione del mondo grazie al linguaggio, lo posso fare solo entrando in relazione con gli altri membri della comunità;

4)    senza gli altri, di conseguenza, non esisterebbe alcuna identità culturale (che è mia solo in quanto nostra).

Spero che il ragionamento sia chiaro. Purtroppo, da lettori, non potete chiedermi di rispiegarlo… al massimo rileggetelo!

Non abbiamo ancora dato una definizione di “filosofia”, ma, qualche “favola” fa, avete imparato cos’è una domanda filosofica. Ora, dovreste aver intuito che ad una domanda filosofica non è possibile rispondere da soli. Non fraintendetemi. Certo, ci si può chiudere nella propria stanza, in assoluta solitudine, ed iniziare ad interrogarsi sul senso della vita o, più semplicemente, sul perché tizio o tizia non abbia accettato di uscire stasera. Comunque sia, nell’interrogarci utilizziamo categorie mentali comuni, rimettiamo insieme frammenti della nostra esperienza quotidiana, emozioni, discorsi, immagini, suoni e colori e odori. Siamo fisicamente soli, eppure non potremmo pensare e riflettere alcunché se non partecipassimo di un mondo di simboli (dal greco syn-bàllo metto insieme, associo un oggetto concreto con un’idea astratta, per esempio la bandiera con l’idea di patria) che va ben oltre la nostra piccola persona. Qui non si sta discutendo di altruismo, vita in società, rapporti interpersonali, filantropia, romanticismo o altre cose del genere. È una questione puramente culturale e linguistica. L’orizzonte della nostra capacità simbolica, fossimo anche il più sperduto tra gli eremiti, è definito e delimitato dall’essere partecipi di una determinata visione del mondo, concepita ed espressa attraverso un determinato linguaggio. La dimensione filosofica, dunque, è propriamente partecipativa. Interrogando ci si pone in relazione: lO non nasce né prima né dopo TU, ma insieme. Allo stesso modo, l’identità si definisce solo in relazione all’alterità (IO sono IO nella misura in cui non sono TE). Le parole stesse hanno senso solo in quanto rimandano ad altre parole, formando un tessuto coerente (come potremmo capire fuori se non vi fosse un dentro?).

Non mi aspetto abbiate compreso tutte le implicazioni di questo discorso. Non disperate, c’è tempo.

Per concludere, vorrei soltanto sfatare l’immagine - suggerita da Trilussa - del filosofo un po’ pazzo che, seduto al tavolo di un’osteria trasteverina, disquisisce di cose che capisce lui soltanto, monologando intorno alla forma del sole. Se per comprendere se stesso, ciascuno deve analizzare i mille lògoi, i discorsi che costituiscono il suo essere animale culturale, ebbene non lo può fare a prescindere dalla correlata dimensione di animale sociale (Aristotele diceva politikòn zoòn). Ma, se le cose stanno così, non è più appropriato parlare di lògoi: ogni lògos, effettivamente, è un dia-lògos, ovvero un discorso tra esseri umani all’interno di una comunità sociale e politica. La filosofia è, essenzialmente, dia-logo, comunicazione. Ecco perché lamentavo la carenza della comunicazione libraria: è indiretta, esclude l’immediatezza dell’interloquire (dal latino inter-loquor parlo tra, come il greco dia-lègo, da cui dia-lògos). Il rapporto scrittore-lettore va integrato, reso vivo, trasfigurato nella comunicazione orale, tra uomini presenti, qui ed ora. Tenetelo bene a mente in futuro, quando prenderete tra le mani un libro di filosofia. E, soprattutto, perdonatemi di non essere qui ed ora con voi. Me ne rammarico. Nascosto dietro le pagine di questo libro mi lascio sfuggire l’essenza della comunicazione, il gusto di replicare alle vostre repliche, di sorbirmi critiche e sbadigli, di condurvi a delle conclusioni accettate da tutti, di polemizzare, ironizzare, ridere ed essere oggetto di riso. Ma, soprattutto, mi perdo la possibilità di imparare da voi, con voi, in voi.


Dia-logando s’impara

“A scuola si va per imparare, per studiare, per prepararsi alla vita”. Quante volte avrete sentito espressioni del genere! Genitori, professori e altri personaggi del mondo degli adulti, più o meno credibili, ve l’avranno ripetute fino alla nausea. Al punto che, se fingendovi giornalisti andaste in giro ad interrogare i vostri coetanei sulla “faccenda scuola”, otterreste, grosso modo, la stessa risposta (provare per credere).

Attenzione. La questione non è di poco conto. Definirla un prò-blema che investe direttamente e in profondità la vita quotidiana non è affatto fuori luogo. In fin dei conti, comunque la mettiate, per buona parte della vostra giornata voi siete studenti, vivete nella scuola o per la scuola. Ripeto: è la vostra vita e ne avete una sola da vivere (sempre che non crediate nella reincarnazione!).

La frase “a scuola si va per imparare, per studiare, per prepararsi alla vita” è una delle risposte possibili alla domanda “perché vai a scuola?”, ovvero “che senso ha per te andare a scuola?”, “quale motivazione ti spinge ad andarci?”. Ovviamente sono possibili altre risposte. Spente le luci della ribalta, qualcuno potrebbe rigettare la soluzione standard affermando che “a scuola ci va perché costretto (dai genitori, dal sistema)”. In questo caso, non è il fine (apparentemente) positivo a spronare il soggetto, bensì una causa di natura (apparentemente) coercitiva.

Fin qui ci siamo mantenuti sul generico. Il lettore più attento avrà senz’altro colto la portata filosofica dell’interrogativo: non si tratta di astratto nozionismo ma investe la vita reale. A questo punto, cosa farebbe il filosofo? Proviamo ad indossarne i panni.

A chi afferma, con maggiore o minore naturalezza e convinzione, “a scuola si va per imparare, per studiare, per prepararsi alla vita” ribatterebbe: “va bene, ma cosa intendi esattamente con questo? cosa significa per te imparare, studiare, prepararsi alla vita?”.

Socrate amava molto questo genere di domande. Assillava i suoi concittadini con un incalzante ti estì (che cos’è?). Era veramente un rompiscatole: non si accontentava di una risposta secca e generica, voleva saperne di più. E se ti capitava la disgrazia (o la fortuna, dipende dai punti di vista) di incontrarlo per strada, in piazza (l’agorà), al mercato, guai a cominciare una conversazione! Non ti mollava più, se non dopo averti messo in crisi con quel suo particolare modo di fare.

Immaginiamolo all’opera. È una bella giornata estiva. Fa caldo, ma, di tanto in tanto, una lieve brezza marina si insinua tra i vicoli sinuosi ai piedi dell’acropoli. Vi riparate all’ombra di un portico, schermandovi gli occhi con il palmo della mano.

Socrate – Dunque, tu saresti uno studente.

Studente – Come no.

Socrate – In cosa consiste esattamente la tua attività?

Studente – La mattina vado a scuola, ascolto le lezioni dei professori delle varie discipline. Il pomeriggio, a casa, mi metto a studiare, preparandomi per il giorno successivo.

Socrate – Interessante. Che genere di discipline coltivi?

Studente – Beh, matematica, lingua e letteratura italiana, latino, greco, storia, scienze, inglese…

Socrate – Quindi, miri a diventare un esperto in tutte queste discipline: un matematico, imparando la matematica, un letterato con l’italiano, uno storico con la storia, e così via.

Studente – Ma, guarda, in realtà no. Un esperto non si può proprio dire. Al termine del mio corso di studi liceali mi iscriverò all’università e lì, sì, diventerò davvero un esperto: un medico, un ingegnere, un avvocato… non so, non ci ho ancora pensato.

Socrate – Mi sembra di capire, quindi, che le discipline in cui ora ti stai formando, tutte quante, sono propedeutiche all’università. Cioè, il loro studio è finalizzato ad un ulteriore studio, questo sì, davvero in grado di farti diventare un esperto in qualche cosa. Non è così?

Studente – Sembra proprio di sì.

Socrate – In cosa consiste il loro esser propedeutiche? L’oggetto del loro studio deve essere qualcosa di comune, altrimenti non ti aiuterebbe a diventare in futuro medico se studierai medicina, ingegnere se studierai ingegneria, avvocato o magistrato se studierai giurisprudenza, e via dicendo.

Studente – Non può che esser così, Socrate. Si tratta di qualcosa di comune a tutte le scienze e a tutte le professioni, altrimenti non vedo come potrebbe condurre l’uno a diventare esperto di questa, l’altro di quella.

Socrate – Non c’è dubbio, siamo d’accordo. Ma dimmi che cos’è comune a tutte le scienze e a tutte le professioni? Perché, vedi, se riusciamo a chiarire questo punto, allora potremmo giungere a comprendere il senso del tuo studiare qui ed ora al liceo.

Studente – Non so. Una certa preparazione di base…

Socrate – Rimani un po’ sul vago. Non ti capisco: eppure si tratta della tua attività quotidiana. Ti sei o non ti sei definito, poco fa, uno studente?

Studente – Sì, certo. È il termine che tutti utilizzano per definire quello che io faccio a scuola.

Socrate – Non c’è dubbio. Ma che significa esattamente? Così torniamo al punto di partenza.

Studente – Già. Sto iniziando a confondermi. Eppure, prima di incontrarti, mi sembrava tutto così chiaro, così normale.

Socrate – Probabilmente, dovremmo spostare la nostra attenzione su ciò che accomuna un ingegnere, un medico, un avvocato, un esperto qualsiasi. Se il liceo è propedeutico a tutte le scienze e le professioni, deve necessariamente formare su ciò che è comune. Allora, tu che ne pensi?

Studente – Che dirti, Socrate. Mi viene in mente solo una risposta banale: medico, ingegnere o avvocato, si tratta sempre e comunque di uomini e donne…

Socrate - …che, in quanto tali, prima d’esser esperti in qualche scienza particolare, dovrebbero aver ben chiaro cosa significhi esser dei buoni figli, dei buoni amici, dei buoni cittadini…

Studente – Certo, questo dovrebbe riguardare tutti.

Socrate – Ma a che serve, allora, studiare? Forse che chi non studia al liceo non è un buon figlio, un buon amico, un buon cittadino?

Studente – Beh, perché no? Ha le stesse possibilità di esserlo di chi studia… Conosco gente che non ha studiato eppure non per questo può dirsi cattivo.

Socrate – Certo. Anch’io, nella mia lunga esperienza di vita, spesa a colloquiare con la gente, investigando cos’è bene, cos’è vero e giusto, ho incontrato un maggior numero di sapienti tra contadini, artigiani e pescatori, piuttosto che tra coloro che si ritenevano o venivano ritenuti sapienti: professori, giornalisti, uomini politici, preti, ecc.

Studente – Davvero?

Socrate – Sicuro. Erano tutti più o meno esperti in una determinata scienza (o si proclamavano tali), la pedagogia e la didattica, la retorica e la comunicazione, la politica e l’economia, la teologia, ecc., ma la gran parte aveva trascurato di ricercare ciò che è davvero comune: la scienza del bene, del vero, del giusto. Non pensi che questo dovrebbe esser, davvero, il senso profondo e l’oggetto preciso del tuo studio?

Studente – Come no?

Socrate – Che studiare dovrebbe significare, in fin dei conti, applicarsi con amore e passione, anima e corpo, nella comprensione dell’unica scienza di cui vale veramente la pena divenir esperti, ossia il vivere bene secondo verità e giustizia? E che nessuno può esimersi da tale comprensione?

Studente – Ma allora la matematica, l’inglese, il greco…

Socrate – Mezzi, strumenti, pretesti. La vita è ben altro. Va vissuta…

Il dialogo immaginario potrebbe andare ancora avanti per altre dieci, cento pagine. Ci si potrebbe chiedere, per esempio: cos’è bene, cos’è vero, cos’è giusto? Ma sarebbe sempre, in ogni caso, un dialogo fittizio: da una parte lo scrittore, dall’altra il lettore. Per questo Socrate non lasciò nulla di scritto. Furono i suoi discepoli, in particolare Platone, a documentare nelle loro opere l’attività di ricerca del maestro.

Dia-logo, attività di ricerca: sono queste le parole chiave della filosofia. Vorrei che vi rimanessero ben scolpite nella mente. Ma soprattutto, vorrei che le metteste in pratica, il più possibile, in ogni luogo e in ogni circostanza. La filosofia non è un insieme di nozioni da imparare per far contento il professore. Non è la storia del pensiero umano. Non è nemmeno una materia scolastica. Questi, come diceva Socrate, sono solo mezzi, strumenti, pretesti. Se vi sfugge il fine, non imparerete niente. Anzi, peggio ancora, crederete di aver imparato qualcosa, vi sentirete soddisfatti e smetterete di cercare attraverso il dialogo con i gli altri uomini. Crederete di dialogare, ma il vostro sarà solo un tragico, sterile monologo.


Sproloqui, chiacchiere, rumori e…

“…fate un po’ di silenzio!” Un classico della vita scolastica. Quante volte vi sarà capitato. Una giornata particolarmente faticosa, un brusio sottile che inizia a manifestarsi così, per caso, risale serpeggiando da una fila di banchi all’altra, s’interrompe improvvisamente, il prof alza un po’ il tono di voce, lancia qua e là occhiate minacciose. E poi un colpo di tosse, una risatina soffocata, un ticchettare di penna sul banco, occhiate gettate nel vuoto ad esplorare soffitti, finestre, pezzi d’intonaco scrostati. Il prof sembra innervosirsi. Parla e parla e parla ancora, ogni tanto s’accanisce col gesso contro la povera, ignara lavagna, ferendo i timpani con i suoi acuti stridii. Un’altra risatina, sguardi semiseri che si cercano, implorando complicità, facendo finta di niente, tutto dicendo. Benedetta campanella, signora del nostro tempo, liberaci dal male! Equazioni, traduzioni, interrogazioni, interpunzioni, scansioni: ironicamente, beffardamente finiscono tutte per…oni.

Spesso, la forbice tra come dovrebbe essere e come è la vita in aula si presenta assai divaricata, la comunicazione s’interrompe oppure diventa una specie di braccio di ferro a distanza tra studente e docente. Entro certi limiti è fisiologica. Può esser salutare, di tanto in tanto, allentare la tensione. Ma è opportuno, se siete d’accordo, ragionare di questi limiti. È un interessante prò-blema filosofico. Del resto, fa o non fa parte del nostro vivere quotidiano?

La filosofia è, essenzialmente, dia-logo e attività di ricerca, ossia un’attività dia-logica e si occupa della nostra concreta realtà. Questo, ormai, dovrebbe esservi chiaro. Il dia- di dialogo (discorso tra persone diverse) stabilisce un nesso transitivo tra i soggetti dialoganti, ossia li mette in comunicazione. La vera comunicazione dialogica è sempre biunivoca: va da un polo all’altro senza soluzione di continuità. Come dire che, una volta premuto l’interruttore, la corrente elettrica fluisce liberamente da una parte all’altra del circuito. La lampadina accesa rappresenta il dialogo in corso di svolgimento. L’obiettivo che ci si propone è sempre lo stesso: affrontare i mille problemi della vita, ponendosi, insieme[4], le domande giuste.

Ebbene, la comunicazione funziona soltanto entro certi limiti. I limiti sono dati dal rispetto di regole precise. Le regole rappresentano, come dire, le leggi del dialogo. Senza il rispetto di queste leggi, non v’è dialogo, né comunicazione, né vera ricerca: l’attività filosofica, dunque, non ha luogo. Al suo posto subentra lo sproloquio, la chiacchiera, il rumore. Non si scappa. E la questione è più seria di quanto, a prima vista, non sembri: viviamo nella cosiddetta “società delle comunicazioni di massa”, eppure, spesso, ci riesce difficile distinguere cos’è vera comunicazione e cosa no.

La legge, derivante dal comune accordo, è alla base di qualsivoglia attività umana. Non dimenticatelo mai. Senza di essa non avremmo potuto giocare da bambini, perché a fondamento di ogni gioco ci sono regole precise, stravolgendo le quali il gioco perde significato. Una partita di calcio si trasformerebbe (e sovente si trasforma) in una rissa insensata, se non vi fossero regolamenti, arbitri e guardalinee. L’amicizia, che lega alcuni di voi, si fonda su sentimenti ed emozioni vissuti ed espressi in modo ben rigoroso ed inequivocabile, pena il tradimento e la rottura del patto. E così via: senza assiomi, dimostrazioni, regole e metodi di verifica la scienza non sarebbe scienza, né vi sarebbe certezza nella matematica se la stessa equazione potesse avere due risultati diversi. Non parliamo, poi, della scienza politica: occorrono norme, tradizioni, precetti, legislazioni per fondare una comunità, qualunque essa sia. Se siamo qualcosa (cittadini, scienziati, amici, giocatori, ecc.), insomma, lo dobbiamo alle leggi. Le si può trasgredire, certo, le si può rifiutare, deridere o mettere in discussione: resta il fatto che con esse dobbiamo sempre fare i conti, nel bene e nel male.

Allora, quali criteri distinguono il vero dialogare dalle altre forme espressive (comunicative e non)? Sono sicuro che siete in grado di dedurli da soli, non fosse altro perché ogni giorno li vivete sulla vostra pelle e ne sperimentate le conseguenze. Ma che razza di prof sarei se non vi dessi almeno una mano? È più forte di me. Però, mi limiterò a descrivere alcuni comportamenti in negativo. A voi l’arduo compito di “rigirare la frittata”.

È il primo giorno di scuola. Su invito dell’insegnante, che funge da moderatore, si sta discutendo del giusto atteggiamento da tenere in classe. Ecco alcuni possibili modi d’agire:

-     comincio la conversazione presumendo di sapere già tutto. Il mio unico scopo è quello di convincere i compagni della validità assoluta della mia posizione;

-     tento di far valere le mie personali motivazioni, a scapito della loro generale condivisibilità ed applicabilità;

-     terminato il mio intervento, non presto sufficiente attenzione alle parole degli altri;

-     tento di dire cose “sagge e complicate” per far colpo sul prof;

-     ostentando risate di scherno ed occhiate complici, finisco col pregiudicare il discorso di M. (tanto non capisce niente ed è pure antipatica);

-     interrompo un compagno che parla perché, secondo me, sta dicendo “fesserie”;

-     intervengo senza “prenotarmi”, finendo col sovrapporre la mia voce a quella di un altro;

-     ho già parlato, ma ci tengo a dire qualche altra cosa prima che la campanella suoni, nonostante vari compagni non si siano ancora espressi;

-     nel mio secondo intervento non tengo in alcun conto quanto è stato affermato dagli altri membri della comunità;

-     parlo, ma non dico la mia verità. Non si sa mai, potrei compromettermi;

-     mi dedico ad altro. Può darsi che a qualcuno venga in mente di interrogarmi nelle ore successive!

Potrei andare avanti ancora per un bel po’ perché, credetemi, la casistica è assai estesa. Devo riconoscere, tra l’altro, che il partecipare alle riunioni tra prof, per esempio i famigerati “collegi dei docenti”, me l’ha ulteriormente ampliata. Senza contare il “degno e costruttivo” dialogare di taluni uomini politici nelle aule parlamentari o sui palcoscenici televisivi. Insomma, chi pratica lo sproloquio, la chiacchiera, il rumore per il rumore, può dirsi in buona compagnia. Ma, fossi in lui (o lei), non ne andrei molto orgoglioso[5].

Un’ultima raccomandazione: dedurli e basta, i criteri del dialogare, non serve a niente. Vanno vissuti. Ma questo dovreste già saperlo…


Perché siamo tutti animali filosofici

Può non interessarvi o, peggio ancora, infastidirvi. In alcuni casi, gettarvi nello scoramento o nel panico (e non mi riferisco a quello dell’interrogazione…). In altri, solleticare la vostra curiosità, oppure stupirvi senza effetti speciali. Allora, un fuoco sacro vi arde dentro, una brama di conoscere, tutto e subito, un delirio di lettura e scrittura. Può prendere così, d’improvviso: si torna ad essere innocenti ed impazienti, fragili ed impetuosi, come bimbi.

Tutto questo è filosofia, o meglio istinto alla filosofia.

Con “filosofia” comunemente s’intende l’insieme degli scritti di contenuto filosofico, le tecniche di argomentazione razionale, le dottrine e i concetti, più o meno astratti, che la nostra cultura ha declinato in secoli e secoli di storia. Ma questo è solo un effetto, un “fenomeno” (dal greco fainòmenon, participio presente medio del verbo fàino, appaio, mi mostro, mi rivelo). E ogni effetto, come sapete, ha una causa, l’atto del manifestarsi rimanda necessariamente ad altro, cioè alla cosa che si manifesta.[6]

Ed è proprio di questo che voglio ragionare ora con voi: cosa c’è dietro al fenomeno “filosofia”? Perché sentiamo il bisogno di filosofare? Quale istinto ci pungola?

Con gli altri animali condividiamo, per esempio, l’istinto di sopravvivenza. Come loro ci nutriamo, quando abbiamo fame, e beviamo, quando il corpo necessita di reintegrare i liquidi perduti. Non ne possiamo fare a meno. La natura ci impone anche l’Èros, l’attrazione per i membri dell’altro sesso. Il desiderio, non di rado, ci brucia dentro, ci eccita e ci sconvolge, mescolando piacere e dolore. Per noi è una faccenda decisamente complessa, amore, ammirazione, amicizia, sesso… eppure, si sa, è legata al cosiddetto istinto di riproduzione che abbiamo in comune con gli altri animali.

Eppure, per qualche bizzarro scherzo di natura, o chissà quale provvidenziale disegno divino, l’animale uomo non si accontenta di percepire (e di modificare) l’ambiente che lo circonda, i suoi simili, le potenziali prede e i predatori (alquanto scarsi, a dire il vero): no, non gli basta, si ostina a chiedersi il perché delle cose. E c’è di più: dietro la conoscenza puramente strumentale e tecnica, volta alla risoluzione di problemi concreti, e quindi collegata, in qualche maniera, alla darwiniana “lotta per la sopravvivenza”, vi sono altri perché, non meno gravi ed urgenti, la cui portata problematica si tramanda di padre in figlio, di generazione in generazione. Si tratta delle cosiddette questioni di senso: che cosa posso realmente conoscere? quali sono i limiti della conoscenza? come debbo agire nei confronti di me stesso e degli altri? cos’è la felicità e come posso conseguirla? cosa mi è consentito sperare? la vita finisce con la morte? se sì, quale senso dare alla mia esistenza? Ovviamente, non pretendo di aver esaurito il numero delle domande possibili. È la vita a gettarcele tra i piedi, come dicevo a proposito dei prò-blemi, ad ogni passo, in ogni direzione.

L’ignoto ha un fascino particolare, ambiguo, bifronte: dinanzi a lui, a volte restiamo a bocca aperta per la meraviglia, incantati come i marinai di Odisseo in presenza delle Sirene; altre, ci irrigidiamo in preda ad un terrore improvviso, inopinato, senza scampo, oppure lasciamo che si insinui lento e serpiforme nel tessuto delle nostre rassicuranti abitudini, avvelenandole con stille di pura angoscia; altre ancora, avvertiamo come un fastidio, un’incomprensibile irrequietezza e ci troviamo involti tra le pieghe del dubbio; vogliamo delle risposte, bramiamo la conoscenza, ardendo come innamorati, ma lei, capricciosa, terribile, irridente, ci volta le spalle. Nella sapienza, di certo, v’è qualcosa che ricorda, da vicino, l’amore: l’estasi del trasporto, il piacere della ricerca, il tormento delle tante attese, il cieco dolore del disinganno. È un’esperienza rischiosa e ci vuole la temerarietà del leone e lo stomaco dell’aquila per poterla affrontare. Etimologicamente parlando, filo-sophìa è proprio questo: amore per la sapienza.

Ora, vi ho già parlato diffusamente dell’importanza del dia-logo. E ve ne ho parlato proprio tentando di stabilire un dialogo a distanza con ciascuno di voi, pur ammettendo i limiti insiti nella comunicazione scritta (un libro non è in grado di difendersi dalle eventuali obiezioni del lettore, né lo scrittore, trincerato dietro le pagine di carta o lo schermo di un computer, può relazionarsi direttamente con i propri interlocutori ed imparare qualcosa di nuovo da loro). Tuttavia, resta il fatto che, per imparare a “filosofare”, sia necessario confrontarsi con quei testi letterari che hanno contribuito alla formazione storica del nostro pensiero[7]. E non è sempre impresa facile. Molti ostacoli si frappongono tra i due poli della comunicazione (ossia lettore e testo): innanzitutto la lingua che va adeguatamente tradotta ed interpretata; le differenze (ma anche le convergenze) mentali e psicologiche dovute all’ambiente storico-culturale; poi le condizioni reali dello scrittore, che dietro il testo si cela, i suoi intenti letterari, il ruolo sociale e politico, le relazioni con i contemporanei, gli eventi salienti della sua biografia e finanche l’età e il sesso; infine, il ruolo, non sempre obiettivo e scientifico, di chi quei testi ce li ha tramandati, magari storpiandoli a suo uso e consumo, aggiungendovi annotazioni e critiche, di epoca in epoca, dal più antico commentatore al più moderno studioso, su su fino allo stesso professore. Insomma, le variabili, così come le competenze da sviluppare, sono molteplici e interdisciplinari.

Lo immagino: se avete fatto lo sforzo di seguirmi sin qui – la favola si è fatta piuttosto intricata – in questo preciso istante vi sentite un po’ disorientati, forse impauriti, pensate di non essere all’altezza di districare simili matasse. È normale, non abbiate timore. Con calma, un passo alla volta, secondo l’andatura di ciascuno, s’impara a camminare con le proprie gambe. Mi accontenterei di avervi chiarito, se non altro, questo concetto: la filosofia è sempre e comunque confronto, un dare e un ricevere tra soggetti umani, che, grazie alla parola scritta, possono incontrarsi varcando enormi distanze temporali e spaziali. Però queste ultime, non bisogna mai commettere l’errore di trascurarle.

Vi faccio una proposta che potrebbe suonarvi “oscena”. Siccome le considerazioni che ho fatto a proposito del perché siamo tutti animali filosofici, evidentemente, non le ho partorite così, di getto, in una giornata di caldo afoso, bensì derivano da una lunga frequentazione con alcuni testi filosofici, fatta di incontri e scontri, giovanili entusiasmi e più mature riflessioni, innamoramenti fatali e sofferti addii; ebbene, per rimanere coerente a quanto vado affermando, questi brani voglio proporveli in presa diretta, in modo che possiate appurare, tra l’altro, in che misura la filosofia sia realmente confronto. Chissà che non vi suonino più chiari delle mie spiegazioni, ribaltando l’iniziale sensazione di “oscenità”.

Sono stati proprio i filosofi antichi, manco a dirlo, a dare una definizione di filo-sophìa, tentando di mostrare quale fosse l’origine e il senso della loro ricerca. Accanto a Platone (428/27-348/47 a.C.) ed Aristotele (384/83-322 a.C.), riporto le interpretazioni fornite, in tempi recenti, da due studiosi italiani, Giorgio Colli (1917-1979) ed Emanuele Severino (1929-vivente).

Vi lascio in compagnia dei miei maestri. Affrontateli senza tanti timori reverenziali.

Post scriptum: le note a piè di pagina sono state inserite allo scopo di guidare la lettura e fornire un minimo di indicazioni storico-filosofiche. Ad ogni modo, vi consiglio di leggere integralmente i testi prima di ricorrere ad esse. I passaggi più significativi sono evidenziati in corsivo.


La filosofia è figlia della meraviglia

Platone, Teeteto, 155 C – D[8]

Teeteto – Per gli dèi!, Socrate, io mi trovo straordinariamente pieno di meraviglia: che cosa sono mai queste rappresentazioni? E qualche volta quando concentro veramente l’attenzione su di esse, mi vengono le vertigini.

Socrate – […] È proprio tipico del filosofo quello che tu provi, l’essere pieno di meraviglia: il principio della filosofia non è altro che questo, e chi ha letto che Iride è figlia di Taumante sembra che non abbia tracciato una cattiva genealogia.[9]

 

Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 b[10]

Tutti gli uomini tendono per natura alla conoscenza: ne è un segno evidente la gioia che essi provano per le sensazioni[11] […]. Gli uomini, all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia (thàuma), poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui essi non sapevano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fronte a problemi più complessi, quali le condizioni della Luna e quelle del Sole, e le stelle e l’origine dell’universo[12]. Chi è in uno stato d’incertezza e di meraviglia crede di essere ignorante[13] (perciò anche chi ha interesse per le leggende è, in un certo qual modo, filosofo, giacché il mito[14] è un insieme di cose meravigliose); e quindi, se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire all’ignoranza, è evidente che essi cercavano di conoscere per puro amore del sapere e non per qualche bisogno pratico[15]. E ne è testimonianza anche il corso degli eventi, giacché solo quando ebbero a disposizione tutti i mezzi indispensabili alla vita e quelli che procurano comodità e benessere, gli uomini cominciarono a cercare questa specie di conoscenza. È chiaro allora che noi ci dedichiamo a questa indagine senza mirare ad alcun vantaggio esteriore, ma, come noi chiamiamo libero[16] un uomo che vive per sé e non per altro, così anche consideriamo tale scienza.


Filosofare come rimedio contro il terrore della vita

E. Severino, La filosofia contemporanea, Rizzoli, Milano 1986, p.7

Riprendendo uno spunto di Platone, Aristotele dice che gli uomini sono spinti a filosofare dalla “meraviglia”: dalla “meraviglia” che essi provano quando, di fronte agli accadimenti del mondo, ne ignorano le “cause” [17]. Cercano quindi la filosofia per sé stessa, perché vogliono conoscere; non perché intendano servirsi della filosofia in vista di qualche vantaggio[18].

Tuttavia la parola greca thàuma, che traduciamo con “meraviglia”, ha un significato molto più intenso: indica anche lo stupore attonito di fronte a ciò che è strano, imprevedibile, orrendo, mostruoso[19]. Se infatti non si conoscono le “cause” di ciò che accade – se ciò che accade non rientra nella spiegazione del mondo della quale l’uomo di volta in volta si trova in possesso – allora l’accadimento delle cose è l’inquietante e diventa la fonte di ogni terrore e di ogni angoscia. E anche di ogni dolore, perché la sofferenza è insopportabile quando non è spiegabile e si avventa sull’uomo, imprevedibile e senza ragioni[20].

Affermando che la filosofia nasce dalla meraviglia, Aristotele intende dire (anche se evita di sottolinearlo) che la filosofia nasce dal terrore provocato dall’imprevedibilità del divenire[21] della vita. Conoscendo le “cause” del divenire, la filosofia rende prevedibile l’imprevedibile, lo inserisce nella spiegazione stabile del senso del mondo, e quindi appronta il rimedio contro il terrore della vita[22].


È Èros a muovere il filosofo

Platone, Simposio, 201 D – 204 C[23]

Ecco il discorso sull'Èros che ho ascoltato un giorno da una donna[24] di Mantinea, Diotima, molto competente su questo come su tanti altri argomenti. Fu lei che una volta, prima della peste[25], fece fare agli Ateniesi quei sacrifici che ritardarono di dieci anni l'epidemia. Proprio lei mi ha fatto capire molte cose su Èros.

Adesso cercherò di fare del mio meglio per riportarvi le sue parole, partendo da tutto quello su cui Agatone ed io ci siamo trovati d'accordo. Come tu stesso hai detto, Agatone, bisogna innanzitutto chiarire la natura dell'Èros, i suoi attributi e le sue azioni. Forse la cosa più semplice è seguire nella mia esposizione lo stesso ordine che seguì la straniera nell'esame che mi fece. Io, infatti, le rispondevo un po' come adesso ha fatto Agatone con me: io dichiaravo che Èros è un grande dio e che ama le cose belle. Lei mi dimostrava che ero in errore con le stesse argomentazioni di cui mi sono servito discutendo con Agatone: Diotima diceva che Èros non è né bello, per usare le mie parole, né buono. E io le dicevo[26]:

"Ma come Diotima? allora Èros è cattivo e brutto?"

"Che dici? Questa è una bestemmia! – mi rispose –. Credi forse che tutto ciò che non è bello debba essere per forza brutto?"

"Ma certo!"

"E perché mai? Chi non è sapiente deve per forza essere ignorante? Non ti sei mai accorto che c'è una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza?"

"E qual è?"

"Avere un'opinione giusta[27], senza però saperla giustificare. Questo non è vero sapere: come posso parlare di scienza, se non so dimostrare che è vero quello che penso? Ma non è neppure piena ignoranza, perché per caso la mia opinione potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione giusta è quindi, suppongo, simile a quel che dicevo: sta a metà strada tra la piena conoscenza e l'ignoranza."

"È vero", risposi.

"Dunque chi non è bello non per questo è per forza brutto, né chi non è buono deve essere cattivo. E così è per l'Èros: poiché tu sei d'accordo con me che non può essere né buono né bello, non devi per questo credere che sia necessariamente cattivo e brutto. Èros – così mi disse Diotima – è a metà tra questi estremi."

"Però – ripresi io – tutti concordano nel pensare che Èros sia un dio potente."

"Dicendo tutti, parli degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?"

"Io parlo proprio di tutti."

Diotima si mise a ridere. "Come possono dire di lui che è un dio potente se dicono che non è affatto un dio?"

"Ma chi dice questo?" dissi io.

"Tu per esempio – disse – ed anch'io!"

Ed io: "Ma cosa dici?"

"È tutto semplice – rispose –. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli dèi[28] sono felici e belli? o oseresti sostenere che qualcuno degli dèi non è né bello né felice?"

"lo non oserei proprio", risposi.

"Ma chi è felice? non è chi possiede cose buone e belle?"

"Certo."

"Ma tu hai riconosciuto che Èros, mancando delle cose buone e belle, le desidera proprio perché gli mancano."

"E vero, ero d'accordo con te su questo."

"E allora come può essere un dio se le cose buone e belle gli mancano?"

"Sembra impossibile, in effetti."

"Come vedi – disse –, anche tu ritieni che Èros non sia un dio."

"Chi sarà dunque Èros? un mortale?"

"No di certo."

"E allora?"

"E come negli esempi precedenti, la sua natura è a mezza via tra il mortale e l'immortale".

"Che vuoi dire, Diotima?"

"È un dèmone[29] potente, Socrate. I demoni, infatti, hanno una natura intermedia tra quella dei mortali e quella degli dèi."

"Ma qual è il suo potere?" chiesi.

"Èros interpreta e trasmette agli dèi tutto ciò che viene dagli uomini, e agli uomini ciò che viene dagli dèi: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro gli ordini degli dèi e i loro premi per i sacrifici compiuti; e in quanto è a mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito. Da lui viene l'arte divinatoria[30], ed anche il sapere dei sacerdoti sui sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel che è divinazione e magia. Il divino non si mescola con ciò che è umano, ma, grazie ai dèmoni, in qualche modo gli dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia che nel sonno. L'uomo che sa queste cose è vicino al potere dei dèmoni, mentre chi sa altre cose – chi possiede un'arte, o un mestiere manuale – resta un artigiano qualsiasi o un operaio. Questi dèmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di essi è Èros".

"Chi è suo padre – domandai – e chi sua madre?"

"È una lunga storia[31] – mi disse –. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque Afrodite, gli dèi si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era Pòros (Espediente, Trovata, Stratagemma), il figlio di Mètis (Sagacia, Furbizia). Dopo il banchetto, Penìa (Povertà) era venuta a mendicare, com'è naturale in un giorno di allegra abbondanza, e stava vicino alla porta. Pòros aveva bevuto molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un po' ubriaco, se ne andò nel giardino di Zeus e si addormentò. Penìa, nella sua povertà, ebbe l'idea di avere un figlio da Pòros: così si sdraiò al suo fianco e restò incinta di Èros. Ecco perché Èros è compagno di Afrodite (Venere) e suo servitore: concepito durante la festa per la nascita della dea, Èros è per natura amante della bellezza – e Afrodite è bella.

Proprio perché figlio di Pòros e di Penìa, Èros si trova nella condizione che dicevo: innanzitutto è sempre povero e non è affatto delicato e bello come si dice di solito, ma al contrario è rude, va a piedi nudi, è un senza-casa, dorme sempre sulla nuda terra, sotto le stelle, per strada davanti alle porte, perché ha la natura della madre e il bisogno l'accompagna sempre. D'altra parte, come suo padre, cerca sempre ciò che è bello e buono, è virile, risoluto, ardente, è un cacciatore di prim'ordine, sempre pronto a tramare inganni; desidera il sapere[32] e sa trovare le strade per arrivare dove vuole, e così impiega nella filosofia tutto il tempo della sua vita, è un meraviglioso indovino, e ne sa di magie e di sofismi. E poi, per natura, non è né immortale né mortale. Nella stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi ritorna alla vita grazie alle mille risorse che deve a suo padre, ma presto tutte le risorse fuggono via: e così non è mai povero e non è mai ricco.

Vive inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come accade: nessun dio si occupa di filosofia e nessuno desidera diventare sapiente, perché tutti lo sono già. Chiunque possegga davvero il sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche chi è del tutto ignorante non si occupa di filosofia e non desidera affatto il sapere. E questo è proprio quel che non va nell'essere ignoranti: non si è né belli, né buoni, né intelligenti, ma si crede di essere tutte queste cose. Non si desidera qualcosa se non si sente la sua mancanza".

"Ma allora chi sono i filosofi, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?"

"È chiaro chi sono: anche un bambino può capirlo. Sono quelli che vivono a metà tra sapienza ed ignoranza, ed Èros è uno di questi esseri. La scienza, in effetti, è tra cose più belle, e quindi Èros ama la bellezza: è quindi necessario che sia filosofo e, come tutti i filosofi, è in posizione intermedia tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di questo è nella sua origine, perché è nato da un padre sapiente e pieno di risorse e da una madre povera tanto di conoscenze quanto di risorse.

Così, mio caro Socrate, è fatta la natura di questo dèmone. L'idea, però, che tu ti eri fatta dell'Èros non mi sorprende per nulla: da quel che capisco dalle tue parole, tu credevi che Èros fosse l'amato, non l'amante. Per questa ragione, senza dubbio, ti sembrava che fosse pieno di ogni bellezza. Infatti l'oggetto dell'amore è sempre bello, delicato, perfetto, sa dare ogni felicità.

Ma l'essenza di chi ama è differente: è quella che ti ho prima descritto".


La filosofia come “recupero” della sapienza

G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1988, p.13-14

Le origini della filosofia greca, e quindi dell’intero pensiero occidentale, sono misteriose. Secondo la tradizione erudita, la filosofia nasce con Talete[33] e Anassimandro[34]: le sue origini più lontane sono state cercate nell’Ottocento, in favolosi contatti con le culture orientali, con il pensiero egiziano e quello indiano. Per questa via non si è potuto accertare nulla, e ci si è accontentati di stabilire analogie e parallelismi[35]. In realtà il tempo delle origini della filosofia greca è assai più vicino a noi. Platone chiama “filosofia”, amore della sapienza, la propria ricerca, la propria attività educativa, legata ad un’espressione scritta, alla forma letteraria del dialogo[36]. E Platone guarda con venerazione al passato, a un mondo in cui erano esistiti davvero i “sapienti”. D’altra parte la filosofia posteriore, la nostra filosofia, non è altro che una continuazione, uno sviluppo della forma letteraria introdotta da Platone; eppure quest’ultima sorge come un fenomeno di decadenza, in quanto “l’amore della sapienza” sta più in basso della “sapienza”. Amore della sapienza non significava infatti, per Platone, aspirazione a qualcosa di mai raggiunto, bensì tendenza a recuperare quello che già era stato realizzato e vissuto.


Dalla follia derivano i beni più grandi

Platone, Fedro, 244 A – B

Invece, i beni più grandi ci provengono mediante la follia (manìa) che ci viene data per concessione divina.

Infatti, la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, quando si trovavano in stato di mania, procurarono all’Ellade molti e bei benefici e in privato e in pubblico, mentre, quando si trovavano in stato di senno, ne procurarono pochi o nessuno.

 

G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1988, p.20-21

È dunque posto in evidenza sin dal principio il collegamento tra “mania” e Apollo. In seguito si distingueranno quattro specie di follia, la profetica, la misterica, la poetica e l’erotica: le ultime due sono varianti delle prime due. La follia profetica e quella misterica sono ispirate da Apollo o da Dioniso (sebbene quest’ultimo non sia nominato da Platone). Nel Fedro in primo piano sta la “mania” profetica, al punto che la natura divina e decisiva della “mania” è testimoniata per Platone dal costituire il fondamento del culto delfico. Platone appoggia il suo giudizio con un’etimologia: la “mantica”, cioè l’arte della divinazione, deriva da “mania”, ne è l’espressione più autentica. Quindi la prospettiva di Nietzsche non solo dev’essere estesa, ma anche modificata. Apollo non è il dio della misura, dell’armonia, ma dell’invasamento, della follia. Nietzsche considera la follia come pertinente al solo Dioniso, e inoltre la circoscrive come ebbrezza. Qui un testimone del peso di Platone ci suggerisce invece che Apollo e Dioniso hanno un’affinità fondamentale, proprio sul terreno della “mania”; congiunti, essi esauriscono la sfera della follia, e non mancano appoggi per formulare l’ipotesi – attribuendo la parola e la conoscenza ad Apollo e l’immediatezza della vita a Dioniso – che la follia poetica sia opera del primo, e quella erotica del secondo.

Concludendo, se una ricerca delle origini della sapienza nella Grecia arcaica ci porta in direzione dell’oracolo delfico, della significazione complessa del dio Apollo, la “mania” ci si presenta come ancora più primordiale, come sfondo del fenomeno della divinazione. La follia è la matrice della sapienza.


La sfida mortale dell’enigma

G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1988, p.49-51

Attraverso l’oracolo, Apollo impone all’uomo la moderazione, mentre lui stesso è smoderato, lo esorta al controllo di sé, mentre lui si manifesta attraverso un “pathos” incontrollato: con ciò il dio sfida l’uomo, lo provoca, lo istiga quasi a disubbidirgli. Tale ambiguità si imprime nella parola dell’oracolo, ne fa un enigma. L’oscurità paurosa del responso allude al divario tra mondo umano e divino. […] Ma sin da epoca antichissima l’enigma tende a staccarsi dalla divinazione. L’esempio più celebre è fornito dal tenebroso mito tebano della Sfinge. Anche qui l’enigma sorge dalla crudeltà di un dio, dalla sua malevolenza verso gli uomini. La tradizione è incerta se sia stata Hera, oppure Apollo, a mandare a Tebe la Sfinge, mostro ibrido che simboleggia l’intrecciarsi di un’animalità feroce alla vita umana. La Sfinge impone ai Tebani la sfida mortale del dio, formula l’enigma sulle tre età dell’uomo. Solo chi scioglie l’enigma può salvare se stesso e la città: la conoscenza è l’istanza ultima, rispetto a cui si combatte la lotta suprema dell’uomo. L’arma decisiva è la sapienza. E la lotta è mortale: chi non risolve l’enigma è divorato o strozzato dalla Sfinge, chi lo risolve – soltanto ad Edipo tocca la vittoria – fa precipitare la Sfinge nell’abisso.


Il mondo è una favola

“Il mondo è una favola”. A prima vista, sembra un’affermazione paradossale. Ma bisogna abituarsi a non temere i paradossi. Per paradosso s’intende un’affermazione inaspettata, incredibile, strana, “contraria alla comune opinione” (dal greco parà dòxa, “in opposizione all’opinione”). Spesso è tale da disorientare tanto chi l’ascolta quanto chi la pronunzia. Manca l’equilibrio, si incespica, però guai a lasciarsi andare: superando gli ostacoli s’impara a camminare, si esercita la volontà. E poi, ciò che è paradossale per me, può non esserlo per te. Allenarsi ai paradossi significa anche allenarsi alla Differenza e la Differenza è una ricchezza assai grande per ciascuno di noi. È difficile che si progredisca senza trovare l’occasione di confrontarsi con ciò che è Diverso. Di occasioni c’è ne sono tante, basta guardarsi intorno.

Ma torniamo all’affermazione iniziale. Il mondo è davvero una favola! Quello dei cosiddetti “adulti” ancor più di quello dei bambini! Ma come? – verrebbe da chiedersi – la realtà è pura invenzione? è opera della nostra fantasia? forse che la scienza, la matematica, il senso comune non ci parlano di un “mondo” che nulla ha a che vedere con il regno delle favole? insomma, sogno o son desto? Tutte domande lecite, per carità. Cerchiamo di capirci meglio.

Innanzitutto, analizziamo la frase e le parole che la compongono. “Favola” vuol dire “racconto”. È una parola antica, come la maggior parte delle parole che utilizziamo quotidianamente, così, senza pensarci. I latini dicevano “fabula”. Nella parola è rintracciabile una radice linguistica ancora più antica “fa/e” (indoeuropeo) che si ritrova nei verbi latino (fari) e greco (femì) che indicano “dire”, “parlare”, “narrare”. Con il dire si dà significato a quello che si dice, in qualche modo lo si crea, si fa in modo che esista, che prenda forma e corpo. Non a caso, il poeta dicendo “crea”, “fa essere” (poièo in greco significa proprio “fare”, “produrre”).

Con “mondo” (dal latino mundus) intendiamo l’insieme delle cose esistenti, stelle, pianeti, uomini, alberi, animali, oggetti, e via dicendo. Nel concetto di mondo, i Greci dicevano kòsmos, è compresa l’idea di un qualche ordine armonico, di una o più leggi che fanno essere le cose in questo modo qui, piuttosto che in un altro. Il sole sorgendo a est (levante) e tramontando ad ovest (ponente) segue un certo ordine. La luna cresce e decresce sotto i nostri occhi a fasi alterne, sempre le stesse, da che mondo è mondo (ossia, da quando le cose le vediamo ordinate in questa maniera qui). Sulla luna, per esempio, sono state dette e scritte tante cose. Trattati di astronomia, se la si considera semplicemente un corpo celeste, o preghiere levate a Selene, se la si considera una dea. La luna è il satellite della Terra, ma è anche l’interlocutore del poeta. Ma tutti noi, alla fine, siamo poeti. Confidarsi con la luna, interrogare il suo pallido ed enigmatico chiarore in una notte limpida, è un’esperienza possibile, alla portata di tutti. Basta fare un po’ di pulizia dentro, lasciar andare i pensieri quotidiani, parlare facendo zampillare la voce che giace inespressa in ciascuno di noi. Parlando col corpo e con la mente diamo significato a ciò che siamo e a ciò che ci circonda, attribuire significati equivale a conoscere e conoscere è magia. Il mago che è in noi scopre equilibri ed armonie nascoste. Con la parola rende certo ciò che i più giudicano improbabile, intessendo trame fantastiche, favolistiche, crea teorie scientifiche, interrogando conosce, cercando risposte incontra sé stesso. Il mondo è soltanto una favola. Quel “soltanto” lo si potrebbe giudicare un limite. Ma gli antichi pensavano che non vi fosse armonia, cosmo, mondo senza limiti. Conosciamo le cose attraverso la loro forma: e che sarebbe della forma senza contorni ben delineati? “Soltanto” indica apertura.

Una scuola che intenda preparare alla vita senza insegnare a raccontar favole, traghettando il fanciullo che è in noi verso l’adulto, non è degna d’essere vissuta.


Gli dèi

Gli dèi e gli eroi sono morti perché noi abbiamo disimparato ad osservarli, a dar loro forma e vita, abbiamo disimparato a stupirci.

È sufficiente recuperare la capacità di osservare per scoprire che “tutto è pieno di dèi”. Gli antichi sapienti, secondo la testimonianza di Aristotele (che cita Talete nel Primo Libro della Metafisica), avevano familiarità con il divino, nonostante, in apparenza, si occupassero di phýsis, ossia della natura, indagandone le cause materiali. Materia ed energia, corpo e spirito, umano e divino, erano indistinti per quei saggi. La conoscenza abbracciava le cose nella loro interezza. Un fenomeno era quello che era, un accadimento organico, ben rotondo, tutt’intero.

Questo avveniva prima che gli uomini imparassero a servirsi di una certa facoltà della mente, denominata “intelletto” (lat. inter-lego, scelgo tra, conosco separando), elevandola a misura di tutto ciò che è. Da quel momento, la conoscenza è diventata sinonimo di “autopsia”, l’intelletto un bisturi da maneggiare con cura, sezionando, distinguendo, smembrando il tutto in parti. Conoscere finisce con l’assomigliare sempre più ad un parcellizzare le cose, i corpi, i fenomeni naturali, distinguere l’indistinto, fissare nell’immobilità teorica ciò che è sempre in movimento, fermare la vita in una morte illusoria per poterne classificare gli elementi costitutivi. Tra un colpo di bisturi e l’altro, l’anima evapora via, lo spirito si cristallizza, gli dèi abbandonano la terra. E i filosofi, gli scienziati si affannano, attraverso i ragionamenti dialogici, a ricucire ciò che hanno tagliato, a rimettere tutte le parti insieme, sperando di ricostituire l’antica unità. Ma ormai la frittata è fatta. Un agglomerato di parti non dà il tutto. Da pezzi di cadaveri saldati alla bell’e meglio si ricavano soltanto grigi spettri teorici, vuote formule matematiche, parole vane che fagocitano altre parole. Il mostro di Frankenstein è la metafora di questo tipo di scienza.

Per questo è difficile comprendere le parole degli antichi sapienti greci, indossare la loro mentalità come un abito comodo e confortevole. Essi non distinguevano ciò che noi distinguiamo, e non per ignoranza, non per scarsità di mezzi intellettuali. Guardavano alla natura essendovi immersi, vivendo in comunione con il divino che della natura è il senso più profondo. Recuperare attraverso le loro pur frammentarie visioni questa mentalità, vorrebbe dire molto, moltissimo per il nostro futuro. Chi non conosce la vita è come se non vivesse. E ci è data soltanto una chanche. Che responsabilità tremenda e magnifica nello stesso tempo!

Ma allora gli dèi esistono davvero? Trovateli, almeno una volta. È un’esperienza che vale la pena fare. Ed è concreta, vitale, non immaginaria.

Recatevi presso un tempio antico, in un parco archeologico. Ce ne sono moltissimi in Italia e in tutto il Mediterraneo. Camminate piano e con circospezione. La gente che avete intorno non conta. Le chiacchiere non hanno alcun significato. Siate soli con voi stessi, per qualche minuto. Mettete a tacere i pensieri che si affollano nella vostra mente. Anzi, lasciateli semplicemente passare, senza che s’impiglino nella vostra coscienza. Salite i gradini del tempio, lo sguardo che corre lungo le colonne, in alto verso l’architrave, sino a naufragare nell’azzurro adamantino del cielo. Lasciatevi inondare dalla luce del sole, assorbitene il calore, dondolatevi nei colori, cullatevi nella brezza leggera che viene dal mare. Assaporate il sale e l’odore della terra e delle erbe, riempitevi le orecchie col frinire delle cicale. Accarezzate i marmi e le scanalature delle colonne: il brivido freddo del loro contatto vi scivolerà lentamente sotto la pelle. Varcate la soglia del tempio, la fronte dritta, lo sguardo fisso dinanzi a voi. Ora, socchiudete per un momento le palpebre e tirate un bel respiro. Vivete e basta, per un attimo, un solo interminabile attimo. Vivete. In quel preciso istante avrete incontrato il dio.


Della giusta ambizione (ovvero: dei fini e dei mezzi)

Nella vita occorre essere ambiziosi. È un luogo comune, uno slogan che avrete già ascoltato in tante salse diverse. In genere, quando si parla d’ambizione, la gente fa riferimento a personaggi noti – “ah, potessi avere il prestigio, i quattrini, il fisico di tizio o caio!” –, oppure a professioni particolarmente interessanti e remunerative – “quando sarò medico, ingegnere, giornalista, allora…” –, o ancora al possesso di determinati beni, una villa, un’auto sportiva, e di determinate possibilità – “eh, lui sì che può permetterselo!”. D’altra parte, spesso ci si consola con affermazioni altrettanto scontate, del tipo “i soldi non comprano la felicità”, “chi si accontenta gode”, o giù di lì.

“Sì certo, ma io…” – mi sembra di sentire qualcuno di voi protestare, laggiù in fondo. Tranquilli, non ho intenzione di farvi la predica, non è nello stile del filosofo l’esser un moralista. Però il ragionare, il sottoporre a vaglio serrato qualsiasi opinione, questo sì. Ed è duro, faticoso, proprio hard. Tutte le cose veramente importanti e preziose che vi troverete a vivere lo sono. La soddisfazione è direttamente proporzionale allo sforzo e, spesso, alla sofferenza. È legge di natura, non si sfugge. Allora, cosa c’è di male a discutere intorno a qualche luogo comune? Chissà che non si riesca a stabilire quale debba essere la giusta ambizione.

La scienza che si occupa del comportamento umano, in filosofia, si chiama etica (dal greco èthos, costume, abitudine, condotta di vita). Quando ci interroghiamo su cosa sia buono e giusto fare in generale o in una determinata circostanza, di fatto, ci stiamo ponendo una “questione etica”. Spesso, di fronte a simili faccende, tendiamo ad assumere posizioni relativiste o di convenienza, come se si trattasse di un campo assolutamente incerto, dove un’opinione vale l’altra. In realtà, ce ne si renda conto o meno, abbracciamo un’idea guida, questa sì ferma e indiscutibile: comunque vadano le cose, occorre difendere il nostro personale interesse. Sembrerebbe paradossale, ma è così. È tutto relativo, e siccome la relatività domina su ogni aspetto della nostra vita, ebbene, tanto vale tirare l’acqua al proprio mulino. Gli altri, del resto, non si comportano altrimenti, e se lo fanno, bene, affari loro. Non è forse vero che la gente si divide in stupidi e furbi e che la sorte arride sempre a questi ultimi? Appare chiaro, a rifletterci su con un minimo di onestà intellettuale, che la conclusione del ragionamento neghi clamorosamente la premessa da cui si era partiti: è tutto relativo ed opinabile salvo il mio personale interesse. Ma la maggior parte di noi non bada alla contraddizione, semplicemente ci convive.

Facciamo qualche esempio concreto, in modo da non lasciare alcun dubbio interpretativo. Domani il professore interroga. Bastardo, se ne è uscito così, all’improvviso, quando ormai la campanella era suonata e non ha lasciato spazio a repliche o contestazioni. Fermo restando che per domani non sarò mai pronto/a, ho davanti due opzioni: rischiare il votaccio oppure simulare il mio solito malessere, condito, a cena, con una ben rotonda lamentazione sui carichi di lavoro e l’insensibilità degli insegnanti, per guadagnarmi la comprensione di mammà. La mia assenza, nel mucchio, passerà inosservata e a sbrogliare la situazione provvederà il solito secchione. O altrimenti, tanto peggio per loro…

Signore e signori, non vi scandalizzate: è capitato a tutti di pensare così, almeno una volta. E anche i prof, da giovani, sono stati dall’altra parte della barricata! Il relativismo, qui, è meramente pretestuoso. L’azione che ci accingiamo a compiere (fare sega) è finalizzata ad ottenere il bel voto, o meglio ad evitare il brutto voto. Abbiamo assunto, con maggiore o minore sincerità nei nostri stessi confronti, che il bel voto sia bene e il brutto voto sia male.

In altre situazioni, invece, ci spogliamo dei panni relativisti e diventiamo, subitamente, assolutisti e dogmatici[37]. È in gioco un qualche sacrosanto principio, che so, il fatto che si era deciso, all’inizio dell’anno, di procedere alla valutazione tramite verifiche programmate, ce lo ricordiamo tutti bene, come fosse ieri l’altro!, e invece il docente, contravvenendo alla sacralità della sua parola e al patto giurato con gli studenti, ha deciso di interrogare a casaccio. Fuoco e fiamme! Eccoci lì tutti insieme, onest’uomini, secchioni, opportunisti e sfigati, a far barricate, ad invocare giustizia ed onestà, rispetto e legalità, neanche fossimo i giudici di “Mani Pulite”.

Insomma, passando dal relativismo al dogmatismo etico o morale[38], a volte il risultato non cambia: mettiamo maschere diverse, ma abbiamo di mira sempre il nostro particolare interesse.

Gli esempi tratti dal quotidiano vivere scolastico non sono così bizzarri come sembrerebbero e ci aiutano a comprendere meglio quei luoghi comuni sull’ambizione di cui parlavamo prima. La sostanza, cari miei, non cambia. L’unica differenza sta nella “prospettiva” d’osservazione: la scuola riguarda l’oggi, il vostro essere adolescenti, mentre quattrini, professioni, possibilità, si proiettano nel futuro, lasciandovi presagire il cosiddetto mondo degli adulti, quello che spesso viene definito, tra l’eufemistico e il crudo, la “realtà” (scontrarsi con la realtà, fare i conti con la realtà, essere realisti, cadere dal mondo – irreale – delle nuvole, ecc.).

Insomma, non è difficile comprendere che tra l’oggi e il domani, eticamente parlando, non vi è poi una grande differenza. Il sistema di valori al quale vi state uniformando oggi, l’abitudine mentale e comportamentale (Aristotele direbbe l’èthos) che andate maturando qui a scuola ve la porterete appresso per tutta la vita. Non c’è soluzione di continuità, né veri e propri salti di livello. Sarete quello che siete (o peggio ancora, quello che vi avranno insegnato ad essere). Certo, potrete sempre ragionare, scegliere, rifiutare modelli precostituiti o battervi per un mondo diverso; ma sempre all’interno delle abitudini e degli atteggiamenti etici che avrete fatto vostri. Nulla viene dal nulla.

Allora, se non vi dispiace, torniamo all’esempio di prima. Se oggi qualcuno per il bel voto decide di marinare la scuola, lasciando i compagni di classe nei guai, cosa pensate che farà domani con i propri colleghi di lavoro quando sarà in gioco un aumento di stipendio o una promozione? Chissà che l’assenteista strategico di adesso, fra qualche anno, in fabbrica o in ufficio, non si trasformi nel più assiduo operaio o impiegato che ci sia, presentandosi al lavoro persino nel giorno dello sciopero nazionale di categoria, quando molti sono in piazza a protestare per il rinnovo del contratto, anche del suo contratto! Il bene continuerà a coincidere con il proprio interesse, lo si chiami prestigio, carriera, avanzamento professionale, gratifica e chi più ne ha più ne metta.

I tipi umani non cambiano. Chi fa l’omertoso in classe, lo farà anche in futuro con i soggetti con i quali si troverà a convivere. Oggi preferisce tacere e non esporsi, anche in presenza di una palese ingiustizia, per timore di rivalse da parte dell’insegnante o dei compagni. Domani, chissà, forse si aggirerà tra quegli stessi corridoi ed aule scolastiche, con un registro sotto il braccio e qualche ruga in più sul volto, schivando responsabilità e rotture di scatole con il portare l’indice dinanzi alla bocca e “sssh, anche i muri hanno orecchie!”. Ben’inteso: se c’è qualche “omertoso”, deve esserci anche il “mafioso” di turno. La lupara non serve, basta qualche “raffinata” pressione psicologica, una domanda alla quale la vittima, a priori, non è in grado di rispondere, un ghigno di scherno, una battutina così tanto per.

“Ma insomma – potrebbe ribattere a buon diritto qualche lettore – siamo o non siamo liberi di agire come preferiamo? Vedi che dietro la maschera del filosofo si nasconde il moralista? Lo dicevo io…”. Certo, senza libertà non vi sarebbe etica. Su questo non ci piove. La libertà sta all’etica come l’unità sta all’aritmetica, o il punto e la linea alla geometria: non è semplicemente fondamentale ma altresì fondante[39]. Chi non credesse alla libertà di scelta, farebbe bene a terminare questa lettura qui ed ora (esercitando, in ogni caso, la sua personale libertà…). Il vero problema dell’etica risiede piuttosto nella consapevolezza e nella convinzione di quello che si fa e del perché lo si fa. Chi non si pone questo problema, non può dirsi veramente libero.

Mi spiego. Molte volte capita di agire così, di riflesso o d’istinto, e di riflettere su quello che si è fatto solo in un secondo tempo. È assolutamente normale e comune. Nella maggior parte dei casi vi è l’opportunità di pentirsi o di ammettere sinceramente con se stessi che, posti dinanzi alla medesima situazione, certo, non potremmo fare a meno di agire come abbiamo effettivamente agito. Ci servirà da lezione (in positivo o in negativo) per la prossima volta. In altre occasioni, tuttavia, non siamo così fortunati da avere una seconda possibilità: un rapporto si è incrinato definitivamente, un’occasione è sfumata e, come dice il proverbio, “ogni lasciata è persa”. Da qui, la necessità di riflettere costantemente sulla propria condotta, di chiarirsi le idee su cos’è buono e giusto fare nella vita di tutti i giorni e, ancor di più, cosa fare della vita.

Sembra banale, ma se provate a richiamare alla mente i personaggi che ho tratteggiato prima, l’opportunista, l’assenteista, l’omertoso, il mafioso, ecc., e li confrontate con quelli che la realtà vi pone sotto gli occhi, scoprirete che solo una minima parte sono consapevoli di incarnare quel determinato personaggio e solo pochissimi lo hanno scelto sapendo cosa significasse effettivamente. Tutti gli altri hanno una scusa pronta, una scusa con se stessi, mettono una maschera guardandosi allo specchio, vivono nell’illusione e nella menzogna. Basano la loro esistenza sull’opportunità del momento, sull’evanescenza del modo comune di pensare, del Si dice e del Si fa. Non agiscono realmente, piuttosto sono agiti. Credono di scegliere, ma qualcun altro sceglie per loro. Sono liberi solo in potenza, non in atto[40], perché la libertà è nulla senza la consapevolezza.

Allora, qual è la giusta ambizione? Essere liberi e decidere da sé cos’è bene e cos’è male, distinguendo i fini dai mezzi.

“Mio Dio! La situazione si complica! Che c’entrano ora fini e mezzi?”. Il fine rappresenta il perché di una determinata azione; il mezzo il modo che si ritiene più idoneo per raggiungere lo scopo. La “bontà” di un fine è in sé e per sé, mentre la “bontà” di un mezzo si misura esclusivamente in rapporto al fine (idoneità o inidoneità). Spesso accade che si scambi l’uno con l’altro, come si dice, “lucciole con lanterne”. In che senso? È facile. La vita scolastica dovrebbe essere finalizzata alla crescita e allo sviluppo intellettuale dell’individuo e i “voti” essere dei meri strumenti di misurazione al servizio di tale attività; eppure, come dicevamo prima, si fa sega per evitare di prendere un brutto voto (tralasciando due cosine da niente come responsabilità e solidarietà). E via dicendo. Il denaro servirebbe al sostentamento materiale della nostra esistenza, lei sì davvero fine a se stessa. Eppure, non è assolutamente raro lo si trasformi in una specie di totem cui dedicare – o sarebbe meglio dire “sperperare” – anni e anni del proprio tempo. L’apparire in un certo modo, la greca cosmetica (da kòsmos ordine armonico, naturale), la bellezza, che certe sirene contemporanee riducono a mero look – non vi sembra greve, indelicato, infine brutto il suono della stessa parola luk? –, rappresenta un canale di comunicazione per mostrare quello che si è veramente. Ma anche in questo caso, un ben noto luogo comune inverte l’ordine dei fattori, sconvolgendo l’equazione esistenziale: si è indotti a percepire il mezzo come fine, a sottomettere l’essere all’apparire. Quante persone, giovani e meno giovani, in nome dell’impersonale luogo comune, si condannano a vivere in uno stato di perenne insoddisfazione, in balia dell’ultima scintillante proposta di mercato? Basterebbe poco – ma un poco tanto! – per sfuggire al demone dell’irrequietezza, dell’illusione / delusione, dello scontento, del rifiuto di sé e degli altri: quella consapevolezza che si diceva prima, la sola attività in effetti soddisfacente.

Non vogliono annoiarvi oltre. Del resto, l’etica è una disciplina reale, anzi realissima. Ne va della vita di ciascuno. Gli errori si pagano sempre in prima persona. E non c’è bisogno di credere a giustizie sovraterrene, no. Ognuno è salvatore e giustiziere per se stesso.

Un’ultima indicazione: il bene, qualunque esso sia, è comune, esattamente come la libertà. Una determinata condotta di vita può dirsi “etica” soltanto se riflette un modello comportamentale, una regola, una legge valida per tutti, da tutti razionalmente comprensibile ed accettabile. Nel Vangelo sta scritto, ancor più semplicemente: “fai al prossimo tuo quello che vorresti fosse fatto a te stesso”. L’interesse personale, quello delle scenette che vi ho sopra narrato, sembrerebbe negare ciò che è comune, razionale, evangelico. Siete liberi di giudicare, sono problemi vostri. Ad ognuno la sua giusta ambizione.


Imparare a pensar semplice (ovvero l’etica delfica)

Viviamo in un mondo complesso, si suol dire. E la scuola poi: complicazioni su complicazioni! La conoscenza sembra esser proprio un affare difficile, una china lungo cui arrampicarsi, procedendo di astrazione in astrazione. La strada è impervia, tortuosa. Ci si abitua a pensare che la meta sia quasi irraggiungibile, che esser “sapienti” significhi aver la capacità di formulare concetti astrusi, quasi fossimo degli acrobati della mente. Il più bravo compie acrobazie che alla maggior parte non riescono. Per queste acrobazie avrà premi e riconoscimenti, dai genitori, dai professori, avrà l’invidia dei compagni, e un domani, chissà, una bella laurea, un posto di lavoro, un sacco di denaro, l’indipendenza, la libertà di fare quel che più desidera.

Oppure, il migliore è colui che sa tante cose, le sue conoscenze spaziano da un settore all’altro, dalla matematica alla fisica, dalla letteratura alla storia, e chi più ne ha più ne metta. Il migliore, insomma, assomiglia tanto al campione dei quiz televisivi: memoria brillante che si trasforma in gettoni d’oro, un gioco di prestigio, un’alchimia dei tempi moderni. Morale della favola: si studia per imparare cose complicate e, possibilmente, impararne tante.

C’è un’altra filastrocca che recita così: lo scopo dello studio è il possesso di nozioni, concetti, verità. Conoscere significa impadronirsi di specifiche conoscenze in questo o in quel campo. Il fine, dunque, è l’avere. Ho fatto mio quanto scritto nel libro, lo so ripetere, ergo (in latino “quindi”) conosco.

Se le cose stanno così, allora gli antichi Greci erano degli ingenui. Chiaro, noi abbiamo la loro lezione e, in aggiunta, ventisei secoli alle spalle, sappiamo molte più cose. I sapienti erano dei fanciulli ed Apollo un dio primitivo. Pensate, si limitavano a dire: “conosci te stesso”, “diventa quello che sei”, “non superare il tuo limite”. Ripetere queste formuline, oggigiorno, al massimo può servirci a superare la prima interrogazione di filosofia, a far contento il prof, che ci tiene tanto! Considerazione legittima, per carità. Ma…

C’è un “ma”, come in tutte le storie che si rispettino. Quelli che chiamiamo “sapienti” non erano affatto ingenui. Altrimenti tante generazioni di uomini e donne non li avrebbero ricordati come tali! Pensate: i padri dei padri dei padri dei padri dei padri e così per altre settantatre volte (un secolo corrisponde, grosso modo, a tre generazioni: basta moltiplicare per ventisei e si arriva al VI secolo a.C.). Spesso si è portati a ritenere ignoranti coloro che, semplicemente, non la pensano come noi. Sistemi di pensiero alternativi, visioni del mondo e filosofie di vita discordanti non sono misurabili e confrontabili in termini di maggiori o minori quantità di nozioni possedute, di maggiore o minore approssimazione alla verità (a quale “verità” poi?). La differenza non è quantitativa, bensì “qualitativa”.

Veramente difficile è imparare a pensare vestendo gli altrui panni, mettendosi al posto dell’ “Altro da sé”. Il nostro modo di considerare il mondo e la vita è soltanto uno degli infiniti modi possibili. Ci sono tante culture diverse nello spazio geografico e nel tempo storico. Non si tratta di imparare altre nozioni, ma di vedere con occhi nuovi, di considerare la stessa cosa da punti di vista inediti. Ad ogni batter di ciglia una rivoluzione! Ma è così, in fondo: la vita è sempre nuova ad ogni istante che passa. Ogni momento è straordinario perché si crea dal nulla e non assomiglia a nessuno di quelli che l’ha preceduto o lo seguirà. È una questione di qualità, è sempre una questione di qualità. La qualità è incommensurabile. Nessun metro, nessun regolo, nessun microscopio può quantificarla. È contemporaneamente una e molteplice. La dolce frenesia che prende allo sbocciare di un nuovo amore non puoi tagliarla, misurarla, dividerla in parti. È qualità allo stato puro. È vera perché la si vive, punto e basta. Si può tentare di esprimerla riconoscendovi significati che un attimo prima non si credeva nemmeno di poter concepire. Eppure è lì. Non si sa da dove viene, né dove andrà a finire. È. (Quanta magia in questo verbo “Essere”!)

Se sei d’accordo, proviamo a riconsiderare quanto dicevano gli antichi sapienti. Ti accorgerai che è semplice. Non solo è “semplice” da capire, a duemilaseicento anni di distanza, ma rappresenta un “modo semplice di pensare”, diretto, qualitativo.

“Conosci te stesso”. Il nostro sguardo, generalmente, si rivolge verso l’esterno. Le conoscenze, dicevamo, sono considerate comunemente cose di cui “appropriarsi”, quasi si potessero tesaurizzare, rinchiudere in un forziere come monete. Ma dentro di te non ci sono cose da afferrare. Gli stessi pensieri vanno e vengono alla velocità della luce, sono evanescenti. Fermati un attimo. Considera cosa sei. Prova ad esprimere un concetto. Non ci riuscirai. Tu non sei concettualizzabile. Non sei una conoscenza da acquisire e da maneggiare per superare il compito in classe, per far bella figura o per andare all’università. Fermati. Cosa senti? Il respiro che entra ed esce dai polmoni, il cuore che batte, un grumo di sensazioni e sullo sfondo… silenzio. Questo è ciò che si intende per “percezione qualitativa”, conoscenza diretta, vita. Tutta la conoscenza di cui siamo capaci in quanto uomini e donne, a ben guardare, non è altro che vita consapevole d’esser vita, natura in divenire, appetito e percezione, puro movimento. Questa consapevolezza è cruciale: scuola, università, lavoro, riconoscimenti, ecc. sono in funzione di ciò che tu sei, sono in funzione della vita, non sono “la vita”. Qui è in gioco molto di più: il tuo benessere, in senso letterale, “essere bene”, stare bene con te stesso. Allora, forse avrai già compreso che la conoscenza è connessa indistricabilmente con la vita ed è, appunto, una questione di “essere” non di “avere”.

Se hai compreso il senso del “conosci te stesso”, puoi rivolgere lo sguardo verso l’esterno, forte di tale consapevolezza. Continuerai semplicemente a vedere oggetti manipolabili, corpi che parlano, libri e quaderni da usare, una realtà complessa da imbrigliare in concetti, nozioni, formule? Oppure, con maggiore coerenza, riconoscerai in tutto ciò che ti circonda la stessa silenziosa vita che hai scoperto in te, che hai scoperto essere te!

“Diventa quello che sei”. La conoscenza deve tradursi in un atto di volontà. Non è facile. Occorre superare gli ostacoli posti lungo il cammino dal tuo stesso pregiudizio, primo fra tutti l’attaccamento a quella mentalità di cui ragionavamo all’inizio: la quantità al posto della qualità, l’avere al posto dell’essere, il moderno al posto dell’antico. È necessario vincere il proprio orgoglio, la presunzione che ci sia un’unica ragione e che questa appartenga a te e ai tuoi simili. Mettersi in discussione, darsi battaglia armati di spirito critico e non demordere mai. Non si diventa quello che si è veramente, senza sofferenza, senza una grande sofferenza. E pochi hanno il coraggio di affrontare questa prova lunga una vita.

Nessuno vuole morire. Non basta una vita a preparare alla morte. Lo stesso vale per opinioni, pregiudizi, sentimenti radicati in noi. Non cedono facilmente. E sono nemici astuti. Si tratta, a ben guardare, di quel fascio di energie che comunemente chiamiamo “Io”. Per diventare quello che sei devi buttare a mare questo benedetto “Io”, mettere a tacere la sua voce impertinente! E, per giunta, devi farlo con dolcezza!

“Non superare il tuo limite”. Essere sé stessi significa accettarsi per quello che si è, accettare i propri limiti. È questa la chiave della cosiddetta “felicità” (in greco eudaimonìa, eu-dàimon, demone benevolo, ossia l’esser posseduto da un buon demone). Il contrario del “giusto mezzo” è la hýbris (greco “superbia”, “tracotanza”), l’andare oltre i limiti imposti dalla natura a ciascun essere. È come guidare un’automobile: una vita ben vissuta richiede consapevolezza dei propri mezzi e molta prudenza. Semplicemente la cosa giusta al momento giusto.

È importante ricordarsi di quel “nulla” da cui ogni attimo emerge per poi farvi ritorno, di quel silenzio infinito che si scorge sul fondo di sé stessi e che è, in ultima istanza, il vero Sé. In ogni fenomeno occorre onorare la dimensione del mistero, quel qualcosa di inconcepibile, inesprimibile, intangibile che tutto avvolge e di tutto rappresenta la vera ragione. È il “divino” a dar senso all’umano. Volersi sostituire al divino significa andare oltre il limite, fare del male a sé stessi, punirsi da soli.

Tutto qui. Tante parole messe in fila una dopo l’altra per esprimere un pensiero “semplice”. Ma semplice non vuol dire “facile”. Conoscere è imparare ad essere davvero quel che si è. È semplice perché è immediato, alla portata di tutti. Gli animali, per esempio, ci riescono senza troppo sforzo. Per noi, spesso, è più facile essere complicati che semplici. Senza sforzo, senza disciplina, senza passione, la semplicità rimane soltanto un sogno che svapora col trascolorare della giovinezza nell’età adulta. Questo, per gli antichi, è il vero senso della conoscenza. La conoscenza non è separata dalla vita, anzi non è separata proprio da niente. È qualità semplice, universale, onnipresente ed onnicomprensiva. Non si impara sui libri, si impara vivendo.


Politico e idiota

Una volta mi è capitato di andare a fare supplenza in una quarta ginnasiale. Era una bella giornata di primavera. I raggi del sole accarezzavano i pesanti tendaggi posti a difesa delle finestre, l’aria era tiepida e frizzante, l’atmosfera della classe rilassata. Raccogliendo qua e là gli sguardi schivi dei ragazzi, pareva abbastanza chiaro che chiedessero, con una sola voce, di essere lasciati in pace. Insomma, niente scuola per un’ora, niente declinare, coniugare, calcolare, storpiare parole in inglese o francese. Per usare il gergo militaresco, i soldati in trincea alzavano bandiera bianca e proponevano un po’ di tregua. Sapevano che altri nemici li avrebbero assediati da lì a poco. Il famigerato “pagellino” di metà quadrimestre pendeva minaccioso sul loro capo, come la più classica delle spade di Damocle. Occhiate languide in direzione della cattedra, un parlottare sibilato, qualche sorriso appena accennato, in attesa che prendessi la parola.

Non sapevano che io ero perfettamente in sintonia con loro: respiriamo tutti la stessa aria e godiamo dello stesso sole. Eppure avrei fatto scuola. Loro non se ne sarebbero nemmeno accorti, perché alla parola “scuola” sono abituati ad associare, spesso, situazioni compassate, impegnative lezioni frontali, righe e righe di bianche formule da ricopiare sul quaderno. Il resto è gioco, disimpegno, sport, tempo libero. Come se le due cose fossero l’una contraria all’altra e, associate allo stesso soggetto nel medesimo tempo e luogo, producessero, ineluttabilmente, una contraddizione[41].

Proprio in quei giorni era tornato d’attualità il dibattito politico-istituzionale intorno all’annosa questione della riforma scolastica. Durante l’inverno si erano svolti gli scioperi di rito, con le altrettanto rituali manifestazioni di piazza, cui erano intervenuti moltissimi studenti. Una breve occupazione dell’edificio aveva concluso il ciclo delle proteste. Poi il silenzio. Dunque, non mi sembrava affatto fuori luogo suscitare un dibattito sull’argomento, sondando le opinioni della classe.

“Allora, ragazzi, che ne pensate di questa riforma? Ci sono molte novità che bollono in pentola… e avete ancora più di quattro anni dinanzi a voi!”. “Scusi professore – una ragazza allampanata dagli occhi un po’ malinconici prende subito la parola – ma non vogliono che si parli di politica in classe…”. Basito. Colpito e affondato. Con un retrogusto di indignazione strisciante, un senso di suprema inadeguatezza. Dura solo un attimo, per fortuna. Col mestiere che faccio, dinanzi ad una platea di quattordicenni non mi è consentito perdermi d’animo. “Va bene, ma fammi capire: chi non vuole che si parli di politica?” “Loro, gli altri professori…”. Per quel giorno, la riforma della scuola fu accantonata. Occorreva parlare di politica.

Prof – Voi state al liceo classico. Studiate la storia antica e il greco. Forse qualcuno sta vivendo una crisi di rigetto, non va tanto d’accordo con queste discipline o con gli insegnanti che le rappresentano. Perciò, vi chiedo solo uno sforzo piccolo piccolo. Cosa significa esattamente “politica”?

Silenzio.

Prof – Suvvia, mica vi mangio. E non faccio nemmeno la spia. Avete già studiato i sostantivi della terza declinazione?

Studente (uno dei tanti) – Sì, l’abbiamo fatto il mese scorso.

Prof – Allora saprete senz’altro il significato della parola pòlis. Ai miei tempi, come esempio, si declinava proprio quella…

Studente – Certo, vuol dire “città”.

Prof – E ditemi, cosa indichiamo esattamente con “città”?

Studente (abbozzando un sorriso) – Professore, ci prende in giro? Città è… come dire Roma, Rieti, Atene…

Prof – Quando diciamo “Roma”, per esempio, ci riferiamo soltanto agli edifici, alle strade, al Colosseo, al Raccondo Anulare, e così via, oppure anche ai Romani che vi abitano?

Studente (un po’ secchioneggiante) – Dipende. Se dico “vado a Roma” intendo la città-città. Insomma, il luogo. Non si tratta di un complemento di moto a luogo?

Studente (irridente) – Ma la “Roma” non è anche la “magica” squadra di calcio, quella di Totti?

Prof – Avete ragione tutti e due. Allora, quando parliamo della “storia romana” a cosa ci riferiamo?

Studente – Si studia l’anno prossimo. I sette re di Roma, la repubblica, l’impero…

Prof – Benissimo. Ma queste sono o non sono delle istituzioni politiche, delle forme di governo create dagli antichi romani? La sigla S.P.Q.R. che trovate su tombini e fontane significa proprio “Senatus PopolusQue Romanus”, il Senato e il Popolo Romano.

Studente (riflessivo e accigliato) – Certo.

Prof – Dunque, possiamo riassumere così: “Roma” indica un complesso di cose, la città nella sua veste urbanistica, i cittadini romani (antichi e moderni), le istituzioni attraverso cui si governano, la cultura del popolo e le sue manifestazioni, anche quelle sportive (Totti e compagni), il tutto visto attraverso la lente d’ingrandimento della storia. Siete tutti d’accordo con questa definizione di massima?

Cenni di assenso, qua e là.

Prof – È corretto desumere che se questo discorso vale per Roma, e Roma è “città”, di conseguenza è vero anche per tutte le altre città senza eccezione?

Studente (in tono canzonatorio) – Magari in piccolo, non ci penso neppure a paragonare Rieti con Roma o Atene!

Prof – Giusto. Però cerchiamo di non perdere il filo del ragionamento. All’inizio qualcuno di voi… tu, al secondo banco... aveva tradotto pòlis con città. E “politico”, fino a prova contraria, è l’aggettivo che deriva da pòlis. Lo potremmo rendere con “della città”, “cittadino”. È chiaro?

Studente – Come no?

Prof – In realtà, sono sinonimi. Voi studiate anche il latino, quindi non mi cadrete dalle nuvole osservando che “città” in italiano deriva dal latino civitas (da cui anche “civiltà”). Insomma, “città”, “civitas” e “pòlis” sono più o meno la stessa cosa. Ora basta con le etimologie. Dopo questa premessa, c’è qualcuno che si sente di rispondere alla domanda iniziale cos’è “politica”?

Studente – Se ho capito bene, dovrebbe riguardare gli affari della città…

Prof – Esattamente, le faccende “pubbliche” che concernono l’intera comunità, tutti i cittadini, nessuno escluso. Se vi ricordate Atene e Roma, prima di estendere il proprio impero, erano delle “città-stato”. Oggigiorno lo stato corrisponde alla nazione, ma nell’antichità e nel Medioevo (avete mai sentito parlare dei Comuni italiani?) stato e città erano praticamente la stessa cosa. Dunque, affari della città e affari dello stato nelle pòleis greche coincidevano. Possiamo affermare, a buon diritto, che non c’è alcuna differenza tra sfera “pubblica” e sfera “politica”. Non a caso i Romani indicavano quello che noi chiamiamo “stato” con res-publica, “cosa pubblica” (da cui “repubblica”). Vi ho confuso le idee?

Studente – Un pochino, prof. Non pensavo che la storia fosse così complicata…

Prof – È vero, scusate, forse abbiamo messo troppa carne al fuoco. Desideravo soltanto che capiste cos’è esattamente questo oggetto misterioso, la politica, di cui è tanto pericoloso discutere insieme… Ma ditemi, se avete un problema che riguarda tutta la classe, per esempio un compito che vorreste spostare o una lezione così oscura da richiedere, come minimo, un’altra ora di chiarimenti, ebbene, non è giusto e legittimo che ne parliate tutti insieme? Ci sono le assemblee degli studenti per questo o no?

Studente (un po’ beffardo) – Professò, non bastano mai! Ce ne vorrebbero molte di più!

Prof – Va beh, così risolvereste il problema alla radice perdendo qualche ora in più, senza contare le feste, gli scioperi, le seghe collettive… lasciamo perdere! Piuttosto, se una questione riguarda tutti i membri della comunità, non importa quanto sia grande, può essere appunto una classe, o un condominio, un piccolo comune, una regione, la nazione o persino il mondo intero, rispondetemi, è corretto o no definirla “questione politica”?

Studente – Allora tutti i problemi che esistono sono politici! Pensavo che lo fossero solo quelli che passano in televisione, di cui si occupano presidenti, ministri, parlamentari, ambasciatori…

Prof – Non esageriamo. Ci sono problemi e problemi. Alcuni concernono esclusivamente la nostra sfera “privata”. Possiamo parlarne con un amico o con un’amica, con i nostri genitori, senza scomodare sindaci ed assessori. Nello stesso tempo, non è corretto affermare che la “politica” è solo quella della televisione, ristretta ad una minoranza di persone che ricoprono cariche istituzionali. Tanto più se si confondono le vere questioni politiche con il teatrino delle polemiche, dello scontro ideologico fine a se stesso, della propaganda e della vuota retorica. Chi pensa (e sono molti!) che occuparsi di politica significhi parlare di “fascisti” e “comunisti”, “global” e “no-global”, “simpatici” ed “antipatici”, oppure indossare una kefjia piuttosto che un giubbotto di pelle, portare i capelli lunghi piuttosto che corti, l’orecchino a destra piuttosto che a sinistra, lasciatemelo dire, non ha capito un bel fico secco!

Sguardi imbarazzati. Guance rosse.

Prof – Occorre andare oltre le apparenze, scavare, riflettere. Il pensiero non si può ridurre a “moda”, né le idee politiche a mere simpatie calcistiche. La realtà è decisamente più complessa...

Studente (con fare impegnato) – Professore, deve ammettere che è difficile raccapezzarsi in mezzo a tante cose. Io ho le mie idee, almeno credo. È che spesso non c’è occasione di parlarne e quando ne parlo succede un casino…

Prof – D’accordo, ti capisco. Resta il fatto che la scuola è di tutti, è pubblica, dipende anche da voi o no? Ma ditemi, se “politico” e “pubblico”, in un certo senso, corrispondono, qual è il contrario di “politico”?

Studente – Ci provo io: anti-politico?

Prof – Perché dev’esserci per forza contrapposizione tra le due cose? Suvvia, ve l’ho accennato prima. Un problema di cuore, per esempio, concerne l’intera comunità o solo il singolo individuo?

Studente (sorridendo) – Anche la persona che ti piace!

Prof – Naturalmente. Dimmi: renderesti pubblica una faccenda che riguarda solo te e lui o lei?

Studente – Per carità, non ci penso nemmeno! Anche se poi, tanto, si viene a sapere.

Prof – D’accordo. Lasciamo perdere chiacchiere e pettegolezzi. Chi deve prendere una decisione in merito, tu oppure la classe?

Studente – Io, senza dubbio. A loro che ne gliene frega!

Risatine sullo sfondo.

Prof – Certamente. È la tua vita sentimentale in gioco. Si tratta di un affare…

Studente - …”privato”?

Prof – Benissimo, ci siamo. Il contrario di “politico-pubblico” è “privato”. Anche i Greci distinguevano nettamente le due sfere. Da una parte c’erano politikà, dall’altra tà ìdia, come dire gli affari della pòlis e gli affari del singolo. Ìdion significa “proprio”, “personale”, “privato”. Tuttavia, l’esser “cittadino”, membro della pòlis, per la mentalità antica era di vitale importanza e, nella scala dei valori, veniva messo al primo posto rispetto alla dimensione “privata”. Lui, il Greco antico, si sentiva innanzitutto polìtes, “cittadino”, e solo in secondo luogo idiòtes, “privato”. Come dire, le faccende di interesse collettivo dovevano essere messe avanti a quelle che riguardavano lui soltanto. E la legge della pòlis, incarnazione della volontà collettiva, era stimata così importante e sacra da dover predominare, sempre e comunque, sulla volontà e il tornaconto del singolo[42].

Studente (acuto) – Scusi, idiòtes suona come “idiota” o sbaglio? Che relazione c’è?

Prof – Non sbagli affatto. “Idiota” ha un significato dispregiativo: “stupido”, “ottuso”, “ignorante”, “rozzo”, “inesperto”. Tutti questi appellativi gli antichi includevano nell’idea dell’uomo che vive come se fosse solo, ai margini della comunità, oggi diremmo da “individualista”. Il filosofo Aristotele, facendosi interprete di questo modo di ragionare, definisce l’uomo politikòn zoòn, “animale politico”. Chi antepone le cose personali, tà ìdia, alla politica, al bene comune, in qualche maniera fa violenza alla propria natura di essere sociale e razionale, si sminuisce, s’istupidisce, retrocede verso la barbarie, si contrappone alla civiltà. Diventa, appunto, “idiota”.

Studente – Ma Lei non aveva detto che esiste anche una sfera privata? In questo senso siamo tutti “idioti”…

Prof – Non esattamente. L’idiozia, come dicevo, consiste nell’anteporre gli interessi personali a quelli della collettività, nel ritenere che il “Bene” (con la B maiuscola) sia un fatto esclusivo, individuale. Non c’è nulla di male, per esempio, nel voler curare i propri affari aumentando benessere e ricchezza, purché non si perda di vista il bene comune e non lo si faccia a scapito degli altri membri della comunità. Che direste di un governante che utilizza la legge e il denaro pubblico per sistemare le proprie faccende? Se “pubblico” e “privato” si confondono, l’idiozia finisce senz’altro col predominare.

Studente (decisamente polemico) – Professore, questa sembra tanto una Sua idea politica! Chi ci dice che Lei sia realmente obiettivo?

Prof – Nessuno. Siete liberi di giudicare con la vostra testa. Però prima occorre che comprendiate, per lo meno, i termini del discorso. Se volete esprimere un’opinione politica, è necessario che sappiate di cosa si sta parlando o no? Dareste credito ad un sedicente esperto di strategie calcistiche che non ha mai dato un calcio al pallone in vita sua? Oppure ad un meccanico che vi si presenti con tanto di tuta ed arnesi ma dimostri di non conoscere il funzionamento di un motore a scoppio? A un avvocato in giacca e cravatta che non abbia mai letto i Codici della legge? Questo dovrebbe essere, in ogni campo, il criterio tra obiettività e parzialità: conoscere l’oggetto del discorso.

La campanella trilla gioiosa per il quarto d’ora d’intervallo. Sospiro di sollievo. È andata. Sarà andata?

Mi avvio alla porta, serenamente stanco. “Prof, quando torna a farci supplenza?”. “Non ne avete avuto abbastanza? Chissà, capiterà prima o poi…”. Era la ragazza di prima, quella dagli occhi malinconici, ora azzurri e luminosi come il cielo d’estate. Sorrideva. Avevamo fatto soltanto un po’ di scuola. Eppure sorrideva.



*Professore di storia e filosofia presso il Liceo Classico Statale di Rieti “Marco Terenzio Varrone”, sezione D

[1] In latino, “un soffio di voce”, parole senza alcuna corrispondenza con la realtà.

[2] “Il tempo è un bimbo che gioca, con le tessere di una scacchiera: di un bimbo è il regno” (Eraclito, fr. 52 D-K).

[3] La metafora del bambino non deve, però, trarvi in inganno: il fatto di essere più “vecchi” non significa necessariamente più esperti, più saggi o più sapienti. Siamo simili e diversi nello stesso tempo. La conoscenza, nella storia, muta qualitativamente e non è detto si accresca quantitativamente.

[4] Ricorda: la dimensione problematica della tua esistenza va sempre al di là di te stesso. Per svariati motivi. Tu esisti, culturalmente e linguisticamente parlando, solo in quanto animale sociale che partecipa del patrimonio simbolico di una determinata comunità, storicamente fondata. Inoltre, gran parte dei problemi del singolo dipendono dal suo relazionarsi (bene o male) con gli altri membri della comunità. Come ebbe a dire il commediografo romano Terenzio: homo sum: humani nihil a me alienum puto (sono uomo, e credo che nulla di quanto è umano non mi tocchi). Esisti in quanto parte di un tutto: il tuo ambito esistenziale - non importa in che misura tu lo ritenga misterioso, incoerente, profondo, diverso, originale - è, necessariamente, relazionale. Per questo, è possibile conoscere solo attraverso il dialogo, il mettersi in relazione con gli altri.

[5] Che atteggiamenti del genere non siano una novità, parrebbero testimoniarlo alcuni frammenti del nostro Eraclito: “ascoltare non sanno né parlare” (fr. 19 DK); “odono e non intendono simili a sordi: per loro vale quel detto: sono qui e sono altrove” (fr. 34 DK). Come dire: chi non impara ad ascoltare non impara a parlare; il solo udire non basta, occorrono attenzione, impegno, disponibilità, voglia d’apprendere attraverso il confronto. Altrimenti si scivola nell’inconsapevolezza e nell’alienazione. Avete mai provato a discorrere con qualcuno che non vi sta a sentire? È lì con voi, ma nello stesso tempo è come se fosse da qualche altra parte. Capita a tutti, professori compresi. Spiegano, commentano, raccontano, illustrano, sostengono tesi, sciorinano nozioni, innaffiano le vostre giovani menti “a pioggia”. Ma quante volte si dimenticano di ascoltare… La comunicazione è un’arte difficile.

[6] Come nell’arte medica il sintomo rimanda ad una causa, ed è su questa che occorre intervenire per curare la malattia. Il medico deve individuare la causa (dià-gnosi, greco, conoscenza del perché, ovvero accertamento della natura di una patologia) e prevedere il decorso della malattia (pro-gnosi, conoscenza del futuro andamento di un determinato fenomeno) per poter prescrivere al paziente un’adeguata terapia.

[7] Il motivo è evidente. Ognuno di noi può avere una maggiore o minore propensione per una determinata attività, che so, giocare a calcio. È un fatto naturale, ci si nasce. Ma come per diventare campioni è indispensabile imparare tecniche e tattiche da allenatori esperti, così per filosofare l’istinto, comune a tutti, non basta, c’è bisogno di affinare il proprio bagaglio tecnico linguistico-razionale-culturale confrontandosi con i grandi filosofi del passato e del presente.

[8] Platone può esser considerato l’inventore del dialogo come forma letteraria. Nel Teeteto Socrate – utilizzato dal discepolo Platone come protagonista in quasi tutti i dialoghi – discute con i suoi interlocutori, tra cui, appunto, un certo Teeteto, sulla natura e sul senso della conoscenza.

[9] Nella traduzione italiana si perde il gioco di parole presente in greco. Stando al mito narrato da Esiodo nella Teogonia (“Generazione degli dei”), il padre di Iride, messaggera degli dei, era Taumante, il cui nome Thàumas, suona come la parola thàuma, meraviglia (dal verbo thaumàzein, meravigliarsi, stupirsi). L’accenno al mito rafforza quanto affermato in precedenza. La filosofia si colloca in una posizione intermedia tra uomo e dio, tra ignoranza e sapienza, proprio come la messaggera Iride mette in reciproca comunicazione il divino con l’umano. E come Iride è figlia di Taumante, così la filosofia deriva dalla meraviglia. Cioè: l’uomo è animale filosofico nella misura in cui è capace di provare stupore, ammirazione, curiosità. Seguendo questo istinto, l’essere umano progredisce lungo il cammino della conoscenza, avvicinandosi (senza mai raggiungerla del tutto) alla sapienza che è propria degli dei (vedi anche Simposio, 201 D – 204 C).

[10] La Metafisica, come buona parte delle opere aristoteliche, è redatta in forma di trattato scientifico. Il nome “meta-fisica” deriva, in origine, dalla collocazione del trattato metà tà physikà (biblìa), ossia “dopo i libri che trattano di fisica (in greco phýsis=natura)”, e risale all’ordinamento dato agli scritti del filosofo nel I sec. a.C. Per gli argomenti trattati nel libro (l’essere, la sostanza, la divinità), col tempo, metà assunse piuttosto il significato di “oltre”, “al di là”, andando a designare, convenzionalmente, tutto quanto si colloca oltre il regno naturale, ovvero il sovrannaturale (per Aristotele le cosiddette “cause prime”). Con “metafisica” si intende, dunque, la scienza che ha per oggetto il reale in sé al di là delle apparenze sensibili immediate.

[11] Per l’uomo la conoscenza è un fatto naturale, un istinto imprescindibile, e nessun essere può sottrarsi alla sua natura. Ne è segno tangibile il piacere che si ricava dal provar sensazioni. La sensazione può essere considerata la prima forma di conoscenza, la più immediata, cui segue il formarsi delle opinioni e, in ultimo, la riflessione razionale.

[12] Da sempre il cielo e gli astri sono stati per l’umanità fonte di stupore e oggetto di contemplazione. Tutte le civiltà antiche, di fatto, da un capo all’altro del pianeta, hanno fondato il proprio sentire religioso sull’osservazione dei fenomeni celesti ed atmosferici. L’astronomia, cui sono legati il calcolo matematico e la misurazione geometrica, può esser considerata, di diritto, la più antica tra le scienze.

[13] Alla meraviglia sono intimamente connessi il senso dell’ignoto e la consapevolezza di essere ignorante. Solo chi sa di non sapere, conscio dalla propria inadeguatezza, sente il bisogno di ricercare la sapienza. Il vero filo-sofo, dunque, è il principiante e la sua dimensione è la ricerca (vedi anche Platone, Simposio, 201 D – 204 C).

[14] Mýthos significa racconto, narrazione, favola. L’indagine razionale e sistematica che contraddistingue la filosofia propriamente detta, è preceduta, storicamente, dai grandi poemi mitologici e teologici. È possibile riscontrarlo non solo nella cultura greca, cui Aristotele si riferisce (basti pensare ad Omero ed Esiodo), ma in tutte le grandi civiltà mondiali, per esempio in Cina, in India, in Persia, in Iraq, in Egitto. L’istinto che sta alla base del mito, rileva Aristotele, è lo stesso che anima la filosofia, senza soluzione di continuità. Una considerazione analoga è possibile farla a proposito di ciascun essere umano: come un popolo, in principio, si esprime attraverso miti e leggende e solo in seguito raggiunge la maturità dell’espressione scientifica e razionale, così da bambini ci interessiamo di favole e racconti, cartoni animati e giochi fantastici, sviluppando soltanto con l’età adulta una visione più realista e raziocinante del mondo che ci circonda. Tuttavia, le due cose non si escludono a vicenda: nulla impedisce al filosofo di servirsi del mito per spiegare un concetto astratto, come fa spesso Platone nei suoi Dialoghi, e, allo stesso modo, nulla osta a che un professore, di tanto in tanto, sprofondi nella poltrona con in mano un buon vecchio Topolino. Importante è imparare ad utilizzare i diversi registri logico-linguistici al momento opportuno.

[15] Secondo Aristotele il sapere propriamente filosofico nasce da un’esigenza umana a sé stante, non derivabile dal bisogno di far fronte ai problemi pratici della sopravvivenza. La conoscenza tecnica, volta al miglioramento delle condizioni di vita (armi di difesa e strumenti per la caccia o l’agricoltura, abiti contro il freddo, manufatti di vario genere, abitazioni più confortevoli, ecc.), non è assimilabile alla filosofia. La differenza è spiegata nelle righe seguenti: mentre la tecnologia mira a soddisfare le necessità più elementari e poi a garantire comodità e benessere, quindi è un mezzo, l’indagine filosofica è condotta per il puro piacere della conoscenza, disinteressatamente, ossia è fine a se stessa. Così, ieri come oggi, la tecnica può aiutarci a risolvere qualche problema concreto, è utile, ma non ci dà alcuna indicazione sul senso della vita, su cosa sia buono o cattivo, bello o brutto, giusto o ingiusto. Un telefono cellulare, ad esempio, permette di parlare a distanza, eliminando barriere spazio-temporali fino a qualche anno fa insormontabili; ma non risolve in alcun modo il vero problema della comunicazione umana, non ci insegna le parole giuste da dire, né vince la timidezza, l’ignoranza o, peggio ancora, la stupidità. Come recita una famosa gag del comico Corrado Guzzanti, a proposito di internet: “se io ho questo nuovo media, la possibilità cioè di veicolare un numero enorme di informazioni in un microsecondo, mettiamo a caso ad un aborigeno dalla parte opposta del pianeta; ma il problema è: aborigeno, ma io e te che ca… se dovemo dì!”.

[16] La libertà cui fa riferimento Aristotele è di duplice natura: chi può dedicarsi all’indagine filosofica, innanzitutto, deve essere “libero” da quei bisogni naturali che è necessario soddisfare attraverso il lavoro, nei campi, nelle officine, in mare, e via discorrendo; in secondo luogo, la libertà si misura nella purezza dell’intento scientifico: la vera scienza è sempre fine a sé stessa.

[17] Alcuni filosofi medievali (per esempio San Tommaso), riprendendo Aristotele, ravvisavano nel “conoscere attraverso le cause” (scire per causas) l’essenza del metodo filosofico. Cioè, si comprende un determinato accadimento nella misura in cui si individuano e si chiariscono le cause che lo producono, ossia si fornisce una risposta al quesito perché?. Tale idea è altresì alla base della scienza moderna.

[18] Vedi nota n.15.

[19] La meraviglia, effettivamente, è una sensazione ambivalente. Ad un estremo possiamo collocare la curiosità viva, entusiasta, impetuosa del bimbo, dedito alle prime esplorazioni del mondo circostante. All’altro, invece, lo sbigottimento fulmineo ed angosciante che ci coglie dinanzi all’imprevisto, all’inopinato, al misterioso; sbigottimento che sovente si volge in cieco terrore. Quello stesso ignoto che attira a sé, suscitando il desiderio di conoscere, può paralizzare, gelare, tramutandosi in una questione di vita o di morte (pensate allo smarrimento del primitivo in balia dei fenomeni meteorologici, di cui ignorava le cause).

[20] La conoscenza, vera o presunta, è fonte di consolazione, ha il potere di attenuare dolore ed angoscia. È di uso corrente l’espressione “farsene una ragione”. La utilizziamo a ogni piè sospinto, posti dinanzi ad una cocente delusione, ad un amore che finisce, ad una persona cara che muore, o, più semplicemente, ad un evento sfavorevole, piccolo o grande che sia. Comprendere ci aiuta ad accettare e l’accettazione lenisce la nostra sofferenza, dà pace. Ad esempio, se ci convinciamo che il nostro ex-ragazzo/a, e sì, non faceva proprio per noi, non ci “meritava”, riusciamo a passar oltre, a scrollarci di dosso tristezza, frustrazione, rabbia. Allo stesso modo, la religione, qualsivoglia religione, fornendo una spiegazione complessiva del mondo e del destino umano, attenua l’impatto che hanno su di noi malattia, vecchiaia, morte. Per sopportare la vita abbiamo bisogno di credere in qualcosa.

[21] “Divenire” è un verbo fondamentale per la filosofia, una specie di “assioma”. Senza questo concetto non saremmo in grado di comprendere la realtà. Il Divenire, come ogni concetto assiomatico, è evidente in sé e per sé. Indica il continuo, inarrestabile mutamento di ogni cosa che ci circonda. Ogni cosa soggiace al Divenire, noi compresi (in quanto “cose tra le cose”, ovvero “esseri tra gli esseri”, e in quanto “soggetti conoscenti”). La stessa percezione del reale, esterna ed interna, è in “divenire” (o in fieri, latino, nel suo “esser fatto”, nel suo “trasformarsi” o “prodursi”). Esternamente osserviamo che tutto muta, in una maniera o nell’altra. Internamente, i nostri stessi pensieri sono movimento puro: ogni pensiero si succede all’altro ad una velocità strabiliante. Il corpo, nondimeno, subisce incessanti trasformazioni, basti pensare che ogni tre giorni, a detta degli scienziati, tutte le cellule che compongono ossa, muscoli, pelle, ecc., muoiono e rinascono, in un ciclo senza sosta. Tecnicamente, secondo la filosofia classica (aristotelica), distinguiamo quattro tipi di Divenire: nel tempo, nello spazio, nella qualità e nella quantità. Il “Divenire temporale” indica l’incessante scorrere del tempo (basta gettare uno sguardo alle lancette dell’orologio!). Il “Divenire spaziale” si riferisce al movimento degli oggetti nello spazio, al mutar di posizione (provate un attimo a stare fermi, occhi, mani, piedi, lingua!). Il “Divenire qualitativo”, invece, designa il trasformarsi delle cose esistenti (le persone invecchiano, il ferro arrugginisce, le foglie in autunno ingialliscono e seccano per poi rinascere verdeggianti in primavera). Il “Divenire quantitativo”, infine, accenna ai fenomeni di “accrescimento” e di “riduzione” (per esempio, l’aumento o la diminuzione dei nostri globuli rossi, come si può desumere dalle analisi del sangue).

[22] La consapevolezza del Divenire lascia sgomenti, frastornati, terrorizzati. Nella vita di tutti giorni, magari, non ci facciamo caso: il sole sorge ogni mattina, la colazione ci aspetta fumante sul tavolo della cucina, il bus arriva sempre, più o meno, puntuale, le facce dei compagni e dei professori sono le stesse, simpatiche o antipatiche. Eppure, tutto cambia, seppur impercettibilmente: l’anno scolastico procede, i genitori diventano un pochino più vecchi, un amore sfiorisce, qualche amico se ne va. Ma ci sono dei momenti nella vita, delle “situazioni limite” che ci gettano in faccia con maggiore veemenza la fatale ineluttabilità del Divenire: allora, solo allora, la trama degli avvenimenti e il trascorrere del tempo bussano furibondi alle porte della coscienza, e un mucchio di ricordi si affolla là fuori, alcuni piccoli e insignificanti, altri enormi e terribili come i fantasmi dei bambini e tutti, tutti vogliono entrare. E tu non puoi farci niente. La tragicità del Divenire consiste proprio nella sua irrimediabilità: il film non è riavvolgibile. È perché così deve essere. Quali sono queste situazioni limite? La paura della malattia, la morte di una persona cara, lo scoprire così, per caso, che la propria vita non ha senso, l’angoscia senza fine né oggetto, la noia, orrenda compagna di strada per molti. La filosofia rappresenta il rimedio, la cura escogitata dagli uomini, nei secoli, per far fronte al Divenire, per attenuarne la potenza terrifica, per addomesticare, in qualche modo, la “bestia”. Il segreto è tutto lì: il Divenire non si può arrestare, malattia, solitudine, vecchiaia, morte, non si possono scongiurare e il futuro appare sempre nebuloso, imprevedibile. Un solo “nemico” è alla nostra portata: si chiama “paura” ed è figlio dell’ignoranza. Le generazioni di uomini che ci hanno preceduti, tutti quanti senza distinzione, hanno creduto che attraverso la conoscenza delle cause del Divenire, del funzionamento della natura e del senso del reale (e della vita individuale), fosse possibile mitigare la paura di vivere, lenire le ferite psicologiche che ognuno reca impresse in sé, coltivare la speranza, sprofondare nel ventre di vacca del fatalismo o lasciarsi trasportare dalla lunga onda dell’oblio. Finché ci sarà un solo essere umano, questa esigenza, profonda e radicata tanto quanto l’istinto di sopravvivenza, tornerà a manifestarsi e con essa la filosofia, medicina, balsamo, terapia.

[23] Nel Simposio (dal greco sýn-póno, bevo in compagnia) Platone narra di un convito al quale prese parte Socrate insieme ad un gruppo di amici, composto da alcune figure di spicco dell’allora intellighenzia (classe intellettuale, elite) ateniese. I Greci amavano ritrovarsi in casa la sera dopo cena a discutere, recitar poesie, contar storie e bere vino (che era più denso e forte del vino presente sulle nostre tavole e andava diluito con alcune parti d’acqua in un grosso vaso, il cratere, da cui gli invitati attingevano riempiendo le coppe). Non sappiamo se si tratta di un fatto realmente accaduto. È assai probabile che Platone abbia lavorato d’immaginazione. L’antefatto e lo scenario, comunque sia, sono verosimili. Tema della sera, manco a dirlo, Èros. (Nessuno di voi si è mai ritrovato, un bel sabato sera, a discutere di amore con gli amici o le amiche dinanzi ad un boccale di birra?). Èros è il nome di una divinità, ma come tutti gli dei antichi indica una forza, un istinto, un’energia naturale. È dappertutto, nelle piante, negli animali, nell’uomo. Tutto si muove grazie ad Èros. I Greci non distinguevano amore e sesso. Per questo Èros indica amore a trecesentossessanta gradi, sia dal punto di vista psichico e spirituale, che da quello corporeo. Amore tra esseri umani, beninteso, il che non esclude i rapporti omosessuali che, a determinate condizioni, erano praticati soprattutto all’interno delle cerchie amicali maschili. L’amicizia vera e propria, come possiamo intenderla noi oggi, invece, era denominata filìa. Il brano che segue riporta l’intervento di Socrate. Già la gran parte dei convitati si era prodotta in discorsi poetici e altisonanti, rievocando antichi miti o disquisendo con sottili argomenti intorno alla natura di Èros. È il turno del filosofo e appare decisamente in forma, nonostante l’età. State a sentire…

[24] Meraviglia delle meraviglie! Socrate si stacca dal coro dei “sapienti” che l’hanno preceduto e preferisce raccontare un dialogo avvenuto molti anni prima, tra lui e Diotima, una sacerdotessa di Mantinea. Perché meravigliarsi? Ebbene, Diotima è anzitutto una donna e poi è straniera! È un po’ come se un grande intellettuale di oggi, invitato ad una trasmissione televisiva in prima serata, ammettesse la propria ignoranza e si limitasse a riportare le parole di una immigrata extracomunitaria. Tenete presente che la società ateniese del tempo era decisamente più maschilista e xenofoba (dal greco xenòs, straniero e fòbos, timoroso, ossia “che teme lo straniero”) della nostra (il che è tutto dire!). Ma si sa, le donne sono più esperte d’amore degli uomini (eterni bambinoni!).

[25] Si riferisce alla pestilenza che sconvolse Atene nel 430-429 a.C. durante la Guerra del Peloponneso contro Sparta (narrataci dallo storico Tucidide). Tra le vittime illustri del morbo Pericle, uomo politico e stratega ateniese.

[26] Il dialogo procede a parti “invertite”: Diotima gioca il ruolo che, negli altri dialoghi platonici, spetta a Socrate. È lei a condurre il discorso, ad interrogare il filosofo guidandolo sulla via del retto ragionamento.

[27] La retta opinione (in greco ortho-dòxa) è una forma di conoscenza intermedia tra sapienza ed ignoranza. Non è vera sapienza perché non se ne sa rendere ragione, se ne ignora la dimostrazione. È possibile, ad esempio, intuire le proprietà di un triangolo senza saperle giustificare tramite il teorema di Pitagora. Dunque, un conto è avere in testa una nozione, un conto è esserne pienamente consapevoli, conoscendone proprietà e cause.

[28] Gli dèi greci rappresentano ideali di perfezione. Ogni attributo, “buono”, “bello”, “felice”, “sapiente”, va loro riferito nella sua massima accezione. Qualsivoglia privazione (di bontà, bellezza, felicità, sapienza), seppur minima, costituirebbe una imperfezione, il che inficerebbe la loro “divinità”.

[29] Èros non né un dio né un mortale, bensì un dèmone (in greco, dàimon), ossia un essere intermedio tra divino e umano. La sua funzione è proprio quella di mettere in comunicazione le due sfere, olimpica e terrestre, immortale e mortale “in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito”. Questa funzione di “intermediario” ricalca uno stereotipo presente in tutte le religioni e religiosità antiche e moderne. Tradotto in termini cristiani, a noi più familiari, potremmo assimilare Èros ad una sorta di “angelo” (dal greco ànghelos, nunzio), un messaggero di dio, una guida spirituale. Non lasciatevi ingannare dalla somiglianza tra dèmone e demonio: durante la prima epoca cristiana, la polemica antipagana trasformò le antiche divinità greco-romane in entità malefiche, avversarie, luciferine, al fine di sradicare dalla mente e dal cuore delle popolazioni dell’area mediterranea (allora sotto l’impero romano, avviato verso la decadenza e le “tenebre” del Medioevo) ogni sopravvivenza degli antichi culti. Gli dèi olimpici furono perseguitati, i loro templi distrutti o trasformati in basiliche cristiane, la loro memoria offuscata. Per secoli sopravvissero sotto le ceneri degli incendi cristiani, ai limiti della civiltà, nelle campagne, nelle foreste, nei villaggi agresti (in latino pagus-i, da cui “pagano”). Con la riscoperta dei classici greci e latini, a partire dall’Umanesimo (XV secolo), la loro memoria è stata restituita alla tradizione culturale occidentale. Comunque sia, “Amore” ha mantenuto anche in ambito cristiano la sua funzione dèmonica: non è forse Amore a legare biunivocamente Dio e umanità? Che altro è lo Spirito Santo se non “Amore”? (L’assimilazione dell’Èros platonico all’Amore cristiano non è una invenzione/provocazione del vostro prof: risale a Marsilio Ficino e a Pico della Mirandola due grandi filosofi della quattrocentesca Accademia fiorentina).

[30] Per “arte divinatoria” (o “mantica”) si intende la cosiddetta “divinazione”, ossia la tecnica per scoprire gli avvenimenti futuri o quelli presenti ignoti, attraverso l’esame di determinati segni (per esempio, le viscere dell’animale sacrificale oppure il volo degli uccelli) che si crede esprimano la volontà divina. La comunicazione tra il profeta e il dio (nel mondo ellenico Apollo, celebri le sue profetesse, quella di Delfi in Grecia e di Cuma in Campania) è garantita, a detta di Platone, dai dèmoni grazie ai quali “in qualche modo gli dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia che nel sonno”. Per usare un’immagine, che forse vi è più nota, il ruolo del dèmone nell’arte divinatoria sta a quello dello “spirito guida” nelle sedute spiritiche.

[31] A questo punto Platone introduce il mito della nascita di Èros. L’introdurre un racconto (in greco mýthos) all’interno del dialogo è un espediente letterario di cui il filosofo si serve spesso per dare maggiore forza alle sue argomentazioni facendo leva sulla capacità immaginifica del lettore. Alcune idee sono più facilmente (e gradevolmente) assimilabili se esposte in forma narrativa, basti pensare alle favole per i più piccini o ai grandi romanzi d’avventura (per non parlare delle ben note parabole evangeliche).

[32] Nel brano che segue è esposta la più antica definizione compiuta del termine “filosofia”. In questo senso, Platone può esser considerato l’inventore della “filosofia” e l’iniziatore di una lunga tradizione di pensiero e ricerca che arriva sino ai nostri giorni. Filo-sophìa significa “amore per la sapienza” e filo-sofo è colui che, come Èros, ama la sapienza. Amare la sapienza vuol dire desiderarla, ricercarla con tutte le proprie forze, emotive ed intellettuali. Come un vero e proprio innamorato, il filosofo vive in funzione di Sophìa (Sapienza, Bellezza e Bene ad un tempo), la brama, si strugge per lei, per ogni dove la ricerca, sta sulle sue tracce come un segugio di razza. Colui che ama la sapienza, tuttavia, non è sapiente. Solo il dio lo è davvero. Nel divino felicità, serenità, bellezza, perfezione trovano la loro massima espressione. Né potrebbe essere altrimenti: se il dio desiderasse qualcosa, ciò implicherebbe una qualche mancanza, una certa imperfezione o incompletezza. Il che, naturalmente, è impossibile. Il dio è sapienza e in quanto tale è oggetto – non soggetto – d’amore da parte del filosofo, simile ad una donna bellissima che, imperturbabile e a volte cinicamente irridente, si lascia desiderare dall’amante. Il filosofo, al contrario, è carente, incompleto, imperfetto: il desiderio ch’egli prova per Sophìa, simbolo del divino, è direttamente proporzionale alla sua ignoranza. Egli non sa e più s’accorge di non sapere più aumenta la sua brama di conoscenza, s’irrobustisce il suo “appetito” di esperienze sensibili ed intellettuali, s’infiamma di Èros e partecipa della sua natura demonica. Così facendo si eleva sopra le schiere delle creature mortali (in greco thànatoi, in contrapposizione agli a-thànatoi, gli dèi immortali) e assume i connotati demonici e semi-divini di Èros. Al di sotto rimangono “ignoranti” e “bruti” (gli animali). Beninteso: il filosofo è e rimane “uomo” e “mortale”. Ma la sua è un’umanità piena, realizzata, vissuta intensamente ed interamente. A fare la differenza è la consapevolezza del suo stato “umano”, lo scoprirsi “non-sapiente”. Mentre l’”ignorante” non si rende conto della sua condizione “deficiente” e, inconsapevolmente, finisce con l’arrogarsi saperi e poteri che competono solo alla divinità, il filosofo sa di non sapere. Il “sapere di non sapere” è la chiave di volta della condizione filosofica, l’acciarino da cui scocca la scintilla di Èros, che tutto incendia. La vita filosofica è una vita di ricerca (in greco skèpsis) e l’Amore profuso in tale ricerca è premio a se stesso. Dell’Amore ci innamoriamo, in verità, dei suoi doni dolciamari godiamo, nei suoi cari affanni naufraghiamo. Sophìa se ne sta lì, è l’immagine stessa della Bellezza, occhieggiante sullo sfondo. Sorride benignamente al suo amante che la sfiora senza mai toccarla, inviolata, perfetta, luminosa, tutt’avvolgente.

[33] Talete (circa 624-546 a.C.) nasce a Mileto in Asia Minore (sulle coste egee dell’attuale Turchia) ed è tradizionalmente considerato il primo filosofo della storia del pensiero occidentale e il fondatore della cosiddetta “scuola milesia”, cui appartengono, in successione, Anassimandro ed Anassimene, a lui legati da vincoli di discepolato. La tradizione risale ad Aristotele che nel I libro della Metafisica traccia una specie di “storia della filosofia”, la prima del suo genere, prendendo in considerazione i “filosofi” che l’avevano preceduto. Il concetto di “filosofia”, così come lo si intende oggi, in realtà è un’invenzione di Platone (vedi sopra Simposio, 201 D – 204 C). Le scarse notizie a proposito di Talete, di cui non ci è pervenuta alcuna opera, risalgono a filosofi ed eruditi (i cosiddetti “dossògrafi”, da dòxai-grafo cioè “scrittori di opinioni”) vissuti parecchi secoli dopo. L’impressione generale che se ne ricava è quella di una sorta di “scienziato” a tutto tondo (tenete presente che in epoca arcaica “scienza”, “filosofia”, “matematica”, “astronomia”, ecc. sono ancora pressoché indistinte, ossia non hanno lo statuto di discipline a se stanti come le concepiamo ai nostri giorni). Non a caso, gli vengono attribuiti studi naturalistici, astronomici, matematici e geometrici (il famoso “teorema di Talete”, la cui formulazione, tuttavia, risalirebbe a più d’un secolo dalla morte del nostro) ed Aristotele lo definisce “fisiologo” (da phýsis-lògos, discorso sulla natura). Celebre è la sua teoria per cui tutte le cose deriverebbero e si formerebbero a partire dall’acqua, intesa come elemento primordiale dell’universo (in greco arché).

[34] Anassimandro (circa 610-546 a.C.) è il secondo filosofo in linea di successione della cosiddetta scuola di Mileto. Famoso il frammento della sua opera, uno dei pochi giunti sino a noi, citato da uno scrittore tardo-antico: “Anassimandro… diceva che inizio (arché) e elemento primordiale delle cose è l’illimitato (àpeiron) …E donde viene agli esseri la nascita, là viene anche la loro dissoluzione secondo necessità; poiché si pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione della ingiustizia, secondo l’ordine del tempo (Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele 24, 18 = Fr. 1 D-K)”. Il tono della frase è sostenuto, severo, sapienziale. Ad una prima lettura – immagino lo smarrimento, per non dire lo sgomento (o l’indifferenza?), che suscita in voi – risulta di difficile decifrazione. (La curiosità non basta: ci vuole pazienza e fatica… anche se è difficile da mandar giù. Del resto, se non si impara la pazienza, non si impara ad osservare. Se non si osserva, non si capisce. E senza comprensione non v’è coscienza). Provo a “tradurvelo” in parole più semplici. Il principio, ossia l’elemento primordiale da cui derivano tutte le cose della natura (cioè gli esseri che sono intorno a noi, minerali, vegetali, animali, o meglio gli elementi basilari – acqua, terra, fuoco ed aria – di cui si compongono) è “l’illimitato” (à-peiron significa esattamente “privo di limiti”, “senza contorni ben definiti”, quindi né questo né quell’elemento particolare). Dall’àpeiron, l’illimitato, indefinito principio di tutte le cose, essi nascono, vengono al mondo, prendono la loro particolare forma (ossia diventano acqua, terra, questo albero qui, questa persona qui, ecc.) e ad esso ritornano, cessando di esistere come entità particolari, in esso si dissolvono, muoiono (simili a fiumi che si riversano nel mare, perdendo così la loro identità di fiumi), come è necessario che sia (per legge di natura). Questo avviene perché ogni singolo essere, affacciandosi all’esistenza con una ben precisa forma (albero, uomo, ecc.), è come se facesse violenza ad altri mille e mille potenziali esseri concorrenti la cui “nascita” è ostacolata, impedita dalla cosa che viene ad essere. Giustizia vuole che, ritornando all’illimitato da cui traeva origine, la singola creatura si dissolva, perda le sue caratteristiche peculiari, onde permettere alle altre creature di prendere il suo posto sulla scena del mondo. E questo avviene ciclicamente, secondo l’ordine del tempo: si nasce, si vive, ci si ammala, si muore. Ad ogni cosa il suo giusto tempo per decreto “divino”. In questo senso, l’àpeiron, “il senza forma”, l’indicibile, ineffabile principio dell’universo (indicibile ed ineffabile perché non essendo una determinata cosa piuttosto che un’altra non rientra all’interno delle nostre possibilità linguistiche ed intellettuali: i nomi indicano “particolari” cose, con “particolari” caratteristiche, non vanno oltre) assume i connotati di un’entità “divina”, assoluta, onnicomprensiva. Questa specie di “dio-natura” crea gli esseri per “emanazione” ciclica e al termine del periodo di tempo loro assegnato li riassorbe in sé. Vale dire, siamo tutti parte del creato, parti transitorie, in divenire. La parte ha senso solo in relazione all’altra parte e al Tutto. È il ciclo della natura e della vita. Si tratta di un’intuizione di profondità abissale, in grado di varcare i secoli e le epoche storiche con una facilità e una freschezza strabilianti. Le più moderne teorie sulla formazione dell’universo a partire dal famoso “big bang” (di cui senz’altro avrete sentito parlare) si limitano a riaffermare attraverso fiumi di parole ed interminabili serie di dati scientifici quello che Anassimandro aveva tratteggiato in due righe. Una visione potente, che accenna ad una sapienza che era già antica ai tempi di Platone ed Aristotele (IV secolo a.C.). Riscoprirne e riviverne almeno una scintilla, vi assicuro, è un’esperienza di incomparabile bellezza (ma spetta a voi giudicare…).

[35] Non si hanno prove storiche certe dell’eventuale influsso esercitato dalle cosiddette culture “orientali” (mesopotamiche, egiziana, persiana, indiana, cinese) sul pensiero greco arcaico. Con “prove storiche” intendiamo documenti scritti, frammenti di testo, citazioni che attestino chiaramente una qualche relazione tra pensatori orientali e filosofi ellenici, come viaggi, scambi epistolari, incontri casuali. Il mondo antico – almeno fino al VI secolo a.C. – è parzialmente avvolto nelle nebbie della leggenda e risulta difficile dare credito alle poche informazioni giunte sino a noi. Resta il fatto che le pòleis greche, nella maggior parte dei casi, erano votate al commercio e ai traffici marittimi lungo tutto il bacino del Mediterraneo, compreso il Vicino e il Medio Oriente. È assai probabile, quindi, che con le merci viaggiassero anche racconti, idee, esperienze “scientifiche” e tecnologie. Lo stesso alfabeto greco, quello che vi fa dannare i primi mesi del quarto ginnasio e che accompagna costantemente i vostri studi matematici, si ritiene sia di derivazione fenicia. Il mercante deve necessariamente imparare l’arte del calcolo, per gestire gli utili in denaro e inventariare le mercanzie; l’arte della navigazione, la geografia e l’astronomia, per tracciare la rotta al porto di destinazione e sfuggire alle mille insidie del mare; le lingue e le culture straniere, per relazionarsi con clienti e fornitori. Senza la scrittura, tutto questo sarebbe semplicemente impossibile. D’altra parte, gli studiosi di filosofia comparata, pur in assenza di prove documentali, hanno individuato analogie ed assonanze tra alcune teorie espresse dai cosiddetti filosofi “presocratici” (antecedenti o contemporanei a Socrate, V secolo a.C.) e altre di provenienza “orientale” (egizia, induista, buddista, taoista, ecc.). Vale comunque il principio generale secondo cui ogni popolo può dar forma alla propria identità culturale solo stabilendo relazioni e confronti con culture “Altre”.

[36] Vedi sopra Platone, Simposio, 201 D – 204 C.

[37] Con “dogmatico” (dal greco dogma, inizialmente “parere”, “opinione”, che nella terminologia cristiana assunse il significato di “parere decisivo, definitivo”) s’intende chi adegua rigidamente il proprio pensiero e la propria attività ad affermazioni, valori e principi ai quali attribuisce il valore di dogma, accettandoli con intransigenza e considerando assurdo qualsiasi dubbio e blasfema la posizione avversa.

[38] “Morale” deriva dal latino mos/moris che corrisponde al greco èthos. In italiano, tuttavia, si utilizza per indicare un comportamento improntato su principi e regole di derivazione religiosa. Se non viene altrimenti specificato (ad esempio, morale buddhista), morale suona come “cristiano”, in base alla lezione biblica ed evangelica. Per il credente, la morale dovrebbe essere fuori discussione, assoluta, dogmatica. “Etico”, invece, ha una valenza laica, filosofica e razionale.

[39] Che fonda, crea lo spazio teoretico e l’orizzonte di sensatezza di una scienza.

[40] La libertà appartiene all’essere umano in quanto tale come potenzialità, ma senza coscienza di sé e degli altri siffatta potenzialità non viene realmente attuata.

[41] Si cade in contraddizione quando si attribuiscono contemporaneamente due caratteristiche (o aggettivi, stati, situazioni, ecc.) contrarie alla stessa cosa. Cioè, se dico che in questo preciso istante a Rieti il tempo atmosferico è buono ma sta anche nevicando, cado in contraddizione. Delle due affermazioni contrarie (buono e cattivo tempo) una è vera, l’altra è falsa. Parimenti, mi contraddico se affermo e nel contempo nego la stessa cosa del medesimo soggetto, per esempio che ora io, lo scrivente, sto e non sto scrivendo questa nota a piè di pagina. Il principio di contraddizione è alla base della logica classica e, a quanto ne sappiamo, è stato compiutamente formulato, per la prima volta, da Aristotele. Lo schema logico della non-contraddizione è il seguente: A non è ad un tempo non-A. Ad esso si collegano il principio di identità (A è A) e il principio del terzo escluso (una cosa o è A o non è A). Nell’esempio sopra riportato la contraddizione, soltanto apparente, deriva dal considerare la scuola un’attività tutta seriosa, che esclude da sé curiosità e divertimento.

[42] Esemplare, a questo proposito, la vicenda di Socrate. Sottoposto a processo dai suoi concittadini nel 399 a.C., con l’accusa di corrompere la gioventù ed introdurre nuove divinità in Atene, sebbene si ritenga, a buon diritto, innocente ed abbia la possibilità di andare in esilio o di fuggire dalla prigione in cui è stato rinchiuso, accetta serenamente la condanna a morte votata dalla maggioranza dell’assemblea giudicante. La morte, per lui, è preferibile al commettere ingiustizia, violando le leggi di quella città, Atene, cui tutto sentiva di dovere, vita, alimenti, carattere, educazione. Questo il ragionamento che Platone mette in bocca al suo maestro, carcerato nel “braccio della morte” in attesa di bere il veleno:

« Poniamo che mentre siamo lì lì per fuggire di qui (o comunque vogliamo chiamare questa cosa) venissero le leggi e la città tutta, si piazzassero davanti a noi e ci chiedessero: "Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare?

Quale può essere il tuo intento, con questo gesto, se non di fare quanto ti è possibile per distruggere noi, le leggi, e la città intera?

O pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?".

Cosa rispondere, o Critone, a queste o simili domande?

Certo, ci sarebbe molto da dire (più di tutti ci riuscirebbe un retore) in difesa della legge che violerei, che impone che le sentenze pronunciate abbiano vigore. Preferiremo forse dare loro una risposta del tipo "la città ci ha fatto un'ingiustizia, emettendo una sentenza scorretta"? ». (Platone, Critone 50 A - B)